Verso una comunicazione

gentile

Intervista ad Alberto Meschiari

 

Da più parti si osserva con preoccupazione quanto sia diffuso nella comunicazione politica e interpersonale, soprattutto nei social media, il linguaggio dell'aggressività e dell'odio che porta a un imbarbarimento delle relazioni sociali a tutti i livelli. È urgente pertanto riscoprire il valore di altre modalità di comunicazione, più rispettose e civili, dove la gentilezza può giocare un ruolo importante. La gentilezza, infatti, è uno strumento prezioso per comprendere l'altro e costruire insieme un orizzonte comune dal quale osservare e risolvere i problemi. Benedetta Smargiassi, autrice di una tesi di laurea sul ruolo della gentilezza nei processi comunicativi, ha posto alcune domande su questo tema al filosofo Alberto Meschiari, evidenziando nella sua riflessione punti di contatto con Luigi Pareyson e Karl Jaspers. Il dialogo, oltretutto, offre a Meschiari la possibilità di spiegare il suo progetto di un'etica del reincanto che lo ha impegnato negli ultimi anni: rimettere al centro del discorso filosofico la persona con i suoi imprescindibili valori, contro la progressiva manipolazione e banalizzazione dell'esistenza.

Leggendo il suo libro Gentilezza. Per un'etica del reincanto (Edizioni Tassinari, Firenze 2017), emerge con forza un invito rinnovato alla scelta della gentilezza come abitudine, modalità di relazione con gli altri esseri umani e con il mondo. Com'è nato in lei l'interesse per questa tematica?

A un certo punto del mio percorso nella filosofia sentii l'esigenza di andare oltre il mestiere che avevo praticato fin lì di storico della materia. Per la mia sensibilità e natura volevo che la filosofia mi aiutasse a orientarmi nella vita, a rispondere a domande come queste: chi sono io? Come devo condurre la mia vita? Dov'è che ho sbagliato? Dov'è finito l'amore? Il primo atto di questo rivolgimento lo realizzai in un libriccino che pubblicai nel 2003 a Pisa: A cosa serve la filosofia nella vita? Mi interessava rispondere alla domanda: a cosa serve la filosofia nella vita, non nella carriera universitaria. Poi, guardandomi attorno e considerando quanto stesse dilagando un generale conformismo cominciai a lavorare a quella che avrei chiamato «etica del reincanto». Così nel 2010 – come vedi occorrono molti anni per elaborare qualche idea – pubblicai Riprendersi la vitaPer un'etica del reincanto.
Perché «riprendersi la vita»? Ce l'aveva forse rubata qualcuno? E in tal caso, a quale vita stavo pensando? L'etica del reincanto nacque da una constatazione: rispetto agli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in cui i grandi ideali sociali e politici nutrivano e stimolavano l'impegno personale e l'entusiasmo del fare insieme, a partire dagli anni Ottanta ho avvertito crescere intorno a me il disagio e lo smarrimento a mano a mano che il mercato prendeva il sopravvento sulla politica – determinando sempre più pesantemente i valori di riferimento e gli stili di vita – e la politica perdeva quell'affiato etico che l'aveva caratterizzata nella precedente stagione. Quei due processi concomitanti hanno portato allo sgretolamento non solo della compagine sociale ma anche dell'identità personale, finché la vita di ciascuno si è trovata sempre più disseminata in un pulviscolo di comportamenti privi di motivi aggreganti, di forti ragioni di coesione.
Di fronte a questa constatazione, ho cominciato a chiedermi se all'individuo non rimanesse altra possibilità che conformarsi allo strapotere del capitalismo neoliberista, penetrato fin nei meandri più intimi del privato, o se invece potesse sottrarre qualcosa di sé al suo condizionamento. Un poco alla volta il mio interrogativo si trasformò nell'assunzione di un impegno, nello spostamento dei miei interessi dalla Storia della Filosofia all'Etica. E qui la prima domanda che mi sorse spontanea fu questa: che cosa può fare un filosofo di fronte a questa realtà, in che modo può uscire dal "limbo" delle sue dotte ricerche e ridurre la distanza fra i suoi studi accademici e i disagi che serpeggiano nella società? Come può trovare una parola immediatamente operativa, che possa trasformarsi in azione?
Guardandomi attorno, mi parve di leggere su molti visi ogni giorno di più i segni di un sofferto vuoto esistenziale, unito all'incapacità di individuarne le cause; le invocazioni inascoltate di vite svuotate dall'interno, tutte ripiegate sulle merci, sul rapporto compulsivo con le meraviglie tecnologiche, come se fossero lampade di Aladino dai magici poteri, dispensatrici di promesse che non si avverano mai. Vedevo una sempre più diffusa obesità del corpo accompagnarsi a una complementare anoressia dello spirito. Forse, mi dicevo, abbiamo spinto troppo innanzi, con un'intenzione cieca e caparbiamente autodistruttiva, il nostro disincanto: niente ci colpisce profondamente, niente ci tocca veramente, tutto ci è indifferente allo stesso modo. Ostentiamo perfino con sfrontatezza il nostro disincanto come un segno di virilità e di emancipazione. Ma l'indifferenza, il non dare importanza a niente, sono il suicidio dell'anima.
Dal mio punto d'osservazione ho creduto di individuare un motivo di questa sofferenza. Presi nell'ebbrezza del consumismo, abbiamo trascurato e poi abbandonato del tutto la cura della nostra spiritualità, come se fosse un accessorio superfluo nella costruzione della personalità o una zavorra che rallenti la fretta con cui ci affanniamo a tenere il passo del mondo. Ci dimentichiamo facilmente di non essere solo corpo e mente, ma anche spiritualità, e viviamo come se non fossimo toccati da questa dimensione costitutiva di un'esistenza degna di essere vissuta. Discendono in gran parte da qui, a mio avviso, il nostro disagio, il nostro malessere, la nostra aggressività. Perché viviamo costantemente fuori di noi, siamo assenti a noi stessi per gran parte della nostra vita o per tutta, come se il nostro corpo e la nostra mente fossero case disabitate, abbandonate dal loro inquilino. La vita è anche una questione di equilibrio: fra corpo•, mente e spiritualità.
L'etica del reincanto prende il suo nome e la sua ragion d'essere dal suo opposto, il disincanto. Di disincantamento del mondo parlò per la prima volta l'economista e sociologo tedesco Max Weber nel 1917 in una conferenza che tenne a Monaco di Baviera e che pubblicò due anni dopo con il titolo di Wissenschaft als Beruf (La scienza come professione). Con quel termine egli si riferiva all'effetto del processo di intellettualizzazione e razionalizzazione che costituiva per lui l'essenza del capitalismo. Da allora, il disincanto ha fatto molta strada e ha preso la forma della mercificazione di ogni esistente, esseri umani compresi, perché ridotti a cose, strumenti e non fini. Negli ultimi decenni, la razionalità neoliberista ha spinto gli esseri umani sempre più verso un progressivo processo di desolidarizzazione. Le dinamiche che vigono in economia hanno finito per invadere e determinare anche la sfera privata e relazionale, portando a considerare sé stessi, gli altri e la natura in un'ottica strumentale, di prestazioni e guadagno. Il Sé, l'altro e la natura sono stati ridotti a cose manipolabili per i fini del mercato: quanto si possono sfruttare? Quanto se ne può ricavare? Questo significa oggi disincanto. Se non che, ciò che l'uomo desidera nei recessi più profondi e più intimi di sé stesso, ci ricorda il filosofo basco Fernando Savater, e da cui tutti gli altri desideri discendono, è di non essere cosa (El contenido de la felicidad).
Ora, se questa è la situazione, la mia domanda è se non possiamo muoverci noi, singolarmente, quando non si muovono le condizioni oggettive e non s'intravedono soluzioni collettive, chiedendo alla filosofia che cosa si possa fare, individualmente, per contrastare questa frustrazione nell'universo dei valori, questa crescente perdita di senso dell'esistenza. L'individuo che non trova più conferma delle proprie convinzioni nell'ideologia politica e che sente di non essere appagato dalla fede religiosa in un qualche problematico aldilà, non può imparare a liberarsi da sé dai troppi condizionamenti di questo modello socioeconomico? La mia risposta è sì. Il singolo ha una vita sola, e non può attendere i tempi di maturazione della società o della politica affinché essa cambi. Può invece avviare responsabilmente da sé un processo di autoliberazione e di autoformazione. E può farlo, cominciando col rimettere al centro della propria attenzione la persona con i suoi valori, contro la progressiva banalizzazione dell'esistenza. È qui che si aggancia il discorso sulla gentilezza.
A fronte del significato di mercificazione di ogni esistente assunto dal disincanto postmoderno, reincanto ha da significare allora religiosità, religiosa cura del vivente, rispetto per ogni essere umano e per la natura, che vanno considerati «fini in sé», come chiedeva Kant, e non esclusivamente «mezzi per noi». Superare il disincanto dell'utile, del funzionale, del calcolabile, del quantificabile, per incontrare sé stessi, l'altro e la vita, per riscoprire lo straordinario nel quotidiano, il dialogo, il silenzio, l'ascolto, la crescita culturale, la comunicazione autentica, l'immedesimazione e il sentimento della comunione di destino. E perfino l'amore. (Su questi temi ho pubblicato cinque strategie del reincanto: Sul dialogo, Il libriccino del silenzio, Filosofia del camminare, L'arte di amare, Il magico mondo dei libri). La devastazione dell'ambiente e della morale, la degradazione delle relazioni umane sono anche figlie del disincanto a oltranza, della «desacralizzazione radicale del mondo in cui viviamo» (Savater).
Anche Umberto Galimberti sospetta che la malattia dello spirito contemporaneo derivi dall'aver perduto non tanto Dio quanto l'incanto del mondo, la capacità di trovarvi «un riflesso dell'anima». Per James Hillman abbiamo svuotato il mondo della sua anima (L'anima del mondo e il pensiero del cuore). Viviamo continuamente indaffarati nell'inessenziale, è per questo che abbiamo l'impressione che l'esistenza sia soprattutto «una continua fuga, un divenire in perdita, lo svanire di qualcosa che non si è mai posseduto, che non c'è mai stato» (Claudio Magris, Alfabeti). Lo sentiamo che nella vita c'è qualcosa di veramente desiderabile, però questo desiderabile ci sfugge sempre, perché abbiamo sempre qualcos'altro da fare. E allora tutta la nostra vita, quotidianamente presa da questo qualcos'altro, finisce per ridursi a fare qualcos'altro (Francesco Alberoni, Innamoramento e amore).
È questa la vita che ci viene quotidianamente sottratta – insieme al tempo per viverla – da una continua deviazione della nostra attenzione e delle nostre energie su cose futili e banali, che non faranno mai biografia: è la vita interiore, la vita dell'anima. Gli ultimi trent'anni ci hanno lasciato solo un corpo e una mente – facilmente sostituibili da quelli di chiunque altro – e ci hanno svuotato della spiritualità, della nostra interiorità, del luogo cioè in cui noi siamo veramente unici e insostituibili, dove proviamo emozioni e sentimenti, dove sappiamo soffrire e gioire, dove possiamo trascenderci grazie alla bellezza. L'etica del reincanto è dunque una proposta di ri-orientamento esistenziale, una sorta di bussola per la conduzione della vita.
Nel febbraio del 2017 riprendeva a Parma l'annuale ciclo di conferenze filosofiche Pensare la vita, che quell'anno aveva per tema L'arte di vivere. Io proposi di parlare della gentilezza, perché mi pareva che rientrasse bene nell'arte di vivere e fosse al tempo stesso una forma di reincanto. Ma come mi sia venuto in mente quell'argomento, francamente non lo ricordo.

Il suo testo si sviluppa come una conversazione con un giovane interlocutore, quasi a ricalcare il rapporto maestro-studente tipico della Grecia antica. Nella scrittura si rivolge a un Tu particolare, oppure si tratta di un dialogo aperto con le nuove generazioni? Ritiene che ci sia spazio nel mondo globalizzato per la riscoperta della gentilezza, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani adulti in quanto neo o futuri cittadini del mondo?

Uno dei miei difetti è quello di pensare sempre il rapporto con í giovani come un rapporto pedagogico. Forse perché sento la differenza di età e di esperienze. Non ho amato molto parlare a intere scolaresche: è dispersivo e mi sembra di non rivolgermi a nessuno in particolare, ma a un soggetto collettivo indistinto. Invece ho sempre amato molto il rapporto a due. Sì, forse questo fa un po' Grecia antica. E poi, in quanto adulto, concordo con Bertrand Russell quando scriveva come esergo alla sua Storia della filosofia occidentale: «Insegnare a vivere senza la certezza e tuttavia senza essere paralizzati dall'esitazione è forse la funzione principale a cui la filosofia può ancora assolvere nel nostro tempo, per chi la studia». Insegnare a vivere: era questo che mi piaceva nel rapporto coi giovani. Non insegnare cosa ha detto Hegel o cosa ha detto Kant, secondo il riassunto del manuale. Ma insegnare a vivere. Servendomi ovviamente anche dei filosofi, così come degli scrittori e dei poeti. E perfino dei film o delle canzoni. Ne parlo nel mio ultimo libro Itaca. La navigazione della vita (commento a Kavafis).
No, non si trattava di un Tu particolare, è che mi capita spesso di rivolgermi a un Tu, così, del tutto spontaneamente. Il primo opuscolo che ho pubblicato, di sole 12 pagine, al prezzo di 1 euro, si chiama Lettera ai giovani sull'amore. Anche là mi sono rivolto a un Tu, forse a un figlio e a una figlia immaginari che non ho. Come scrivi tu: è forse il desiderio di un dialogo aperto con le generazioni più giovani. Un altro dei miei opuscoli, Il mondo che vorrei, inizia così: «Mia dolcissima giovane amica, mi chiedesti un giorno, mentre scendevamo dai monti in uno splendido autunno di sole, di descriverti il mondo che ho sognato, il mondo che vorrei. Lo chiedevi a me, che ho la maggior parte della mia vita alle spalle, affinché il mio racconto ti aiutasse a orientare meglio la tua, che ti attende davanti. Come vedi, non ho dimenticato la mia promessa di farlo. E se non ti ho risposto subito, è perché mi sono riservato il tempo di dedicarmi interamente a te, con tutto il mio affetto e la mia attenzione. Le risposte, sai, non stanno sempre bell'e pronte nella mente. A volte occorre lasciare che sia il cuore a trovarle». (L'accenno alla montagna discende dal fatto che per 17 anni ho accompagnato dei gruppi a camminare in montagna).
Deve esserci questo spazio per la riscoperta della gentilezza. E nella misura in cui non c'è, dobbiamo impegnarci a crearlo. In ogni occasione possibile. Nella quotidianità. Quanto ne saremo arricchiti anche noi!

Nella lettura di Gentilezza ho trovato notevoli punti di contatto con due filosofi contemporanei, di cui ho cercato di analizzare la costruzione filosofica circa la comunicazione, ritrovandone dei tratti riconducibili alla categoria di gentilezza. In modo particolare, il focus è stato posto su Verità e interpretazione di Luigi Pareyson e Chiarificazione dell'esistenza di Karl Jaspers: in entrambi gli autori è attribuita una notevole importanza all'apertura sincera nei confronti delle prospettive altrui, che rappresentano l'unico e indispensabile mezzo per un confronto interpersonale autentico. Ritiene che ci siano consonanze tra il loro impianto filosofico e i concetti da lei espressi in Gentilezza? Può la gentilezza essere modalità di facilitazione per un dialogo volto a un ampliamento della comprensione della realtà dei singoli e delle comunità?

Credo in effetti che ci siano le consonanze a cui fai riferimento, anche se conosco meglio Karl Jaspers di Luigi Pareyson, che tuttavia stimo molto. Ti confesso che trovarmi collocato in compagnia di due autori di questo calibro mi ha fatto tremare le vene nei polsi! Il primo, un grande maestro; il secondo, un gigante addirittura. Ma se la lettura dei loro libri e del mio opuscoletto ti ha dato qualcosa, ne sono molto lieto. Fra l'altro, so bene che le mie modeste considerazioni vanno d'accordo con l'esistenzialismo. Anzi, con gli esistenzialismi, al plurale. Ho imparato molto da questa corrente di pensiero, già a partire dalla frequentazione di Soren Kierkegaard tanti anni fa. Fu lui a spostare decisamente i miei interessi dalla Storia della filosofia all'Etica, con le sue domande inquietanti.
Sono passati tanti anni ormai dal giorno in cui mi colpì profondamente una sua domanda che poneva a bruciapelo in Aut-Aut: cosa ne diresti, diceva, se chiedessi alla filosofia cosa deve fare l'uomo nella vita? È davvero un argomento terribile contro di essa, se non ha nulla da rispondermi. Ciò che m'interessava riguardava il mio orientamento sul mondo e nel mondo, il mio bisogno di dare un'impostazione alla mia vita, di avere dei riferimenti che mi aiutassero a capire dove mi trovavo nel mio cammino, non la storia della filosofia occidentale o quella della Chiesa di Danimarca. Queste sono informazioni per la mente. Quelle sono domande per lo spirito, vale a dire formazione.
Jaspers è stato uno dei miei autori, anche se non dei più importanti. La sua Psicopatologia generale mi suggeriva delle osservazioni fondamentali, ad esempio quella secondo cui l'anima non è uno stato definitivo, ma un divenire, evolversi, svilupparsi. Oppure quest'altra: la malattia psichica ha le sue radici nell'insieme della vita e per la sua comprensione non si può staccare da essa. Un'osservazione che ebbe grandi conseguenze in psichiatria. O ancora: ci sono profondità dell'essere umano che non si possono conoscere psicologicamente, ma che solo la filosofia e la poesia possono illuminare. Questa colpì molto Eugenio Borgna. O questa: colui che descrive cerca di fornire al lettore, usando un linguaggio comune, un quadro vivace, chiaro, senza elaborare concetti. Nel suo stile c'è qualcosa di artistico. L'analitico invece non traccia quadri. Egli pensa più di quanto possa osservare, e ogni osservazione si trasforma immediatamente per lui in un lavoro intellettuale. Uccide il fatto psichico vivo, per possederne i concetti. Per questo, tutto ciò che ha acquisito è una base sulla quale può costruire sistematicamente, secondo un piano. E qui cade la differenza fra spiegare e comprendere. La comunicazione avviene sul piano del comprendere. La scienza sul piano dello spiegare. Oppure la sua Psicologia delle visioni del mondo, dove afferma che la vita è un compito, una responsabilità, un'esperienza a cui non si può porre un termine conclusivo. Ma ho attinto molto anche ad altri esistenzialismi, a JeanPaul Sartre (con la sua idea del farsi progetto a sé stessi), a Martin Heidegger (trascendere il puro esserci per fondare se stessi, per diventare esistenza).

Il suo libro traccia un profilo ben definito della categoria della gentilezza, identificandola come una scelta consapevole e costantemente rinnovata da parte del soggetto, e offre interessanti spunti applicativi validi per ogni situazione. Nel testo, come anche in Pareyson e Jaspers, si fa riferimento alla reciprocità come vincolo alla nascita di una comunicazione autentica. Nonostante ciò, è possibile, a suo avviso, applicare la gentilezza in contesti oppositivi? Come si può fare, e quali sono secondo lei i risvolti dell'utilizzo della gentilezza in terreno di conflitto?

Temo proprio che non sia possibile. Temo che la gentilezza possa praticarsi solo su un terreno di reciprocità, anche se inizialmente magari un po' scettica e sospettosa. Personalmente, sono molto intollerante nei confronti degli arroganti e degl'intolleranti. Ciò che credo si possa fare è tentare di ammorbidire le reciproche posizioni, cercare se non vi siano punti d'intesa. Ma quando non ci sono, quando l'altro non ha alcuna intenzione di porsi sul terreno del dialogo, la gentilezza è inapplicabile. Io non sono per «porgere l'altra guancia». D'altronde, se ci pensi, Luigi Pareyson ebbe un ruolo nella Resistenza contro il nazifascismo. Ciò significa che si scontrò con il muro dell'impossibilità di dialogare, di comunicare. In quel momento, la gentilezza con il nemico mortale diventa inapplicabile. Il rispetto e la reciprocità sono i fondamenti essenziali su cui si può sviluppare e praticare la gentilezza. Quando l'altro si sente rispettato, lo si dispone già a essere gentile. Ma se manca il rispetto, si ha prima l'esigenza di farlo valere. Quando l'altro Mostra l'intenzione di sopraffarci, bisogna ricorrere ad altre strategie: o la fuga o lo scontro frontale. Oppure, quand'è più grosso, l'astuzia di Ulisse.

La scelta della gentilezza si configura come un atto libero del singolo, ma gli effetti di questa decisione si riflettono anche su tutta la collettività. Sarebbe auspicabile, dunque, che la modalità di vita gentile fosse estesa il più possibile nella comunità in cui si vive, in modo da favorire il confronto aperto e la convivenza serena tra persone. Come si possono, a suo avviso, incentivare le soggettività ad abbracciare l'uso della gentilezza? È un processo possibile?

Beh, io credo che in molti casi la gentilezza sia contagiosa. Come ho scritto, mi pare, nell'opuscolo, gentilezza è anche il riconoscimento che l'altro ha, come noi, un'anima, una sua verità, una sua dignità, una sua finalità in sé. Quando percepisco che la persona che ho di fronte è disarmata, fragile, vulnerabile, che è magari frustrata dalla vita, amareggiata, mi viene spontaneo essere gentile, tenderle una mano. A volte basta una parola, un sorriso, una piccola attenzione, guardarla negli occhi. Questo le fa sentire che è accolta nel mondo, che è accolta dai suoi simili, non rifiutata con indifferenza. «La gentilezza nasce probabilmente da qui, dalla capacità di cogliere l'invisibile, di prestare attenzione alle emozioni nascoste, in noi e negli altri, nel riconoscere il comune destino. Cominciamo allora ad accorgerci, da un gesto, da uno sguardo, da una risposta, da minimo segno, che ogni persona che incontriamo è alle prese, proprio come noi, con la difficoltà di vivere. Evitiamo di aggredirla, avviciniamola con gentilezza, perché, se incontra solo gente aggressiva, si chiuderà sempre di più al mondo». E se noi siamo gentili con lei, è assai probabile che anche lei sia gentile con noi. Søren Kierkegaard annotava nel suo diario che «la trasparenza dell'esistenza esige che si sia ciò che si insegna». La responsabilità verso l'altro risiede anche, e forse soprattutto, nell'esempio che si dà con la propria conduzione della vita.
Alla tua ultima domanda le cose si complicano un poco, perché credo che entri in causa l'empatia. Empatia è la capacità di riconoscere i pensieri e le emozioni degli altri e di reagire con sentimenti consoni. È una reazione affettiva alle emozioni dell'altro che consente di capirlo, di sintonizzarsi sulla sua lunghezza d'onda. Ora, da un lato, essa pare avere un fondamento biologico, dall'altro ha certamente un fondamento culturale. In anni recenti la neurologia ha provato a cercare nella biologia la sede della genesi del male (a mio giudizio, la spina nella carne di tutti i filosofi). Scrive Simon Baron-Cohen (La scienza del male. L'empatia e le origini della crudeltà) che se si guarda al concetto di male per analizzarlo, non c'è alcuna spiegazione, mentre quello di empatia pare avere una capacità esplicativa. Il grado zero dell'empatia significa non avere consapevolezza di come ci si relaziona con gli altri, ignari che ci possano essere anche altri punti di vista. In Questione di cervello sostiene che il cervello maschile sembra essere programmato per la "sistematizzazione", ha la tendenza ad analizzare, a vagliare ed elaborare sistemi. Qualsivoglia sistema: motori d'auto, computer, scienza, matematica, ingegneria. Ma se il mezzo più adatto a capire e prevedere eventi e il funzionamento di oggetti è la sistematizzazione, il mezzo più adatto a capire una persona è invece l'empatia. Che sembra essere una caratteristica preferenziale del cervello femminile. Si tratta di due processi diametralmente opposti, che dipendono da regioni cerebrali distinte. Essere empatici significa leggere il clima emotivo che si stabilisce tra le persone, mettersi facilmente nei panni degli altri. I maschi assumono che esista una rappresentazione oggettiva della realtà, che ovviamente corrisponde alla loro versione dei fatti. Le donne, invece, partono dall'assunto che nel mondo vi sia la soggettività e lasciano spazio alle interpretazioni diverse, ognuna delle quali ha diritto di essere considerata valida.
Tra i fattori biologici che hanno buone probabilità di contribuire sensibilmente alle differenze tra cervello maschile e cervello femminile, afferma Baron-Cohen, vi è il sistema endocrino. I maschi producono più testosterone delle femmine, già prima della nascita. Il livello ormonale influirebbe sulla capacità di provare empatia. In particolare, più testosterone circola nel sangue, più il cervello sa comprendere i sistemi e meno sa cogliere le sfumature delle relazioni affettive. Un cervello dotato in misura media di entrambe le caratteristiche (empatia e capacità di sistematizzazione) sarebbe l'ideale. Il maschio sembra inoltre orientato a considerare gli altri e il mondo sul piano di una strategia (Mino Vianello, Genere spazio potere. Verso una società post-maschilista): non solo di spiegazione e di ordinamento, aggiungo io, ma anche di sfruttamento, di dominio, di sottomissione, di annientamento. Dunque come oggetti, mai come soggetti. Se da un lato è assai probabile che gli uomini non avrebbero potuto sopravvivere nella natura senza questa ragione strategica orientata all'esterno, non si può negare che essa abbia finito con l'estendersi al rapporto degli uomini fra di loro. Mentre è evidente che un approccio strategico, finalizzato al dominio, non è l'unico modo di relazionarsi. Tantomeno il più indicato a salvaguardare l'esistenza dell'umanità in questo particolare momento della sua storia. Se questo atteggiamento è estraneo alle donne è perché la percezione della propria soggettività consentirebbe loro di cogliere anche l'altro come soggetto.
Sventuratamente, a mio modo di vedere, il modello culturale e socio-economico patriarcale-maschilista in cui viviamo tende a sviluppare anche nelle donne solo il lato maschile della loro mente e dunque a promuovere anche in loro un approccio esclusivamente strategico agli altri, riducendo due diversi modi di intenzionare il mondo (cioè di attribuirgli un significato) a uno solo, quello maschile: un impoverimento assoluto, una perdita secca per l'intero genere umano. Dare voce in sé stessi a una mente androgina, come auspicava Virginia Woolf, a quella maggiore felicità creativa che si prova quando le due metà della mente, maschile e femminile, si congiungono, mi appare oggi come la realizzazione più urgente e più autentica di sé, come un obiettivo degno di essere perseguito con il massimo impegno e il più grande entusiasmo. Ora, le donne hanno già dato prova sufficiente di saper esercitare il lato maschile della loro mente anche meglio dei maschi, quando possano godere delle medesime condizioni, giacché vi sono state obbligate. Quand'è che i maschi seguiranno il loro esempio e impareranno ad ascoltare il lato femminile della propria? Quand'è che maschi e femmine impareranno finalmente ad attivare entrambi i lati della mente? Un'etica del reincanto non potrà affermarsi veramente senza questa rivoluzione. Che è sempre individuale, personale. Che grande obiettivo sarebbe, a cui la scuola di ogni ordine e grado dovrebbe mirare, insegnando ai ragazzi a coltivare il genio dell'infanzia, ad amare la poesia e i poeti, a valorizzare la propria creatività anche in questa direzione e non soltanto in quella matematica, fisica, informatica o economica; ad ascoltare emozioni e sentimenti, a riconoscere che la mente di ciascuno non è una ma due, maschile e femminile insieme. Questo si chiamerebbe veramente educare, formare. Che grande scuola di autentica democrazia sarebbe allora! In caso contrario, una scuola di pura informazione sfornerà solo cervelli maschili per il mercato, che non si pone certo come fine il bene degli esseri umani, ma esclusivamente il profitto di qualcuno. 

(FEERIA, 2022/1 - n. 61, pp. 8-14)