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    Anni Duemila:

    un mondo in armi

    Tavola rotonda di Testimonianze *


     

    Giorgio Beretta
    Rete italiana «Pace e Disarmo», ha lavorato anche per «Limes Toscana».

    Il tema che sono chiamato ad affrontare in questo Convegno è Anni 2000: un mondo in armi. Se guardiamo alla scena internazionale, di fatto, siamo in un mondo in armi e lo siamo in modo particolare in questo momento. Ma prima di dare dati e numeri sulle armi nel mondo, vorrei dire una cosa che secondo me è fondamentale e che, tra l'altro, è stata richiamata in un discorso del presidente Mattarella nei giorni scorsi al Consiglio d'Europa. L'umanità ha sempre davanti a sé due strade, due vie: da una parte la via del «diritto della forza», cioè affermare i propri diritti con la violenza, e dall'altra, la via della «forza del diritto», e cioè, il diritto si fa strada nella storia umana e si fa forte proprio perché è sostenuto dai popoli come modalità per regolare i rapporti umani e i conflitti. Queste due strade sono sempre davanti a noi, sono le due vie, possiamo dire così, che ha cominciato a tracciare l'homo sapiens da quando ha iniziato ad utilizzare la parola, il linguaggio per comunicare con suoi simili. La storia dell'umanità si può suddividere in queste due categorie: da un lato la «storia della forza», con le guerre e le violenze (che è ciò che prevalentemente si studia a scuola) e, dall'altro, la «storia del diritto», cioè l'emergere e il crescere del diritto nella coscienza dei popoli (che purtroppo viene poco studiata a scuola). Se ci pensiamo, il binomio «il diritto della forza» e «la forza del diritto» si applica sia ai rapporti interpersonali così come alle relazioni internazionali. Le due strade sono sempre davanti a noi: il «diritto della forza», farsi valere con l'uso della forza e della violenza, e la «forza del diritto», cioè far valere il diritto, i diritti, di tutti.
    Mi è tornata in mente questa distinzione nei giorni scorsi leggendo una dichiarazione del cancelliere tedesco Scholz, che ha detto: «Oggi il pacifismo è obsoleto». Contesto fortemente questa affermazione: ci sono diverse forme di pacifismo, ma il primo atto del pacifismo è, appunto, affermare la forza del diritto. Se il pacifismo è obsoleto significa che il diritto è obsoleto; ma se questo fosse vero ci dovremmo rassegnare alla logica della violenza, al «diritto della forza». Essere pacifisti significa, innanzitutto, affermare il diritto come mezzo per regolare i rapporti umani, significa affermare i diritti di tutti. Essere pacifisti non vuol dire fare le marce – poi andremo alle marce – ma prima, c'è questo: affermare la supremazia del diritto rispetto alla logica della forza e della violenza.
    Il diritto di tutti oggi sta scritto nella Carta delle Nazioni Unite, del 1945, che inizia con queste parole: «Noi, popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all'umanità...». E cioè, tutti gli Stati, ma attenzione, la Carta non dice noi «stati», «nazioni» dice «popoli» e pertanto, nelle Nazioni Unite dovremmo essere rappresentati tutti noi come popoli, come persone, prima ancora che come Stati...
    «Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvaguardare le future generazioni dal flagello della guerra». Questo è il compito fondamentale del diritto. Ed è su questo che la comunità internazionale, e il pacifismo, si deve impegnare. Poi vedremo in che modo. «Riaffermare – prosegue il prologo – riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell'uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole; a creare le condizioni in cui la giustizia ed il rispetto degli obblighi derivanti dai trattati e dalle altri fonti del diritto internazionale possano essere mantenuti; a promuovere il progresso sociale ed un più elevato tenore di vita in una più ampia libertà...».
    Se guardate bene qui c'è la descrizione fondamentale del pacifismo, e cioè, salvaguardare e preservare l'umanità dalla guerra, promuovere i diritti fondamentali, creare le condizioni per la giustizia e il rispetto dei diritti umani, promuovere il diritto sociale. Vedete, c'è una crescita di significato nei verbi e nelle frasi: «salvaguardare», «preservare», «promuovere», «creare le condizioni....». Questo è, nella sua essenza, il pacifismo. Se qualcuno afferma «Il pacifismo è obsoleto», beh, signori, non ci capiamo più, perché questa è la base non solo del pacifismo ma della convivenza umana.
    Salto varie parti della Carta delle Nazioni Unite, ma c'è un articolo della Carta che vi invito a leggere, potete trovare il testo anche in italiano sul sito dell'Università di Padova. L'articolo 26 evidenzia un punto fondamentale, questo: «Al fine di promuovere lo stabilimento e il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale con il minimo dispendio delle risorse umane ed economiche mondiali per gli armamenti». Per quanto riguarda la questione degli armamenti, la Carta delle Nazioni Unite ci dà quindi una direzione precisa: «il minimo dispendio di risorse umane ed economiche». Tutti sappiamo che non viviamo in un mondo pacifico. Tutti sappiamo che abbiamo la necessità di avere dei mezzi di difesa, anche militari; ma la Carta ci dice con «il minimo dispendio di risorse umane ed economiche». È questo il punto. Poi vedremo i dati, ma tenete in mente questa frase che è molto importante. Ovviamente la Carta delle Nazioni Unite riconosce il diritto di autotutela individuale o collettiva, cioè il diritto di legittima difesa dei popoli, ma non dice che debba trattarsi di una «difesa armata». È l'articolo 51: «Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale».
    La seconda Carta del pacifismo italiano è la nostra Costituzione. Dove all'articolo 11 c'è – e lo voglio leggere per intero, perché a volte ne viene letta solo una parte – quella che è la base del pacifismo di noi tutti come italiani, e cioè: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
    Se voi guardate bene, ormai siete esperti di analisi del testo, questo articolo non ha un punto, ci sono due o tre punti e virgola, a dire: questo è tutto un articolo, è un articolato, va preso tutto insieme. E l'articolo comincia con la parola «L'Italia». Fate attenzione perché questa parola della nostra Costituzione c'è soltanto due volte: all'articolo 1 e all'articolo 11. L'articolo 1 che dice «L'Italia è una Repubblica fondata sul lavoro» e all'articolo 11 «L'Italia ripudia la guerra...», con tutto il resto che ho appena letto. Fu scelta apposta questa parola, se andate a leggere tutti gli atti di preparazione della Costituzione, a dire che non è la Repubblica italiana che ripudia la guerra, non è la Nazione italiana, lo Stato italiano, ma è l'Italia, cioè noi come popolo, come persone, come persone presenti in quel momento, che erano i padri e le madri costituenti – vi ricordo che tra i 521 parlamentari che scrissero la Costituzione c'erano, un po' poche, ma c'erano 21 donne, che sono chiamate le madri costituenti (se volete fare una bella tesina per gli esami fatela sulle madri costituenti che hanno avuto un ruolo importantissimo, perché avevano avuto un ruolo rilevante anche nella resistenza partigiana, molte di loro erano state partigiane, alcune di loro erano state esiliate, altre avevano dovuto andare in clandestinità, cioè nascondersi, perché sarebbero state arrestate – e lo stesso valeva anche per gli uomini ovviamente).
    L'Italia, quindi noi come generazione presente, ma anche come generazione futura, ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli. Qui c'è già una parte dei principi del pacifismo e cioè la «non aggressione». Ma soprattutto va evidenziata l'espressione «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali»: questo impegna tutti noi italiani, e in modo particolare la politica e i politici, a trovare mezzi pacifici per risolvere le controversie internazionali. L'articolo usa la parola «ripudio» – termine che fu scelto dopo un'ampia valutazione di altre parole – che significa non soltanto «rifiuta», «rigetta», «rinuncia» alla guerra, ma vuol dire «rifiuta e condanna»: c'è un senso di condanna giuridica e morale in questa parola, così come fu espressa dai padri e dalle madri costituenti. Non solo. «L'Italia ripudia la guerra; consente in condizioni di parità con gli altri stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali a tale scopo». Voi che siete esperti ormai di analisi del testo, sapete che la prima cosa da guardare è il soggetto e i predicati, i verbi. E i quattro verbi fondamentali sono «ripudia», «consente», «promuove» e «favorisce». Come vedete, anche qui c'è una crescita di significato, di valore. Ecco il pacifismo. Cosa vuol dire creare la pace? Vuol dire ripudiare la guerra, consentire a limitazioni della sovranità, ma per favorire la pace e la sicurezza e la giustizia tra le nazioni e per promuovere e favorire le organizzazioni internazionali che sono preposte a questo. Ricordate inoltre che l'articolo 11 è parte dei principi fondamentali della nostra Costituzione, cioè quelli che stanno alla base di tutta la Costituzione. Questo dicono le Carte fondamentali della nostra convivenza: la Carta delle Nazioni Unite e la nostra Costituzione. Se però andiamo, adesso, a considerare lo scenario mondiale ci accorgiamo che purtroppo c'è stata una proliferazione degli armamenti, e soprattutto degli armamenti più pericolosi, che sono gli armamenti nucleari. Come veniva ricordato prima, gli armamenti nucleari di fatto pongono quello che possiamo dire una discriminante, un atto di divisione nella storia: c'è una storia prima della bomba atomica e c'è una storia dopo la bomba atomica. La convivenza, ma anche la guerra da quel momento non è più la stessa, non può essere più considerata con le categorie di pensiero dei secoli precedenti perché l'arma nucleare è un'arma di distruzione di massa. Esiste ancora la guerra tra eserciti, ma da quel momento appare e permane – e questa è la spada di Damocle che pesa sull'umanità – la minaccia atomica della distruzione di massa, distruzione di popoli e distruzione della natura e di tutti. Da questa consapevolezza nasce il Trattato entrato in vigore nel 1970, il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) ma anche, e va ricordato, il Trattato per la proibizione delle armi nucleari entrato in vigore il 22 gennaio 2021 che è stato promosso da numerose associazioni della società civile mondiale che fanno capo alla Campagna internazionale per l'abolizione delle bombe nucleari (la International Campaign to Abolish Nuclear Weapons - ICAN): questo Trattato proibisce e mette al bando le armi nucleari. Non l'hanno firmato le potenze nucleari e – lo dico con dispiacere ma anche con chiarezza – purtroppo non l'ha firmato neanche l'Italia che non ha nemmeno partecipato ai lavori preparatori: secondo me è inaccettabile che un Paese come l'Italia, che ha una Costituzione pacifista, non abbia nemmeno accettato di partecipare ai lavori preparatori di questo trattato: si potrà non essere d'accordo sul testo finale, ma non si può non partecipare ai lavori di stesura di un Trattato internazionale. Proprio per questo è da anni attiva nel nostro Paese la campagna «Italia ripensaci» per chiedere al nostro Governo, ai nostri governi, di firmare il Trattato e di partecipare alle prossime assemblee di revisione e implementazione.
    Sono stato molto lungo, ma vi devo dare alcuni dati sulla spesa militare mondiale, dati che potete trovare sul sito del SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute). Guardando i grafici che il SIPRI riporta notiamo che dagli anni 50 fino agli anni 80 vi è una costante crescita della spesa militare mondiale, ma poi a un certo punto, a partire dalla metà degli anni 80, la curva diventa discendente: ma, a partire dal 2001, la spesa militare mondiale torna a crescere e oggi, come veniva giustamente detto prima, la spesa militare mondiale supera i 2.100 miliardi di dollari. Ma il punto di ripartenza, di nuovo incremento della spesa militare–attenzione bene perché questo viene spesso dimenticato, ma se guardate bene i grafici risulta evidente – è praticamente il 2001, e cioè, dopo l'attacco alle Torri gemelle a cui ha fatto seguito la cosiddetta «lotta al terrorismo internazionale». In altre parole, la lotta al terrorismo internazionale è diventata il pretesto per tutti i paesi per una nuova corsa alle armi. Ora, se si vuole scovare e combattere i terroristi non si ha bisogno di cacciabombardieri e portaerei, c'è bisogno di intelligence per scoprire dove sono, come si organizzano: invece quella che cresce è soprattutto la spesa per armamenti e sistemi militari. Se guardiamo i dati della spesa militare mondiale ci accorgiamo che il 39% è ricoperto dagli Stati Uniti d'America, ma anche i paesi europei, nel loro insieme, ricoprono all'incirca il 25%: ciò significa che i paesi europei, sono di fatto oggi, al pari della Cina, la seconda potenza mondiale per armamenti.
    E qui c'è la nostra critica radicale, pacifista, a questo modello di difesa. Perché?
    I paesi europei e paesi della NATO, Stati Uniti compresi, spendono annualmente più della metà della spesa militare mondiale, cioè oltre un miliardo e 100 milioni di dollari. I paesi dell'Unione Europea – Regno Unito escluso – spendono, nel loro insieme, all'incirca 250 miliardi di dollari. Bene, con una spesa militare di 250 miliardi di dollari non sono in grado di difendere un paese aggredito come l'Ucraina? È come se avessimo una grande caserma armatissima e in fondo alla via viene aggredito qualcuno e tu non puoi agire con lo strumento militare, perché se utilizzassi quello strumento militare scoppierebbe una guerra con la Russia. Allora qual è il problema? Il problema è il modello di difesa, è che si continua a pensare alla difesa solo ed esclusivamente attraverso lo strumento militare. Ci stiamo armando fortemente, ma il modello di difesa è basato principalmente sullo strumento militare che è inadeguato nell'attuale contesto internazionale e la crisi ucraina lo dimostra chiaramente. Andrebbe individuato un altro strumento di difesa, che è quello, appunto, secondo il modello delle Nazioni Unite, che prevede anche forze armate di interposizione ma sotto l'egida delle Nazione Unite. In una parola, la difesa e la sicurezza non possono essere competenza solo dell'apparato, dello strumento militare: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino», afferma la nostra Costituzione (Art. 52). Ma non dice «la difesa armata», bensì «la difesa» e in questo invita, anzi impone, di implementare forme di «difesa civile, non armata e nonviolenta» come abbiamo proposto da anni attraverso una legge di iniziativa popolare che, purtroppo, il Parlamento non ha finora deciso di esaminare. Andrebbe ricordato inoltre, e anche questo lo dico con chiarezza, che il Trattato nordatlantico prevede all'articolo 1 quanto segue: «Le parti si impegnano come stabilito dallo statuto delle Nazioni Unite a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia e ad astenersi nei loro rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all'uso della forza assolutamente incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite». L'intervento militare degli Stati Uniti e del Regno Unito in Iraq nel marzo 2003, di fatto ha segnato un'aggressione al di fuori di ogni mandato internazionale da parte delle Nazioni Unite: in quel momento gli altri paesi della NATO avrebbero dovuto espellere gli Stati Uniti e il Regno Unito dalla NATO proprio per aver violato il primo articolo del Trattato. Se uno Stato viola i trattati internazionali e mette a repentaglio la sicurezza internazionale – non dimentichiamo che proprio l'intervento militare in Iraq è all'origine del proliferare di formazioni terroristiche a cominciare dall'Isis – significa che quell'alleanza non sta rispettando le sue stesse regole. E allora le possibilità sono solo due: o sciogliamo quell'alleanza o buttiamo fuori chi non rispetta i patti, non c'è altra possibilità. E questo il pacifismo lo afferma da almeno vent'anni, cioè dal momento in cui c'è stata l'invasione militare di Stati Uniti e Regno Unito in Iraq.
    Due parole anche sul commercio e l'esportazione di armamenti che è l'argomento che mi interessa maggiormente. Fin qui abbiamo parlato della spesa militare, una spesa militare che è andata discendendo e poi ricrescendo sulla spinta della lotta al terrorismo internazionale. Nello stesso tempo vediamo anche una forte crescita del commercio di armamenti, ancora una volta a partire dal 2001. Gli armamenti hanno un unico scopo: la difesa di uno Stato. Le Nazioni Unite riconoscono che ci può essere una spesa per gli armamenti, ma – come dicevamo – «col minimo dispendio di risorse umane ed economiche».
    Quello che vediamo invece è che gran parte degli armamenti italiani ed europei vanno a finire nelle zone di maggior tensione del mondo ed alimentano conflitti e repressione interna. I principali acquirenti di armi italiane, non da adesso, ma ormai da dieci anni, sono le «democrazie del Golfo Persico»: siete disattenti perché qualcuno di voi avrebbe dovuto dirmi, «Nel Golfo Persico non esiste nessuna democrazia, sono tutte monarchie assolute». Quindi non raccontiamoci la storia che gli armamenti che vendiamo nel mondo servono a difendere la democrazia. No, servono a difendere altri interessi. Possiamo mandare le armi all'Ucraina? È un paese aggredito, ce lo stanno chiedendo loro, perché non gli mandiamo le armi? Perché voi pacifisti non siete d'accordo a mandare le armi all'Ucraina? Perché se dovessimo mandare le armi a tutti i popoli e agli stati che sono aggrediti, dovremmo cominciare a mandare le armi ai palestinesi, i cui territori sono occupati da diversi anni da Israele, dovremmo mandare le armi ai curdi, dovremmo mandare le armi ai sarawi, dovremmo mandare le armi agli yemeniti, dovremmo mandare le armi agli egiziani, e invece l'Italia e l'Europa mandano armi a Israele che bombarda i palestinesi; mandano armi alla Turchia che bombarda anche in questi giorni i territori curdi; al Marocco che tiene repressi e nell'enclave i sarawi; all'Arabia Saudita che bombarda gli yemeniti, manda le armi ad al-Sisi e al Governo egiziano che tiene represso il popolo egiziano e mette in carcere gli oppositori politici. Quindi le nostre armi, italiane ed europee, non servono a difendere le democrazie, difendono altri interessi.
    Non solo non mandiamo armi ai popoli oppressi, ma riforniamo di armi quelli che li opprimono. Quindi, per favore, non raccontiamoci la storia che stiamo difendendo la democrazia, perché non è vera. Lo dimostrano i dati ufficiali della Legge 185 del 90, quella legge che veniva richiamata all'inizio di questo incontro che è nata grazie anche al fortissimo impegno che ci fu in quel tempo proprio di padre Balducci e tanti altri con lui. È una legge che non mette al bando il commercio di armamenti o l'esportazione di armamenti, ma dice: «L'esportazione e l'importazione, il transito di materiale di armamento, deve rispondere alla politica estera e di difesa dell'Italia, che ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali»: è l'articolo 1, comma 1, della Legge 185 del 90. E stabilisce una serie di divieti: «È vietato esportare armamenti a paesi in conflitto armato. È vietato esportare armamenti a paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni di diritti umani – purtroppo è stato aggiunto – accertati dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell'Unione Europea e dell'OSCE». Che cosa vuol dire? Che ci sono violazioni dei diritti umani, ma se non va qualcuno ad accertarle si può trovare la scusa di continuare a mandarglieli. Ed è quello che succede, purtroppo. Si dirà, l'industria degli armamenti è un'industria che serve anche per lo sviluppo economico, addirittura è scritto nel Libro bianco della Difesa del 2015: «L'industria della sicurezza della difesa costituisce un pilastro tecnologico, manifatturiero, occupazionale, economico e di crescita senza uguali per il sistema-paese a cui contribuisce principalmente attraverso diversi elementi». Poi vai a vedere i dati, c'è una relazione dello Studio Ambrosetti, fatta alcuni anni fa, che ci dice che l'industria degli armamenti praticamente sviluppa all'anno circa 16 miliardi di euro di fatturato. Ora, 16 miliardi di euro sono praticamente io 0,9% del prodotto interno lordo italiano. Non si può pertanto giustificare l'industria degli armamenti sulla base del fatto che sarebbe «un pilastro economico» e serva alla bilancia dei pagamenti. Le esportazioni di armamenti valgono intorno ai 5 miliardi di euro all'anno, mentre l'Italia esporta annualmente prodotti per un valore di qualcosa come 480 miliardi di euro: in parole semplici, l'esportazione di armamenti rappresenta all'incirca 1'1,04 % di tutta l'esportazione italiana, una quota marginale dal punto di vista economico e per la bilancia dei pagamenti. È paragonabile, di fatto, all'esportazione di prodotti di utensileria e ferramenta (4,8 miliardi di euro nel 2019), ma nessuno celebra la produzione e l'esportazione di utensileria e ferramenta come un'eccellenza del made in Italy. Ma allora perché queste esportazioni di sistemi militari? Perché serve per mantenere contatti politici e di tipo «strategico»: non è la rilevanza economica, sono due cose diverse. Anche a livello occupazionale l'industria nazionale degli armamenti impiega all'incirca 200-230nnila persone anche considerando tutto l'indotto: è praticamente lo 0,21% dell'occupazione in Italia, cioè, le persone che sono occupate nel settore della produzione militare sono il 0,21% di tutti gli occupati in Italia. Non sono molti e non si può dire che l'industria abbia una forte rilevanza a livello occupazionale. Quindi sarebbe l'ora di riconvertire, o meglio di ripensare al modello di difesa europeo, che non deve essere un modello di difesa aggressivo, ma un modello difensivo. Per esempio l'Italia, e pochi lo sanno, si è dotata dei caccia multiruolo Eurofighter, sta acquistando i cacciabombardieri F-35, e il cacciabombardiere non è un'arma da difesa, è un'arma d'attacco, perché il cacciabombardiere serve per cacciabombardare, per buttare le bombe da qualche parte. E l'Italia sta sviluppando adesso, insieme alla Gran Bretagna e alla Svezia, un altro cacciabombardiere, il Tempest, di sesta generazione, in competizione con il cacciabombardiere che stanno sviluppando Francia, Germania e Spagna. Ma, signori, di quanti cacciabombardieri abbiamo bisogno in Europa? E, soprattutto, chi dobbiamo cacciabombardare? Queste sono domande che noi, come Rete Pace e Disarmo facciamo da anni alla politica, la quale raramente risponde. Concludo con le bellissime parole di Balducci: «Se vuoi la pace prepara la pace». È un compito che – come capite – non si può fare a giorni alterni, ma che ci impegna tutti i giorni, e ogni giorno, e si può fare solo con mezzi pacifici. Se ci si impegna a fare questo si ha la pace, sennò si ha un altro modello di sviluppo che non è un modello pacifico.

     

    Marta Dassù
    direttrice della rivista «Aspenia», è stata viceministro ed è studiosa di questioni internazionali.

    Mi piacerebbe molto parlare del dopo guerra, purtroppo siamo alle prese con il ritorno della guerra in Europa, scenario rispetto a cui non eravamo mentalmente, psicologicamente, economicamente preparati. Il ritorno della guerra in Europa, con le sue conseguenze.
    C'è chi obietterà che di guerre europee ce ne erano già state dal 1945 in poi, nei Balcani anzitutto.
    Ma la guerra in Ucraina ha per noi europei una valenza diversa: perché coinvolge direttamente la Russia, la potenza vicina a cui avevamo delegato la nostra sicurezza energetica e che ha un ruolo determinante negli equilibri europei; perché esiste, per la prima volta dalla Crisi di Cuba del 1962, un rischio nucleare e perché non si vedono i contorni di una soluzione diplomatica.
    E la realtà è che i cittadini europei pensavano ormai di vivere in un'isola di pace, in particolare dopo la dissoluzione dell'URSS nel 1991. Questa idea – l'idea dell'Europa come blocco kantiano – si è dissolta sotto le conseguenze dirette e indirette dell'aggressione russa all'Ucraina, cominciata il 24 febbraio 2022. Un'operazione militare speciale – questa la definizione di Putin – che è in realtà una guerra di stampo imperiale, che non distingue fra obiettivi civili e militari. Cercherò di inserire la crisi che stiamo vivendo negli scenari geopolitici globali, dopo il doppio shock della crisi covid e di un conflitto in Ucraina che non sembra destinato a concludersi rapidamente – lo scenario è quello di una guerra di attrito, con gravissime conseguenze umanitarie ed economiche, che durerà ancora nel tempo. Un conflitto esistenziale, ma in modo molto diverso, per entrambe le parti: la difesa del proprio diritto ad esistere come Paese sovrano e indipendente, nel caso dell'Ucraina; la sopravvivenza del proprio regime per Vladimir Putin.

    1. È difficile racchiudere l'attuale situazione strategica in una definizione unica, ma certamente una prima caratteristica è il ritorno alla competizione geopolitica aperta fra grandi potenze. E questo incentiva, naturalmente, i processi di rafforzamento militare di ognuno dei poli principali.
    Dal punto di vista degli Stati Uniti, con Trump prima ma anche con Biden oggi, la vera competizione strategica a lungo termine è con la Cina. In una intervista al «Financial Times» di pochi giorni fa, Bill Burns, l'attuale direttore della CIA, ha detto chiaramente che la Russia è una potenza in declino: viene considerata così dagli Stati Uniti (ricordiamo che la Russia, oggi colpita dalle sanzioni, ha un PIL inferiore a quello della Spagna). Il punto è che le potenze in declino, ha continuato Burns, hanno storicamente dimostrato di avere una notevole capacità di mettere in pericolo l'ordine internazionale pre-esistente. Sono un fattore di rischio per la loro debolezza, insomma, più che per la loro forza. Tanto più quando dispongono di migliaia di testate nucleari. Da questo punto di vista, l'invasione dell'Ucraina non nasce solo dalla convinzione esplicita e radicata di Vladimir Putin che Bielorussia (la Russia Bianca) e Ucraina (la piccola Russia) facciano parte del «Ruskiy mir», del mondo russo con una tradizione imperiale. Mosca cerca anche di forzare la revisione di un ordine di sicurezza europeo che, dal 1991 in poi, considera fortemente sfavorevole ai propri interessi. In realtà, la Russia non sta riuscendo né a vincere la guerra in Ucraina, come pensava di poter fare con una presa rapida di Kiev. Né a produrre un assetto europeo più favorevole, come dimostra invece la richiesta di Finlandia e Svezia di aderire alla NATO. In ogni caso, il ritorno a una sorta di guerra fredda fra Occidente e Russia –nelle condizioni internazionali molto diverse di oggi – modifica l'assetto geopolitico europeo e accelera il processo di costruzione di una difesa europea complementare alla NATO. L'aumento delle spese militari ne è una componente, come dimostra la decisione tedesca, nel marzo scorso, di destinare 100 miliardi di euro aggiuntivi alla difesa. La Russia sta dando una pessima prova sul piano militare. Ha una spesa militare consistente, è il terzo bilancio della difesa sul piano globale, ma non è riuscita a dotarsi di un esercito che funzioni – per errori di gestione e per gli effetti della corruzione. E deve ricorrere alle milizie, come la Wagner o i ceceni. Ma resta tutto il peso di fattori rilevanti, come la quantità di forze teoricamente disponibili, come l'information war e soprattutto il possesso di armi nucleari (7.000 testate nucleari). La dottrina russa prevede la guerra ibrida, un forte ruolo della dimensione cyber e un ruolo war-fighting delle armi atomiche tattiche. E tutto questo avviene in un contesto in cui solo lo START Il è stato prorogato ma l'intero impianto di controllo degli armamenti è crollato, dal CFE e al Trattato INF. Siamo, in effetti, guardando alla guerra fredda 2.0 con la Russia, in una situazione ad alto rischio, la più rischiosa che si sia mai verificata dalla crisi di Cuba in poi negli anni 60 del secolo scorso. Con un baricentro spostato verso il Baltico e l'Artico, che lascia scoperto il Mediterraneo, da cui gli Stati Uniti tendono parzialmente a ritirarsi. Questa nuova configurazione degli equilibri europei lascia l'Italia esposta sul fianco Sud, il Mediterraneo – con tutti i fattori di instabilità che ne derivano per ragioni climatiche, demografiche e così via.
    Dal punto di vista degli Stati Uniti, come notavo, la competizione vera è con la Cina, che ha in effetti intrapreso negli ultimi anni un importante processo di riarmo: il baricentro dell'impegno americano tenderà a spostarsi verso l'area indo-pacifica, dove si profila Io scenario di una crisi su Taiwan. Ciò significa che la componente europea della NATO dovrà comunque rafforzarsi, l'Europa dovrà in ogni caso assumere maggiori responsabilità per la propria difesa.

    2. La seconda caratteristica dello scenario di oggi è che siamo entrati in una fase di de-globalizzazione parziale: vivremo, dal punto di vista economico, in un mondo più frammentato, con un isolamento crescente della Russia, che perderà la propria posizione di grande potenza energetica sul mercato europeo e con un certo grado di decoupling tecnologico fra Cina e Usa.
    Insomma, siamo ormai fuori dal mondo piatto dominato dai mercati, cui si pensava negli anni 90 del secolo scorso. E scopriamo invece che la interdipendenza economica crea, di per sé, anche una forte vulnerabilità. Lo abbiamo visto nel campo della salute prima e con l'energia poi. Questa realtà – l'uso del gas come una possibile arma, così come avviene per il grano – spinge ad accorciare le catene del valore, ad un aumento del protezionismo e alla ristrutturazione dell'economia globale attorno a poli più integrati all'interno e meno dipendenti dall'esterno. Ma questo produce un aumento dei costi, di cui è spia l'importanza dell'inflazione.

    3. Tutto questo avviene – e questa mi sembra la terza caratteristica importante – in un sistema in cui l'Occidente non ha più una egemonia assoluta ma è di fronte a una grande potenza autoritaria sfidante, la Cina, ai rapporti fra Cina e Russia, e a medie potenze che esercitano un peso regionale notevole. Il nuovo attivismo delle potenze regionali avrà un impatto notevole sul futuro degli equilibri internazionali: la Turchia per fare solo un esempio, ma anche l'Arabia Saudita o l'Iran.
    L'Occidente è in parziale ritiro da alcune aree del mondo: il caso catastrofico dell'Afghanistan è il segno di questa tendenza, che molto probabilmente Vladimir Putin ha letto come una forma di debolezza che gli avrebbe permesso di intervenire in Ucraina senza conseguenze eccessive.
    Tutto questo lascia aperti una serie di conflitti locali, più o meno letali, con una distinzione sempre meno chiara fra pace e guerra.
    Infine, ma non in ultimo, esiste una crescente importanza dei fattori tecnologici: il peso delle tecnologie «disruptive» che permettono l'ideazione di nuove armi, cambiano la natura delle guerre e aprono nuovi campi di battaglia, a cominciare dalla competizione nello spazio.
    In sostanza, viviamo in un mondo al tempo stesso più competitivo, più vulnerabile, più frammentato sul piano economico, in cui il confine fra pace e guerra tende ad elidersi, con conflitti locali che continuano e restano numericamente rilevanti, con meno regole comuni, con una forte tendenza alla proliferazione degli armamenti. E dove le istituzioni internazionali sono in crisi profonda, anche perché riflettono equilibri internazionali che non esistono più.
    Difficile, dicevo all'inizio, riassumere tutto ciò in una definizione unica. Gli Stati Uniti di Biden tendono ad usare la lente della competizione fra democrazie e potenze autoritarie. Anzi, per essere più specifici: tecno-democrazie contro tecno-autoritarismi. E secondo il segretario al tesoro degli Usa, Janet Yellen, la globalizzazione del futuro dovrà svolgersi among friends, fra paesi con sistemi politici affini.
    In realtà, si tratta di una grande semplificazione. L'arco dei paesi autoritari è unito dalla volontà di contenere gli Stati Uniti ma ha anche divisioni di interessi, come emerge in effetti dalla partnership fra Cina e Russia, che ha forti limiti. Tensioni protezionistiche esistono fra Ue e Stati Uniti. E una vasta area grigia di paesi, fra cui giganti come India e Brasile, sfugge a questa rigida separazione in blocchi coerenti.
    La crisi del vecchio ordine internazionale, con le sue istituzioni, apre una fase di forte instabilità. Si sommano minacce militari tradizionali e minacce globali, come il rischio ambientale e la insicurezza alimentare per centinaia di milioni di persone. Un vero interrogativo è se le minacce tradizionali, legate al conflitto geopolitico fra grandi potenze, tenderanno a mettere in secondo piano la possibilità di cooperare sulle sfide globali, anzitutto la sfida ambientale, con il suo impatto sui fenomeni migratori. O la gestione delle nuove tecnologie. È un rischio che esiste ed è molto concreto.
    In questo scenario, l'Europa deve scegliere come collocarsi. Dal punto di vista della sicurezza, il rafforzamento delle capacità di difesa europea è visto ormai dalla maggioranza dei paesi UE, Francia inclusa, come complementare alla NATO. Sul piano tecnologico ed economico, i paesi europei sono alla ricerca di una maggiore autonomia, che permetta di ridurre le vulnerabilità cui facevo riferimento e di competere sul piano globale. Uno shock vero e proprio ha investito il modello industriale tedesco (cui siamo in parte agganciati come filiere italiane): modello che si fondava sull'import a basso costo di gas dalla Russia, sull'export in Cina e sulle delega della sicurezza agli Stati Uniti. Come ho cercato di dire, la guerra in Ucraina mette in crisi, in modo diverso, questi presupposti. Per il Paese centrale dell'Europa, la risposta alla guerra non è solo una questione di sicurezza militare ma di politica industriale.
    Come dimostrano le conseguenze della crisi in Ucraina, l'Europa è vulnerabile sul piano energetico, visto l'eccesso di dipendenza da un unico fornitore, la Russia, che tende ad usare il gas come un'arma. L'Unione per l'energia sarebbe indispensabile ma esistono situazioni asimmetriche che rendono difficile scelte congiunte. Per l'Italia, la sicurezza energetica passa attraverso la diversificazione a Sud (Algeria), l'aumento della quota di GNL e l'aumento delle fonti rinnovabili.
    Altra scelta decisiva è la difesa comune europea, che in parte rafforzerà le capacità dell'Europa nella NATO, da cui dipende la capacità di dissuasione nucleare verso la Russia. Ma l'Europa deve anche mettersi in grado di condurre operazioni autonome laddove sia necessario, in particolare nel Mediterraneo, dove sono attivissimi paesi come Russia, Turchia, Arabia Saudita o Israele.
    Nel contesto geopolitico ed economico che ho descritto brevemente, l'Europa, senza dotarsi di una difesa comune, rischia di rimanere una sorta di vaso di coccio: un'Europa che non sarà in grado di esprimere la propria visione del mondo o di difendere né i propri valori né i propri interessi. Gli europei devono anzitutto capire che la difesa è una priorità. Poi è evidente che i dettagli conteranno molto, come ha già detto Beretta. Ad esempio, quando si parla di spesa militare europea è verissimo che la spesa militare aggregata dei 27 paesi è già oggi molto superiore a quella della Russia. Abbiamo quindi un problema di efficienza della spesa; abbiamo il problema di eliminare le moltissime duplicazioni che esistono fra sistemi d'arma e di dotarci di un vero e proprio sistema di acquisizioni (procurement) congiunto. Se non lo faremo, se non andremo verso una difesa comune europea, il nostro Continente resterà un oggetto, non un soggetto, dell'attuale competizione geopolitica. Abbiamo bisogno di un sistema di difesa che riesca a garantire non solo la nostra sicurezza in senso militare, ma la tutela dei nostri valori democratici, anche per le ragioni che citava Criveller.

    4. Due considerazione finali sull'Ucraina e sulle lezioni per l'Europa.
    L'Ucraina ha diritto di difendersi ai sensi dell'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. E aiutare l'Ucraina a difendersi è una scelta legittima dei paesi europei. Inclusa l'Italia, sulla base dell'articolo 11 della propria Costituzione, citato prima anche da Beretta. Questo articolo è la base delle alleanze internazionali dell'Italia dal secondo dopoguerra, è l'articolo che permette all'Italia di partecipare pienamente all'Unione europea e alla NATO. Dobbiamo essere consapevoli, dopo decenni in cui abbiamo pensato che una guerra non fosse possibile nel nostro Continente, che la pace va salvaguardata; ma che per farlo, va anche difesa. E vanno difesi i valori su cui si basano le democrazie europee. Quello che accade in Ucraina, con i suoi drammatici costi per la popolazione civile, non può per questo lasciarci indifferenti.
    L'Ucraina difende con le armi il proprio diritto alla sovranità, all'integrità del proprio territorio. Le forniture militari all'Ucraina, e qui evidentemente non sono d'accordo con Beretta, devono metterla in condizione di farlo, di sopravvivere come Stato indipendente. E poi di sedersi in condizioni di forza relativa a un tavolo di pace e non a un tavolo di resa. Le armi sono un mezzo, non sono un fine. E l'obiettivo resta evidentemente quello di raggiungere una soluzione negoziale.
    Come ho cercato di dire, per Europa la prima lezione dell'Ucraina è che la sicurezza non è garantita e ha un costo (sanzioni, inflazione, investimenti nella difesa). Pensavamo, sbagliando, di vivere nell'epoca della pace perpetua, con il suo dividendo. In realtà, abbiamo bisogno di una difesa comune, per quanto complementare alla NATO. La seconda lezione è che dobbiamo ridurre le vulnerabilità legate alle dipendenze. L'Energia è un esempio tipico: dobbiamo evitare di passare da una dipendenza (dalla Russia per il gas) all'altra (dalla Cina per le terre rare). La diversificazione è indispensabile. Dobbiamo costruire, per quanto difficile sia, un'Unione dell'energia e del clima. Purtroppo siamo ancora lontani sia dal primo obiettivo che dal secondo: l'Europa è invece in una fase di rinazionalizzazione, come dimostrano anche le scelte della Germania. La Germania è d'altra parte particolarmente esposta: sono le basi del suo modello industriale a dovere essere rivoluzionate.
    La crisi ucraina non è rilevante solo per l'Europa, è rilevante per il mondo nel suo insieme. Pensate solo alle ripercussioni sulla crisi alimentare dei paesi del Mediterraneo e dell'Africa. E questo vi dimostra quanto le crisi di sicurezza siamo ormai intrecciate, fra Europa e mondo mediterraneo. Quando pensiamo alla sicurezza oggi, dobbiamo avere in mente che «sicurezza» significa anche cose molto diverse dagli aspetti militari in senso stretto. Le priorità, per le nuove generazioni in particolare, sono il controllo del cambiamento del clima, sono la sicurezza alimentare, sono la riduzione delle disuguaglianze, sono, per esempio, il tasso di velocità del cambiamento della tecnologia a cui non riusciamo a dare risposte politiche vere.
    Non sono d'accordo, per le ragioni che ho cercato di esporre, con le posizioni pacifiste sull'Ucraina. È vero, d'altro canto, che queste posizioni aiutano a ricordarci i limiti di quello che riusciremo a fare, i suoi costi, e il fatto che esistano minacce trasversali molto rilevanti che dovremo affrontare. E quindi è giusto che esista un'integrazione fra sensibilità diverse, ne abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di uno stimolo a rispondere alle sfide globali in modo cooperativo e abbiamo però anche il vitale bisogno di capire che la capacità di difendere le democrazie è tornata ad essere indispensabile. Pensare la guerra, prima del dopoguerra, è diventato purtroppo necessario. Pensare la guerra significa capire che gli strumenti nazionali non bastano, come non bastavano di fronte alla pandemia che non era una guerra ma una emergenza sanitaria. La guerra, purtroppo, è un'altra cosa.
    Abbiamo bisogno di strumenti comuni per essere in grado di prendere decisioni cruciali sull'assetto geopolitico europeo: in sostanza, la sovranità europea, al posto dei sovranismi nazionali, è un passaggio da compiere per costruire, prima o poi, il dopo guerra. Grazie.

     

    Gigi Riva
    giornalista de «L'Espresso»

    Buongiorno a tutti. Mi fa particolarmente piacere parlare davanti a dei ragazzi, perché la cosa che mi è venuta in mente venendo qui è stata che esiste un'età, che è l'età vostra, in cui, forse perché manca esperienza, ma forse perché si ha l'incoscienza, c'è la bellezza di pensare a qualcosa di utopistico, di poter cambiare il mondo, e voi forse potete cambiare il mondo. Anch'io, quando avevo la vostra età, ho pensato che uno dei modi che avevo per cambiare il mondo era quello, per esempio – è stato ricordato prima, io avevo la vostra età quando c'era ancora l'obbligo di leva – di fare l'obiettore di coscienza, cioè ho rifiutato di andare sotto le armi e, siccome esisteva già quella legge per cui si batterono tanti tra cui padre Balducci, don Milani, eccetera, ho potuto svolgere il servizio civile in un paese dove mi occupavo di handicappati, ma insomma, questa è un'altra storia...
    Il problema è che poi nella mia carriera professionale mi sono trovato in zone di guerra, per almeno vent'anni, tra i Balcani – come ricordava prima Severino, c'è stata un'altra guerra in Europa 30 anni fa, che peraltro ha molte similitudini con questa, salvo la grande differenza che 30 anni fa non era coinvolta una potenza atomica e invece adesso sì – e, frequentando le guerre, e forse perdendo molti di quegli slanci giovanili che avevano accompagnato la mia posizione ideologica precedente, sono arrivato a elaborare una teoria un po' diversa, a credere in cose un po' diverse che cerco di enunciarvi, partendo da un fatto: che per far la pace bisogna essere tutti d'accordo. E purtroppo nel mondo così come ci è stato dato di conoscere finora, periodi in cui tutte le genti del mondo sono state d'accordo non sono mai esistiti. Mi piace ricordare una frase di un filosofo che si chiama Pascal, che disse: «Non potendo fare che ciò che è giusto fosse forte, abbiamo fatto che ciò che è forte fosse giusto». E io temo che la frase di Pascal pronunciata tanto tempo fa sia ancora valida oggi e che quindi, se l'umanità continua a scambiare il forte con il giusto, dobbiamo fare i conti col mondo che c'è.
    Una delle prime guerre che mi sono trovato a dover seguire per motivi professionali è stata la guerra di Bosnia, ma ero già stato in Slovenia e in Croazia precedentemente, insomma la guerra alle porte di casa. E la riflessione verso un cambiamento delle mie idee radicali, per esempio sugli armamenti, sulla necessità di armare gli aggrediti eccetera, è stata proprio l'esperienza di Sarajevo. Perché vedete, Sarajevo era una città, la città dell'anima per me in seguito, assediata dalle milizie dei serbi di Bosnia, che erano contro il fatto che la Bosnia si staccasse dalla Jugoslavia, un Paese che quando siete nati non esisteva già più. Sarajevo è stata tanta parte della storia del Novecento, non fosse altro perché la Prima Guerra mondiale è scoppiata lì. E comunque una città europea, una città che esprimeva un sapere europeo, una cultura europea: forse molti di voi conosceranno la musica di Goran Bregovic, Goran Bregovic è un sarajevese; o qualcuno di voi conosce forse i film di Kusturica, che anche lui all'epoca aveva cominciato la sua carriera di grande regista, vincitore di tanti premi. Sarajevo era una città europea. I giovani di Sarajevo erano persone come voi che hanno gli stessi gusti, le stesse aspirazioni, lo stesso immaginario. A un certo punto fu accerchiata e bombardata per più di mille giorni – 1462 giorni, se mi ricordo esattamente. In questi 1462 giorni c'erano delle persone, dei cecchini – quando non cadevano le granate che cadevano copiosamente, ne cadevano anche 1.000 al giorno a Sarajevo – c'erano questi cecchini che sparavano in testa ai bambini, alle donne. C'era un tariffario a Sarajevo, per cui se uccidevi un bambino prendevi più soldi perché uccidere un bambino voleva dire una maggiore angoscia per i suoi familiari e quindi una depressione della volontà di difesa dei sarajevesi. In questa situazione anche un obiettore di coscienza come me si rese conto che reclamare una pace utopistica era sterile: era indispensabile un intervento militare per far finire l'assedio. Ed ero francamente molto stupito del fatto che ci fossero delle manifestazioni in Italia per impedire che partissero da Aviano gli aerei della NATO per bombardare le postazioni serbe. Dopo tre anni e mezzo questi aerei partirono, e nel giro di tre giorni l'assedio finì. Dunque un limitato intervento militare aveva posto fine alla carneficina quotidiana: c'era di che mettere in discussione ogni credenza profonda nel pacifismo assoluto.
    Oggi, con la guerra in Ucraina, si ripropone una discussione grosso modo analoga a quella di 30 anni fa. E non posso non ricordarmi allora di don Albino Bizzotto che, con i suoi Beati costruttori di pace, era su posizioni di pacifismo assoluto al tempo della Bosnia, salvo confidarmi a posteriori che alla luce dei fatti forse aveva ragione chi sosteneva i motivi di un intervento esterno. lo ero tra quelli. Avevamo ragione noi in virtù di una cosa che mi sembra di poter elaborare come la «teoria della riduzione del danno». Io credo che noi non possiamo metterci davanti a tutte le guerre con la stessa postura. Noi dobbiamo metterci davanti alle guerre analizzando, guerra per guerra, che cosa in quel momento e in quella situazione alza o riduce il livello di violenza. Dato per inteso che, purtroppo, fino ad ora, quella frase di Pascal è ancora vera, dirò poi come io credo che sia necessario agire su due binari, cioè il binario del pronto soccorso e il binario di una semina a tempo lungo di una cultura della pace che potrà, se non annullare, ridurre il numero delle guerre (in questo momento nel mondo, a parte I' Ucraina, ce ne sono altre 35).
    Quindi tutte le volte occorre analizzare, guerra per guerra, che cos'è che riduce il danno, avendo una cartina di tornasole formidabile – e secondo me chi non lo vuole vedere Io fa solo per cecità, o forse per ideologia – che c'è stato un caso nella storia recente, nell'ultima guerra combattuta in Europa prima della guerra in Ucraina, in cui un intervento militare ha ridotto il danno che si stava procurando. A Sarajevo, durante l'assedio, sono morte 12 mila persone. In totale in Bosnia sono morte più di 100.000 persone. Fino a quando, grazie a un intervento militare, tutto questo è finito. E vorrei solo richiamare a tal proposito il fatto che l'intervento militare è del 1995, ma già dal 6 di agosto del 1992 il papa di allora, Giovanni Paolo II, papa Wojtyla, dal soglio di San Pietro, aveva parlato del diritto-dovere dell'ingerenza per motivi umanitari: persino la Chiesa si era schierata per le armi nel momento in cui non sembrava ci fosse soluzione. In quegli anni, in Bosnia, erano tornati i campi di concentramento. Furono le fotografie dei lager, che avevano una somiglianza strettissima con quelle che vedete nei filmati d'epoca della Seconda Guerra mondiale, a indurre persino il pontefice a reclamare la necessità del diritto-dovere dell'ingerenza umanitaria per porre fine al massacro. Ma è sempre così? Gli interventi militari riducono sempre il danno? Evidentemente no. In altre guerre che sono state combattute di recente abbiamo visto che gli interventi militari hanno alzato il livello di violenza. Hanno provocato molti più morti. Ad esempio, la guerra di Bush, che veniva evocata anche poco fa. Nel 2003, quando il presidente degli Stati Uniti, con una cosiddetta Coalition of the willings, cioè la coalizione dei volenterosi, ha deciso di attaccare l'Iraq, quando era evidente che attaccare l'Iraq in quel momento avrebbe alzato il livello di violenza (sarebbe troppo lungo fare qui la disamina di che cos'era l'Iraq e del perché l'intervento in Medio Oriente in quel momento, nel posto peraltro più infiammabile della terra, avrebbe alzato il livello di violenza). È stato calcolato che cento milioni di persone, ed io tra quelli, scesero in piazza lo stesso giorno nel mondo per dire no alla guerra di Bush. È stato poi evidente cosa ha prodotto l'intervento militare degli Stati Uniti nel 2003 in Iraq, senza nessun mandato delle Nazioni Unite.
    Dovremmo anche dirci, prima o poi, che il ripararsi dietro le Nazioni Unite è diventato un esercizio piuttosto obsoleto, nel momento in cui le Nazioni Unite riflettono un mondo che non esiste più, cioè il mondo che è uscito dalla Guerra fredda, con cinque paesi che hanno il diritto di veto e bloccano un'istituzione che mi sembra, e lo vediamo anche in questi giorni, svuotata completamente di ogni significato. lo stesso, già nel 1996, avevo scritto con Zlatko Dizdarevic un libro dal titolo L'ONU è morta a Sarajevo. Immaginatevi poi quante altre volte l'ONU è rimorta: credo che una riforma dell'ONU sia fondamentale per cercare di farla ridiventare un'istituzione sovrannazionale credibile. L'ONU oggi non conta assolutamente nulla, sono trent'anni che l'ONU non conta nulla. Ha svolto alcune benefiche operazioni di peacekeeping in alcune aree del pianeta, ma è completamente destituito da ogni possibilità di intervento, per esempio in questo caso: la Russia è uno dei paesi che ha il diritto di veto all'interno delle Nazioni Unite e l'ONU è assolutamente paralizzata. Comunque, senza il mandato dell'ONU, allora l'America invase l'Iraq, provocò una guerra civile che è durata un decennio e ha prodotto altri effetti nefasti. Provocò la nascita del cosiddetto Stato Islamico. Lo Stato Islamico nasce quando la guerriglia prende piede a cavallo tra la Siria e l'Iraq e, oltre a fare le nefandezze che sapete – eravate già nati quando c'è stato il Bataclan a Parigi per esempio, gli attentati in Europa, piuttosto che le carneficine quotidiane in Medio Oriente – si era messo in testa, per esempio, anche di sterminare con un genocidio gli ezidi, una popolazione (cercate sui libri di storia o su Internet se volete saperne di più) che ha una religione diversa sia dai cattolici, sia dai musulmani, sia dagli ebrei.
    Nel momento in cui lo Stato Islamico ha cercato di sterminare un popolo, di cancellarlo dalla faccia della terra, cosa avrebbe dovuto fare la comunità internazionale se non mettere in piedi una coalizione, che in quel caso ha funzionato, per fermare lo Stato Islamico e per impedire che le donne ezide fossero ridotte a schiave dei jihadisti? La comunità internazionale in quel caso ha ridotto il danno intervenendo a favore degli yazidi, esattamente come la comunità internazionale ha ridotto il danno quando ha deciso di vincere la guerra contro lo Stato Islamico autore di esecuzioni sommarie, decapitazioni, massacri.
    Dunque, arrivando all'Ucraina. Che cos'è che riduce il danno? Se si valuta il discorso che Putin ha fatto per giustificare la guerra, allora ridurre il danno è impedire a Putin di perseguire il suo disegno, perché il suo disegno – lo ha detto anche prima Marta Dassù efficacemente – è quello di ricreare uno spazio russo e di riportare 25 milioni di russi, che dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica hanno finito per abitare fuori dalla Russia, all'interno della Russia stessa. Questo sembra essere l'obiettivo di Putin, lo è adesso in Ucraina ma lo era anche nel 2008 per il conflitto in Ossezia del Sud o nel 2014 in Crimea. Sappiamo dal suo discorso iniziale che Putin ha parlato di ricostruzione di uno spazio russo, che parte dal Baltico e arriva all'Oceano Pacifico. Contava, lo zar di Mosca, di trovare in Ucraina gente che avrebbe portato fiori ai suoi soldati e donne ucraine che avrebbero dato baci ai «liberatori dal nazismo». Se avesse avuto un successo militare totale e immediato avrebbe fatto ulteriori passi. A ridosso dell'Ucraina c'è un Paese che si chiama Lettonia e al di là di questo Paese esiste un Paese che si chiama Repubblica di Kaliningrad, che è Russia, è una exclave russa sul Mar Baltico, e quindi uno dei desideri di Putin è quello di creare un corridoio, prendendosi un pezzo di Lituania, per poter collegare il suo territorio. Stessa cosa per la Transnistria. Si sarebbe alzato il livello di violenza perché, siccome la Lituania fa parte della NATO, si sarebbe innescato quel meccanismo dell'articolo 5 dell'Alleanza Atlantica grazie al quale bisogna intervenire nel caso in cui un Paese aderente sia aggredito. Allora, era praticabile l'opzione Sarajevo, bombardare i russi? Evidentemente no, perché i russi hanno l'arma atomica, cosa che non avevano i serbi, e quindi bombardare i russi avrebbe potuto provocare una terza guerra mondiale, stavolta combattuta con le atomiche – e mi vien da ridere quando si legge sui giornali «Sì, vabbè, ma magari usano le armi nucleari tattiche...», sì, le armi nucleari tattiche, una roba piccola ma più potente delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, che in un chilometro e mezzo fa sparire qualunque forma di vita. Anche un solo ordigno nucleare rappresenterebbe la rottura di un tabù, un tabù che grazie a Dio ci ha accompagnato dal 1945. Dunque intervenire modello-Sarajevo avrebbe alzato il livello di violenza. Lasciare gli ucraini in completa balia dell'esercito russo sarebbe stata una buona idea? lo non credo, visto quello che l'esercito russo ha dimostrato di poter fare. E bisogna anche considerare un altro aspetto. Credo che il dualismo della contemporaneità sia rappresentato dalla lotta tra le democrazie e le democrature, o dittature. È stato molto palese anche prima dell'Ucraina, in Afghanistan. Quando i talebani, il 15 di agosto 2021, hanno vinto si è creata una netta contrapposizione tra chi ha immaginato di fare accordi con quel regime, di riconoscere quel regime – la Russia, la Cina, molte organizzazioni terroristiche del Medio Oriente, la Turchia di Erdogan, eccetera – e dall'altra parte il mondo delle democrazie occidentali. Allora, permettere a Putin di prendersi facilmente l'Ucraina, significa far vincere la cultura delle dittature, permettere che si dimostri che sono più forti delle democrazie. In Ucraina, oltre alle ragioni geopolitiche che sarebbe troppo lungo dibattere qui, alle ragioni di influenza, è in ballo anche la difesa dei nostri valori.
    Per riassumere. Non era possibile il modello-Sarajevo. Non era possibile intervenire direttamente proprio perché avrebbe alzato il livello di violenza. Che cosa ci restava? L'unica cosa che ci restava era permettere a un popolo aggredito di difendersi. Di creare questo baluardo di difesa dei nostri valori, di dare un segnale di stop per tutte le eventuali future guerre che Putin aveva in mente di ingaggiare.
    lo ero favorevole, all'inizio del conflitto, all'invio di armi per aiutare gli ucraini. Sono un po' meno favorevole oggi. Anche perché questo risultato l'abbiamo raggiunto e la guerra, almeno dalla Conferenza di Ramstein della fine di aprile, ha cambiato segno nel momento in cui, essendo riusciti a fermare Putin (ha dovuto ritirarsi da Kiev, lo sapete; ha perso la battaglia di Kharkiv di recente), è subentrata la volontà dell'Occidente di non accontentarsi, di voler umiliare la Russia e di volere umiliare anche Putin. E siamo entrati in una fase in cui, mentre si parlava di invio di armi del valore di 1 miliardo e 600 milioni di euro al massimo, si è balzati a immaginare di dare armi all'Ucraina addirittura per 30 miliardi di dollari. Allora qui, forse, bisogna ridiscutere, tornare a rimboccarsi le maniche e chiedersi se umiliare la Russia e cercare una vittoria definitiva su Putin alza o abbassa il livello di violenza. Ebbene, a mio parere, alza il livello di violenza. Non so se avete visto in televisione quella scena in cui Putin parla di quando era bambino, di quella storia tra lui e il topo. L'avete vista in televisione? A un certo punto l'intervistatore chiede a Putin aneddoti sulla sua vita. E lui racconta che quando era ragazzo si trovò davanti un topo. Il ragazzo Putin non sa cosa fare. D'istinto cerca di prendere l'animale e di ucciderlo. Il topo, spaventato lo morde. Putin conclude con una morale: che bisogna sempre lasciare una via di fuga a chi si trova in una situazione disperata. Se noi metteremo Putin nelle condizioni del topo, io credo che Putin reagirà allo stesso modo. E allora questa volontà di stravincere, non di vincere, questa guerra, non potrà che prolungare la guerra, alzare i danni invece che ridurli.
    Un'ultima cosa, già detta, la vorrei ribadire e spiegarla meglio. Ho detto prima che io sono partito da una posizione da obiettore di coscienza e sono approdato a questa posizione della riduzione del danno. Vorrei anche dirvi che rispetto alle guerre e rispetto all'atteggiamento, alla postura che dobbiamo avere, io credo che noi dobbiamo sempre agire su un doppio binario temporale. Perché da una parte esiste il pronto soccorso. A Sarajevo c'erano le persone che i cecchini inquadravano nel loro mirino e poi sparavano: le donne, i bambini. In Ucraina è successa la stessa cosa contro i civili. Esiste il pronto soccorso. Se uno si fa male, o se voi vedete una rapina in cui stanno cercando di uccidere degli ostaggi, chiamate la polizia. C'è un pronto soccorso che obbliga all'uso delle armi. E c'è la cura di lunga durata, la semina della cultura della pace. Sono due percorsi che, purtroppo, finché nel mondo contemporaneo ci sarà qualcuno che la guerra la vuole fare – perché è bello dirsi io sono pacifista, sono contro la guerra e se noi chiedessimo a qualunque persona: ma tu sei pacifista o guerrafondaio?, a parte qualche militare pazzo e i venditori di armi, ti diranno tutti che sono a favore della pace – le guerre succederanno. Se le guerre succedono perché qualcuno le fa e le vuole, fino a quando non avremo seminato quella cultura della pace futuribile – e cultura della pace vuol dire mettere d'accordo tutti e lavorare – bisogna lavorare su un doppio binario: fermare le guerre, se è possibile, quando è possibile, con i criteri che vi ho detto di riduzione del danno e, contemporaneamente, lavorare su questa cultura della pace. Ed è per questo che è bello che di queste cose oggi si sia parlato con voi ragazzi, che siete il futuro.

    * Atti del Convegno “Se vuoi la pace prepara la pace 2022” (Firenze 9 aprile e 18-19 maggio)

    (FONTE: Testimonianze 546-547, pp. 85-108, passim)


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