Mettere in comune il «mal di precariato»

Inserito in NPG annata 2019.

Gianfranco Zucca *

(NPG 2019-08-14)


 

Il lavoro è preoccupazione principale dei giovani italiani. Questa affermazione potrebbe essere sostenuta citando le numerosissime ricerche sul tema; esaminando romanzi e altre produzioni culturali; guardando la televisione o andando al cinema; oppure uscendo una sera qualsiasi con una comitiva di ragazzi; infine, indirettamente, origliando le conversazioni di madri e padri. Nelle pagine che seguono, si parte da questo dato di fatto per arrivare a proporre alcune iniziative che possano alleggerire i ragazzi dal peso di gestire in autonomia e sostanziale isolamento quello che non è esagerato definire il «mal di precariato». Per fare ciò si prendono le mosse da una considerazione semplice: i giovani italiani non sono diventati precari, ma ci sono nati.

NATIVI PRECARI

Per molti ragazzi il lavoro è sinonimo di contratti che scadono, occupazioni saltuarie e poco retribuite, periodi di ozio forzato, difficoltà nel vedere riconosciuti i propri meriti, impossibilità di programmare impegni e scelte. I giovani sono la componente maggioritaria di una nuova classe sociale: il precariato. Per i ragazzi che non hanno una famiglia alle spalle, in grado di supportarli nel percorso a ostacoli verso il lavoro, la precarietà non è un’esperienza passeggera, una fase di avvicinamento al lavoro «vero», ma una condizione che marca stabilmente l’inizio della vita adulta. In una recente ricerca dell’Iref questi giovani sono stati definiti «nativi precari» proprio a voler rimarcare il fatto che nella loro (breve) carriera hanno fatto esperienza solo della precarietà[1].
Per molti di loro, la socializzazione al precariato è stata precoce: i più giovani hanno sentito i propri genitori preoccuparsi per il lavoro, sono cresciuti in famiglie nelle quali gli episodi di disoccupazione sono stati frequenti, hanno visto i fratelli maggiori (i trenta-quarantenni) barcamenarsi tra un lavoretto e l’altro o decidere di emigrare. Si è creata un’ampia sotto-classe di giovani che magari a seguito di un abbandono scolastico decide di cercare lavoro, senza però potersi proporre con una qualche qualifica professionale. Tra i cosiddetti Neet, categoria statistica alla quale sono ricondotti i giovani che non studiano e non lavorano, il 35% ha conseguito solo il diploma di scuola media inferiore, tale dato è riferito alla componente tra i venticinque e i ventinove anni, quindi al netto dei ragazzi che potenzialmente potrebbero essere ancora all’interno del sistema formativo[2]. Per questi giovani con basse credenziali formative il mercato riserva solo occupazioni dequalificate, temporanee e ai confini dello sfruttamento: l’abbandono degli studi ha implicato un inserimento nel mondo del lavoro nelle posizioni di retroguardia. Un altro dato aiuta a comprendere meglio la situazione di questo segmento anagrafico. Tra i Neet si può distinguere tra coloro che sono interessati al lavoro e chi invece non è intenzionato a lavorare, all’interno del primo sotto-gruppo solo il 30% non ha mai lavorato, mentre un altro 29% è senza lavoro da più di un anno[3]. Il collegamento tra abbandono scolastico e disoccupazione di lunga durata lascia intendere la gravità di una condizione che è lontana dall’essere passeggera o transitoria: c’è una componente di giovani per i quali il lavoro è una meta particolarmente difficile da raggiungere. Quando si è in una situazione del genere, ossia di perdurante esclusione dal mercato del lavoro formale, un’occupazione irregolare appare come l’unica alternativa: è indicativo che tra il tasso di Neet e le stime sul lavoro irregolare ci sia una relazione quasi lineare[4].
Anche chi ha seguito percorsi formativi superiori ha esperito bruschi ridimensionamenti delle aspettative, ritrovandosi «imbottigliato» in occupazioni distanti dalle attese oppure in «situazioni» para-lavorative come ad esempio stage, tirocini e altre forme di lavoro (quasi) gratuito. Sulla carta il titolo di studio avrebbe dovuto assicurare migliori opportunità lavorative, invece, anche per loro la risposta alle richieste di inserimento stabile e soddisfacente nel mondo del lavoro è un rifiuto. Un rifiuto ricevuto nonostante le promesse di benessere e di abbondanza trasmesse dalla famiglia e dal sistema formativo: l’università di massa ha creato nei giovani attese elevate rispetto alla propria collocazione professionale. Il tutto, sebbene le condizioni economiche del paese stessero lentamente declinando e il sistema delle professioni continuasse a rimanere sostanzialmente chiuso. La generazione dei nati negli anni ’60 è stata probabilmente l’ultima a beneficiare di una reale mobilità sociale, per quelle successive si è trattato di una promessa tradita. L’Italia è diventato un Paese «bloccato» continuando a raccontare ai giovani che il futuro per loro sarebbe stato migliore di quello dei genitori. Si è creata quindi una dissonanza tra i messaggi ricevuti in famiglia e a scuola, secondo lo schema che Eva Illouz chiama «narrativa dell’auto-realizzazione»[5], e le esperienze professionali. Dopo aver coltivato grandi progetti personali e aver fatto importanti sacrifici (personali e familiari) per raggiungerli, molti giovani si ritrovano alla soglia dei trenta anni o peggio dei quaranta anni a fare l’ennesimo stage o tirocinio, ad aprire una partita IVA per esercitare una professione che di libero ha spesso molto poco. Il tradimento delle aspettative è acuito anche dalle disuguaglianze sociali: sebbene la crisi abbia colpito in modo trasversale buona parte della società italiana, chi proveniva da famiglie con un più possibilità economiche e risorse relazionali è riuscito a mantenersi nella classe sociale di origine. Per gli altri il rischio è lo scivolamento di classe (motivazione poco esplorata anche della mobilità verso l’estero)[6].
La concezione binaria del mercato del lavoro rende quindi sempre meno l’idea di come funzioni nella realtà, soprattutto quando si osservano i comportamenti dei giovani. Ci sono almeno tre categorie, sfumate e con ampi margini di sovrapposizione l’una con l’altra. Ci sono sicuramente gli insider: giovani che hanno ottenuto un impiego a tempo indeterminato e full-time, con una retribuzione equa e prospettive di carriera buone. La notizia è che sono molto meno del passato. Se si osserva il grafico del numero di under trentacinque che lavora quaranta ore a settimana (l’orario di lavoro standard) si osserva una diminuzione costante. Poi c’è il problema del mismatch tra formazione e lavoro: quanti sono i giovani che hanno trovato un impiego standard nel settore corrispondente con quello che hanno studiato? Se si considera quel sottogruppo dove orari, contratti, retribuzioni e settore sono coerenti si considera una ristrettissima parte degli occupati giovani. Prima notizia, anche chi il lavoro ce l’ha sconta qualche forma di disagio.
Poi ci sono gli outsider: ragazzi che non hanno mai lavorato, che hanno interrotto gli studi, oppure che sono disoccupati da un lungo periodo. Si è già detto come all’interno di questo gruppo il disagio sia particolarmente acuto, tuttavia la statistica non riesce a registrare le forme di compensazione messe in atto dai ragazzi. I Neet sono solo una categoria statistica (non a caso l’Istituto Toniolo preferisce identificarli come giovani senza segnali amministrativi di istruzione, formazione e lavoro), all’interno della quale si manifestano forme eterogenee di creazione di reddito: c’è il lavoro continuativo in nero, ci sono le occupazioni saltuarie, ci sono le forme di scambio e baratto su internet. Si pensi a chi fa reselling di scarpe da ginnastica, a chi vende piccoli oggetti artigianali sul web, a chi fa gioco d’azzardo con rischio controllato. Tutti bene o male si ingegnano. Sono occupati secondo le definizioni ufficiali? No. Stanno a casa sdraiati sul divano a non fare nulla: anche in questo caso la risposta non può che essere negativa.
Infine, ci sono i mid-sider: giovani che sono a cavallo tra l’essere inseriti ed esclusi, hanno un lavoro, magari ne fanno più di uno, ma guadagnano poco (non abbastanza per andarsene via di casa), farebbero volentieri un altro lavoro, anzi spesso lavorano per poter fare gratis (o quasi) un altro lavoro.
La generazione dei nativi precari è al suo interno molto differenziata, tutti però sono accomunati da un malessere.

MAL DI PRECARIATO

Negli anni ’30 un gruppo di ricercatori studiò in modo molto approfondito la transizione in atto a Marienthal, una cittadina vicino Vienna, nella quale a seguito della crisi era stata chiusa la fabbrica tessile che dava lavoro alla maggior parte dei capi famiglia. Nel breve volgere di un anno una parte significativa delle famiglie sprofondò in uno stato di apatia e incapacità di reazione[7].
Quasi dieci anni fa l'Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (Osha) lanciava l’allarme sulle conseguenze della precarietà a livello di salute fisica, emotiva e psicologica. Un richiamo che oggi è lontano dall’essere ridimensionato. Allo stesso modo l’Ilo ed Eurofound, due agenzie internazionali impegnate sul fronte della dignità e qualità del lavoro, hanno più volte evidenziato le conseguenze del lavoro precario sulla vita delle persone.
In tempi più recenti gli economisti hanno formalizzato lo scarring effect: ossia la tendenza dei disoccupati di lunga durata a ricadere in episodi di disoccupazione. L’espressione inglese sta a significare che l’esperienza della disoccupazione lascia cicatrici durature sulle persone in termini di capacità progettuali, affidabilità, fiducia[8].
Il lavoro precario è un problema non solo perché preclude l’autonomia economica, ma anche perché destabilizza l’identità individuale e lavorativa della persona con conseguenze psico-sociali significative. Una delle formule che meglio riassume la condizione precaria è stata proposta in un saggio pionieristico del 1999 da Richard Sennett[9]. Il sociologo americano analizzando le conseguenze personali del capitalismo flessibile, individua una dinamica di «corrosione del carattere», indicando con questa espressione la perdita del rispetto e della solidarietà tra lavoratori associata all’incapacità di differire il soddisfacimento dei bisogni personali in nome delle esigenze di una comunità. Il lavoro precario crea degli individui atomizzati, egoisti (non per cattiveria, si direbbe, ma per necessità), centrati sul lavoro e particolarmente vulnerabili. Ci sono almeno tre elementi che sostanziano questa corrosione del carattere e configurano una sorta di mal di precariato.

L’impossibilità di un’auto-narrazione professionale stabile

Qualunque lavoratore ha bisogno di collocare la propria quotidianità in una prospettiva più ampia, un orizzonte temporale nel quale le proprie vicende lavorative trovino una giustificazione. Un tempo la si sarebbe chiamata carriera, tuttavia oggi questo termine è sempre meno appropriato, soprattutto perché viene meno uno degli elementi costitutivi della carriera, ossia il progressivo miglioramento della posizione lavorativa: faccio sessanta ore di pratica legale a trecento euro al mese perché tra qualche anno sarò avvocato; faccio uno stage gratuito in quest’agenzia di comunicazione perché diventerò un pubblicitario. Queste auto-narrazioni valgono per tutti i lavori: anche il lavapiatti a determinate condizioni pensa a un futuro lavorativo in cui sarà diventato cuoco o addirittura chef. Il problema odierno è che le auto-narrazioni professionali – la vera motivazione per la quale lavoriamo, oltre ai soldi – sono sempre più spesso tradite dalla realtà dei fatti, dall’indefinito post-ponimento dei passaggi di status professionale: si può rimanere stagisti per anni, aspettare a tempo indefinito una stabilizzazione, passare da un lavoro di sopravvivenza all’altro, ritrovarsi per periodi più o meno lunghi in una situazione di ozio forzato. Le auto-narrazioni professionali sono sempre più frammentate e povere di senso, ciò spinge le persone a interrogarsi sulle proprie scelte: se non si riesce creare una cornice che dia significato si entra in crisi.

L’influenza dell’«ottimismo crudele» sulle scelte lavorative

Si pensa che i giovani accettino posizioni lavorative molto penalizzanti per bisogno. È vero, ma non solo. In alcune situazioni si rimane attaccati a un lavoro «scadente», sotto il profilo delle condizioni, perché socialmente riconosciuto e coerente con l’immagine che l’individuo ha di sé. Si finisce così per sviluppare un perverso attaccamento a un particolare lavoro perché esso stesso contribuisce a dare senso al proprio stare al mondo o, meglio, è coerente con l’idea di futuro che si auspica per sé stessi: in altre parole si preferisce fare lo stagista sfruttato in una casa editrice che il cassiere a tempo indeterminato in un supermercato. Questa relazione di attaccamento pone in secondo piano ogni realistica valutazione delle possibilità che la situazione evolva per il meglio: pur sapendo che quell’occupazione precaria non si trasformerà mai in un lavoro «vero», non la si abbandona perché non si sarebbe in grado di sopportate la perdita. Per sostenere tale scelta si enfatizzano i piccoli successi, ci si concentra su quanto di positivo c’è nel lavoro, non curandosi delle conseguenze negative della scelta: un cieco ottimismo continuamente smentito dai fatti, ma non per questo meno potente dal punto di vista motivazionale. Il lavoro precario se combinato con elevate aspettative professionali può sfociare in un atteggiamento di ottimismo crudele[10], per il quale ciò che si desidera per il proprio futuro professionale è anche ciò che rappresenta il principale ostacolo. Può accadere che quest’incanto ottimista termini per ragioni non dipendenti dalla volontà del lavoratore (il mancato rinnovo di un contratto o un licenziamento): in questi casi ci si ritrova profondamente frustrati, con la sensazione di aver perso tempo ed energie dietro a un sogno che non si sarebbe mai concretizzato. Il risveglio può essere molto doloroso.

Il pensiero del lavoro si mangia la vita

Avere un lavoro precario significa rimanere bloccati nel presente in una continua negoziazione con le emergenze quotidiane. Il lavoro non occupa una parte più o meno lunga della giornata, ma diventa una presenza pervasiva, una preoccupazione costante. Perderlo, cercarne un altro, tentare di tenerselo, il lavoro amplia il suo raggio di condizionamento sino a diventare l’elemento che maggiormente indirizza lo stato d’animo e l’umore dei ragazzi. Questa dinamica si esplicita in diverse situazioni. Sul luogo di lavoro, si assumono comportamenti e atteggiamenti tesi a dimostrare il proprio essere «indispensabili» così da scongiurare, almeno nelle intenzioni, la possibilità di licenziamento: l’eccesso di zelo, il prolungamento degli orari, la disponibilità incondizionata sono forme di difesa dal rischio di disoccupazione. A casa con il partner o con i genitori, il lavoro è argomento di discussione, di tensioni, di confronto tra le aspettative personali e ciò che le persone vicine si attendono dall’individuo, soprattutto per le giovani donne ciò può rappresentare un problema che culmina nella contrapposizione tra maternità e carriera. Nella vita di relazione e nel tempo libero, il lavoro indirizza la scelta delle compagnie e dei luoghi dove andare, ogni situazione può essere una potenziale opportunità di lavoro, le frequentazioni sono sempre meno disinteressate, ma celano un sotto-testo utilitaristico. Non è quindi solo il lavoro a essere precario, anche le relazioni, gli affetti, i sentimenti diventano precari.

CHE FARE?

Il malessere lavorativo della prima generazione nativa precaria può essere in qualche modo alleviato? La risposta è affermativa soprattutto se si è abbastanza lucidi da riconoscere che l’esigenza primaria, quasi vitale, è poter condividere la propria vicenda lavorativa con altri coetanei. L’esperienza della precarietà non è sempre ricondotta alla sua dimensione strutturale e macro-economica: oltre a un generico «c’è la crisi», le persone, soprattutto i giovani, tendono a non riconoscere la dipendenza dei propri percorsi dall’assetto generale dell’economia e del lavoro. Al contrario, si tende a colpevolizzarsi, a ricondurre la situazione che si sta vivendo a delle inadeguatezze personali, alla propria incapacità, a scelte sbagliate. Ridurre tutto alla dimensione personale è deleterio perché l’autostima è una risorsa emotiva e psicologica che riproduce lentamente. Se dopo una serie più o meno lunga di «fallimenti» lavorativi si inizia a percepire sé stessi come dei «perdenti», l’ipotesi che una persona possa trovare una via di uscita alle difficoltà lavorative si complica. In altre parole, il rischio maggiore è l’individualizzazione: la precarietà che da dato generazionale diventa attributo personale. Le responsabilità individuali non vanno certo misconosciute, ma bisogna essere in grado di dar loro il giusto peso, senza che questa ammissione paralizzi la capacità di modificare la propria vita. Per andare in questa direzione, ci sono diverse possibilità. Qui se ne propongono tre, con l’intenzione di suggerire delle piste di intervento flessibili e integrabili l’una con l’altra.

Gruppi di ascolto dell’esperienza lavorativa

Per quanto possa apparire in contraddizione con la succitata tendenza del lavoro a saturare le diverse sfere di vita, i nativi precari mostrano un bisogno di confrontare la propria esperienza di lavoro con altri coetanei, non necessariamente già conosciuti. I gruppi di ascolto dovrebbero essere auto-organizzati o minimamente sollecitati, non è fondamentale che siano moderati da una persona con competenze di gestione dei gruppi, può essere più utile una figura di facilitatore, una persona magari coetanea dei partecipanti che si faccia carico di agevolare la discussione e il racconto. All’interno dei gruppi di ascolto i giovani dovrebbero avere la possibilità di raccontare agli altri la propria esperienza, non censurando gli stati d’animo, i pensieri e le delusioni. Esprimere il proprio vissuto, così come ascoltare le storie degli altri, permette di relativizzare la vicenda personale, ricevere solidarietà, trovare alternative che non si erano considerate.

Spazi di co-working e mutualismo professionale

Soprattutto nelle professioni qualificate le carriere sono lente e tortuose: il rischio di rimanere bloccati in attesa del salto verso il lavoro può essere scongiurato incentivando forme di collaborazione tra giovani professionisti. Gli spazi di co-working, oltre a offrire un supporto logistico, permettono di conoscere nuovi colleghi, entrare in contatto con opportunità lavorative, sviluppare progettualità comuni. È importante che questi spazi siano ricondotti alla dimensione del mutualismo e dello scambio: non si tratta dunque di affittare scrivanie e postazioni, ma di creare ambienti di reciprocità e solidarietà professionale. Per cui si potrebbero adottare formule di ammissione miste: piccoli gruppi di professionisti che dovrebbero affiliarsi individui singoli; in alternativa, l’accesso potrebbe essere condizionato alla presentazione di un progetto di sfruttamento dello spazio concesso.

Occasioni di socializzazione al lavoro

Nel mondo del lavoro attuale le aspettative professionali devono fare i conti con le concrete opportunità. Le scelte formative dei giovani possono essere più consapevoli se sostenute da esperienze concrete. L’alternanza scuola-lavoro, se attuata in modo corretto, può essere una buona occasione di sperimentazione del mondo del lavoro. Tuttavia, non può essere sufficiente poiché non sempre le scuole hanno la capacità di offrire percorsi significativi. La possibilità di fare un’esperienza professionale reale, magari all’interno di un percorso progettuale definito e con responsabilità chiare, ha una forte componente orientativa poiché permette alla persona di comprendere se quella determinata professione è coerente con i desideri, le capacità e le competenze. Un modo per offrire opportunità di socializzazione al lavoro sono le call for volunteers, spesso si tratta di chiamate legate a grandi eventi come ad esempio le Olimpiadi o per fare un esempio italiano recente Expo Milano. Ciò non toglie che si possa replicare questo schema anche per eventi e progetti molto più piccoli.
Queste tre proposte sono solo alcune delle tante iniziative che si possono mettere in campo per supportare il percorso professionale dei giovani. Si tratta di azioni abbastanza «leggere», tuttavia se ben progettate e integrate nella rete dei servizi già attivi possono costituire un pacchetto di misure utile a compensare il problema della precarietà.

* IREF | Istituto di Ricerche Educative e Formative.

 

NOTE 

[1] Cfr G. Zucca (a cura di), Il ri(s)catto del presente. Giovani e lavoro nell’Italia della crisi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2018.
[2] G. Cavalca, Facce da Neet. Una categoria politica alla ricerca di identità in Fondazione Toniolo, Una generazione in panchina. Da Neet a risorsa per il paese, a cura di S. Alfieri, E. Sironi, Vita&Pensiero, Quaderni Rapporto Giovani, No. 6, 37.
[3] Cfr F. Pintaldi, F. Della Ratta Rinaldi, M. E. Pontecorvo, E. De Rosa Le tante facce dei giovani che non studiano e non lavorano, in Fondazione Toniolo, Una generazione in panchina. Da Neet a risorsa per il paese, a cura di S. Alfieri, E. Sironi, Vita&Pensiero, Quaderni Rapporto Giovani, No. 6, 154.
[4] Cfr G. Zucca, La «guerra» degli indicatori: il lavoro dei giovani attraverso i dati in G. Zucca (a cura di), Il ri(s)catto del presente. Giovani e lavoro nell’Italia della crisi, 25-26, tab. 1.3.
[5] E. Illouz, Intimità fredde. Le emozioni nella società dei consumi, Feltrinelli, Milano 2007.
[6] Per un’articolazione più ampia di questa tesi cfr. R. A. Ventura, Teoria della classe disagiata, Minimum Fax, Roma 2017.
[7] Cfr M. Jahoda, Lazarsfeld P. F., H. Zeisel, I disoccupati di Marienthal, Edizioni Lavoro, Roma 1986 (ed. or. 1933).
[8] Cfr S. Scarpetta, A. Sonnet, T. Manfredi, Rising Youth Unemployment during the Crisis How to Prevent Negative Long-Term Consequences on a Generation? OECD Social, Employment and Migration Working Papers No. 106, Paris 2010.
[9] R. Sennett, The Corrosion of Character. The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, W. W. Norton & Company, New York 1999.
[10] Cfr L. Berlant, Cruel Optimism, Dhuram: Duke University Press, 2011.