Il figliol prodigo

e la religione dell'amore

di Mahler

Martha C. Nussbaum

 

Il cristianesimo ha tanti filoni. Il filone transazionale è stato enormemente influente, soprattutto attraverso e nella chiesa ufficiale. L'idea alternativa di perdono incondizionato non è certo priva di rischi e inconvenienti morali. Ma c'è un altro contro-filone in alcune parti dei Vangeli, e in certi pensatori giudaico-cristiani successivi. Spesso questo contro-filone è chiamato «etica del perdono incondizionato». Ma il filone che mi interessa non è affatto chiamato «perdono», bensì «etica dell'amore incondizionato». Come vedremo, si stacca del tutto dal percorso di giudizio, confessione, contrizione e conseguente dispersione della rabbia.
Nel Discorso della montagna Gesù dice: «Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» (Mt 5, 4445). Luca riferisce queste parole: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Lc 6, 27). I Vangeli fanno numerosi altri riferimenti all'importanza fondamentale dell'amore liberamente dato". Non è richiesta alcuna condizione. In questi passaggi Gesù non dice affatto: «Amate i vostri nemici se loro si scusano» (sebbene altrove egli parli spesso di perdono condizionale, come abbiamo visto). Egli non sembra parlare nemmeno di perdono incondizionato, perché non c'è nessun riferimento al venir meno di una rabbia precedentemente manifestata. L'amore è una risposta primaria, non il sostituto di un precedente anelito al risarcimento. In altri casi ancora in cui le traduzioni della Bibbia parlano di perdono, quella greca sembra piuttosto riferirsi all'amore [56].
Paolo è ancora più chiaro: «Scompaiano da voi ogni asprezza (pikría), sdegno (thymós), ira (orgé), grida e maledicenze con ogni sorta di malignità» (Ef 4, 31-32) [57]. Quindi la rabbia non solo è condannata: sembra essere considerata intrinsecamente un vizio. Ciò naturalmente implicherebbe che il perdono preceduto da collera non sia pienamente virtuoso, ma solo il rimedio a un vizio precedente. E nella celebre discussione sull'amore nella Prima lettera ai Corinzi troviamo Paolo affermare, analogamente, che l'amore «non si adira (paroxýnetai), non tiene conto del male ricevuto» (1 Cor 13, 5). Non potrebbe essere detto più chiaramente: questa visione rifiuta sia il perdono condizionato sia il perdono incondizionato come norme pienamente adeguate, e raccomanda invece un amore che ignori del tutto la rabbia.
Particolarmente importante ai nostri fini, trattando dell'amore nel contesto delle trasgressioni altrui, è la parabola del figliol prodigo in Luca 15, che è abitualmente indicata come esempio di perdono. Il contesto generale contiene in effetti il riferimento al perdono, nella comune modalità condizionata e transazionale. Due capitoli dopo Gesù dice: «Se il tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo, "Sono pentito", tu gli perdonerai» (Lc 17, 3-4). Le due parabole più brevi che precedono la storia del figliol prodigo, invece, fanno riferimento solo alla perdita e alla gioia della riscoperta: il pastore si rallegra ritrovando la pecora smarrita, la massaia accorta si rallegra ritrovando la moneta perduta.
Vediamo adesso la parabola del figliol prodigo:

Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, lo colse una fortissima emozione (esplanchnísthe), gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»".

Dobbiamo distinguere attentamente due punti di vista nella storia: quello del figlio e quello del padre. Il figlio decide di confessare il suo peccato ed esprime contrizione, almeno stando alle sue parole. Rimane però poco chiaro se il figlio sia sincero. Egli ha infatti un'evidente motivazione strumentale data la sua condizione di miserabile affamato, e il racconto ci suggerisce che egli stia rientrando in base a un calcolo, piuttosto che per cambiare vita davvero. La frase «ritornò in sé», molto discussa dai traduttori, potrebbe alludere all'autentico Sé al quale il prodigo starebbe tornando, ma nulla nella storia ci parla di un precedente Sé buono. La frase indicherebbe più facilmente, molto più facilmente, un «calcolare», «fare i conti», «valutare».
Comunque, qui non si tratta del figlio. Il punto sta nella reazione del padre, e questa reazione non può certo essere descritta come perdono, transazionale o incondizionato che sia. Il padre scorge il figlio in arrivo da grande distanza. Lo riconosce. A questo punto non può sapere cosa sta per dire il figlio o quali saranno i suoi comportamenti. Egli vede soltanto che il figlio ritenuto morto è invece vivo, e dunque viene colto da una violentissima emozione. Il greco esplanchnísthe è un termine raro ed estremamente empatico, che significa, letteralmente, «le sue viscere furono strappate», o anche «le sue viscere furono divorate» [59]. Il padre, quindi, prova forti spasimi, un tipo di amore potente che comporta intense sensazioni corporee, come spesso accade a un genitore che sente il proprio corpo e la propria vita legati a un figlio. Gli corre incontro e lo abbraccia, senza fargli alcuna domanda. Non c'è una dichiarazione di perdono, né tempo concesso al perdono. Anche dopo che il figlio ha espresso il suo pentimento – dopo l'abbraccio del padre – il padre non esige alcuna contrizione, ma va dritto a festeggiare.
Inoltre, quando il figlio buono, che si è sempre comportato bene, esprime disappunto riguardo al festeggiamento del fratello, il padre non dice: «Vedi, si è pentito e io l'ho perdonato». Invece, pur rinnovando al figlio maggiore il suo amore e il suo sostegno, con parole d'affetto («Tu sei sempre con me»), egli dice soltanto: «Sono tanto felice che sia ancora vivo». Insomma, non c'è alcun riferimento al perdono in questa storia, nessun riferimento alla contrizione, tranne che nelle espressioni, forse ambigue, del figlio ritornato. Per definire perdono canonico l'atteggiamento del padre bisognerebbe attribuirgli qualcosa di simile al seguente ragionamento: «Vedo mio figlio che ritorna. Se sta tornando vuol dire che ha imparato la lezione e si è pentito. Visto che si è pentito, rinuncerò alla mia rabbia e gli concederò il perdono». Anche se vogliamo chiamarlo perdono incondizionato, dobbiamo immaginare il padre riflettere sul proprio risentimento, e scegliere liberamente di rinunciarvi. Ma non c'è niente di tutto questo nella storia, e nessun riferimento alla rabbia. Un ragionamento come quello avrebbe riguardato un padre diverso, più calcolatore e desideroso di controllo. Questo padre, invece, è guidato dall'amore.
In breve, per comprendere questa storia, dovremmo mettere da parte le nostre idee di perdono transazionale, ebraiche o cristiane che siano, e anche l'idea di perdono incondizionato senza contrizione, che comunque richiederebbe una deliberata rinuncia alla collera. Questa storia riguarda la profondità e l'incondizionalità dell'amore genitoriale. Ciò che è così grande in questo padre è proprio il fatto che egli non si ferma a calcolare e decidere: egli gli corre incontro e lo bacia. Non è sfiorato dall'idea del danno ricevuto; pensa solo che suo figlio è ancora vivo.
Un padre così potrà anche, successivamente, parlare al figlio della sua vita. L'amore incondizionato è pienamente compatibile con il ruolo di guida: in effetti, visto che questo padre vuole il bene del figlio, è quasi certo che gli darà consigli su cosa è meglio per la sua vita futura. La direzione di questo sentimento è transizionale: il suo amore guarda al futuro, e quel futuro quasi certamente conterrà consigli. Ma l'impulso iniziale verso il figlio non nasce da consiglio o calcolo.
Gesù sta parlando del rapporto di Dio con i peccatori nel contesto a lui contemporaneo. C'è dunque almeno una possibilità che esista un amore radicale e incondizionato, libero dal perdono e dalla rabbia che ne è occasione, un amore che guardi al futuro con generosità, anziché rimanere radicato nel passato [60].
Un tale quadro di amore umano e divino ci viene presentato, quasi due millenni dopo, in un altro testo dissidente giudaico-cristiano, la Seconda sinfonia di Mahler (Resurrezione) [61]. Si tratta di un'opera giudaico-cristiana perché Mahler, che era ebreo, si convertì al cristianesimo per opportunità sociale, rimanendo tuttavia eterodosso nei suoi atteggiamenti religiosi, soprattutto in rapporto alla maggioranza cristiana.
In deliberata continuità con la lunga tradizione cristiana di riflessione sull'«ascesa» dell'amore, l'opera di Mahler – con testi in parte mutuati, ma soprattutto scritti da lui – affronta il giudizio finale e il Dies Irae in una maniera che l'autore stesso reputa radicalmente sovversiva. Sebbene Mahler non fosse mai contento della descrizione verbale che dava delle sue sinfonie, si dedicò ripetutamente a tali formulazioni. Questa è la descrizione del movimento finale della sinfonia che preparò per la rappresentazione di Dresda del 1901:

Si ode la voce che chiama all'ultimo appello. È giunta la fine di tutto ciò che vive: il Giudizio universale è giunto. La terra trema, le tombe si spalancano, i morti risorgono in una processione senza fine. I grandi e i piccoli della terra, i re e i mendicanti, i giusti e i miscredenti, sono tutti lì accalcati. L'invocazione alla misericordia e al perdono colpisce terribile le nostre orecchie. I gemiti aumentano di intensità, i sensi ci abbandonano, la coscienza viene meno all'approssimarsi dell'Eterno Spirito. S'ode l'ultimo appello, squillano le trombe dell'Apocalisse: nel soprannaturale silenzio che ne segue, possiamo appena captare il canto di un usignolo che da un'immensa distanza c'invia un'ultima tremula eco della vita terrena.
Lieve si diffonde su per l'aere il coro dei beati e delle schiere celesti: «Tu risorgerai, sì risorgerai!». Allora si manifesta la gloria di Dio. Una tenera e meravigliosa luce ci penetra sino al cuore; tutto è pace, tutto è beatitudine.
Ed ecco: non vi è più alcun Giudizio: non vi sono né peccatori né giusti; non vi sono grandi uomini né ve ne sono di piccoli; non v'è nessuna pena e non v'è nessun premio. Un immenso sentimento d'amore pervade tutto il nostro essere. Sappiamo e siamo [62].

Ci sono molte ragioni per collegare questa sinfonia alle continue sofferenze di Mahler dovute all'ostilità e alle incomprensioni da parte della cultura musicale cristiana, e fortemente antisemita, della Vienna del suo tempo. In effetti, egli ricorda che l'ispirazione per il movimento finale gli venne mentre presenziava al funerale di Hans von Biilow, un direttore d'orchestra tedesco antisemita che gli era sempre stato particolarmente ostile. Potremmo anche dire che si tratta del tentativo di Mahler di realizzare una Messa da Requiem: come direttore d'opera e musica sinfonica, conosceva bene il genere.
Qualunque cosa stia «succedendo» in questo movimento finale (il quinto), comunque, è alquanto insolito e non convenzionale per la cultura cristiana della Messa da Requiem. Come dice con una certa ironia il biografo di Mahler, Henri-Louis de La Grange: «È stato osservato che il concetto stesso di resurrezione sia essenzialmente estraneo alla fede ebraica, ma l'idea di giudizio finale senza giudice e senza riconoscimento del Bene e del Male è altrettanto poco ortodossa per un cristiano» [63]. Attenzione però: Mahler non dice che non ci sia né il bene né il male; dice piuttosto che non c'è giudizio alcuno che divida le persone in «peccatori» (dannati) e «giusti» (salvati).
Immediatamente prima del quinto movimento, nel breve quarto movimento, che è tutto cantato e ha per titolo Urlicht (Luce primigenia), Mahler descrive il viaggio di un bambino che si propone di alleviare i bisogni e le sofferenze degli uomini. Questo bambino si inoltra per un'«ampia via» (e osserviamo che la strada del peccato, nella tradizionale metafora cristiana, è quella più ampia). Appare un angelo che cerca di «respingerlo» (abweisen) da quella via. Ma il bambino erompe con passione: «Ah, no! Non mi lascio fermare, nessuno può respingermi!» (Ach nein! Ich liess mich nicht abweisen). Questo dramma, e la musica che l'accompagna – in cui l'espressione del bambino/contralto introduce, per la prima volta nel movimento, il caratteristico cromatismo mahleriano – allude alla contesa di Mahler con la cultura musicale cristiana, e al modo in cui gli «angeli» di tale cultura cercano di respingerlo dalla strada dell'emozione e della creatività non convenzionale che egli sente invece di dover intraprendere (questo «sentiero del peccato» fu anche identificato, dai nemici di Mahler, con quel «giudaismo in musica» che già Wagner aveva pubblicamente ripudiato) [64]. Proiettando quello che in effetti è il proprio punto di vista personale nella passionalità vocale del contralto [65], Mahler allude ai temi dell'androginia e della ricettività femminile che spesso si affacciano nei suoi scritti, ed esprime il proprio rifiuto della rispettabilità convenzionale. Nello stesso tempo, insiste che il proprio viaggio non convenzionale è motivato dalla compassione per la miseria umana. Ed egli non abbandonerà questa ricerca.
Il rifiuto, comunque, non è collerico, è solo deciso. Il bambino dice: «Sto andando per la mia strada e non permetterti di fermarmi» (sono tentata di chiamarlo «spirito transizionale»). La musica esprime un'intensa passionalità, ma nessun tipo di risentimento.
Così, quando arriviamo all'ultimo movimento, dove Mahler si rapporta ai suoi nemici attraverso la vicenda del funerale di Bülow, non ci aspetteremmo alcuna soluzione convenzionale, alcun Dies Irae standard come nelle tante Messe da Requiem che Mahler conosceva e dirigeva. Invece troviamo, sia nel programma verbale che in musica, la prima parte del Dies Irae: la paura, la richiesta disperata di perdono, la tromba del giudizio. Ma poi accade qualcosa di radicalmente diverso. Mahler richiama gioiosamente la nostra attenzione su questa sorpresa. Alla fine non c'è alcun giudizio, soltanto un coro di voci che cantano dolcemente. Non c'è castigo e non c'è ricompensa, solo un soverchiante amore. «Noi sappiamo e siamo». Il testo che segue, cantato dal coro e da due sole voci femminili, pone l'attenzione sul fatto che la vita piena e creativa della persona che ama, compreso l'amore passionale ed erotico («i caldi sforzi dell'amore»), è di per sé la ricompensa [66].
Qui, potremmo dire, c'è il figliol prodigo in forma escatologica. Ma non sarebbe del tutto corretto, perché in realtà non risulta alcuna escatologia: l'escatologia è sostituita con l'amore terreno. Non c'è Paradiso, non c'è Inferno, non c'è alcun giudizio. Solo amore e creatività.
Dove è finito il perdono, ammesso che ci sia, in questo mondo? Il tema dell'offesa e del contrasto fu introdotto nella storia di questa sinfonia da Mahler stesso, e senza dubbio egli doveva essere in collera con Bülow, il quale gli fu particolarmente ostile in un momento cruciale della sua carriera, quando stava tentando di rappresentare la sua Prima sinfonia. Cercando il modo di concludere questa Seconda sinfonia (compresa, ci dice, una ricerca in «tutta la letteratura mondiale, Bibbia inclusa»), Mahler ci racconta di avere concepito la chiusura del quinto movimento ascoltando il coro cantare un'ode di Klopstock al funerale di Bülow. Ma in realtà l'ode di Klopstock è un insieme di devozioni banali, e Mahler conserva ben poco del testo originale, scrivendo la maggior parte delle parole lui stesso e tutta la musica. Sembra quindi piuttosto chiaro che il significato vero dell'ode di Klopstock stia più nella sua occasione che nel suo contenuto: si profila qualcosa che vince il risentimento.
Come avviene questa vittoria sulla rabbia? È come il padre della parabola: la rabbia semplicemente scompare e dilaga l'amore [67]. La persona che Mahler presenta come l'«eroe» della sinfonia non pretende scuse, e nemmeno decide di perdonare senza scuse. Egli semplicemente sta vivendo come una persona amorevole e creativa, che rifiuta di essere «respinta» dal suo sentiero creativo – e l'amore semplicemente trabocca e sommerge il risentimento. Domandarsi «Devo perdonare i miei nemici?» implicherebbe che la rabbia abbia ancora voce, che richiede di essere ascoltata. Invece, la creatività e l'amore la zittiscono. Le «ali, che ora sono la mia conquista, in uno slancio vivo e caldo d'amore», portano l'eroe creativo a una luce «che nessuna vista ha penetrato mai». Se si può azzardare un'interpretazione forte, la luce «mai vista» sembra essere la musica stessa [68].
In breve, ci sono due modi in cui la persona creativa può reagire ai colpi avversi. Un modo consiste nel rimanere concentrata sul male sofferto, e sulla possibilità che il colpevole pianga e gema ed esprima la sua contrizione. Questo tipo di reazione è la più comune, ma non è piccola e meschina? La via indicata da Mahler, invece, consiste nell'essere sé stessi e fare il proprio lavoro, senza perdere tempo in pensieri e sentimenti collerici, ma solo dando quello che si deve dare.
Come dice La Grange, l'idea stessa di resurrezione è non-ebraica. Ma in realtà non c'è alcuna resurrezione ultraterrena qui. Invece si parla di amore terreno che sovrasta la rabbia e diventa la ricompensa di sé stesso. Forse anche questo è non-ebraico, se pensiamo al processo della teshuvah. Eppure tale atteggiamento è forse più compatibile con l'accento ebraico posto sulla dignità del darsi da fare mondano che con l'escatologia cristiana della degradazione e della penitenza, che è poi il target primario di Mahler. Fin dall'inizio le voci cantano con forza, dignità e passione.
Mahler sottolinea la centralità della musica per la sua idea di amore attivo. Non dovremmo vedervi soltanto l'espressione di una predilezione personale. Siamo invitati a riflettere sul ruolo della musica nella vita, e anche nella religione. La musica esprime tante emozioni, ma è straordinariamente raro trovare una musica che esprima, nella sua struttura organizzativa predominante (non, cioè, come brevi episodi), rabbia vendicativa e risentimento fremente". Comunque, il tipo di amore e gioia senza condizioni che la sinfonia di Mahler ci offre e su cui attira la nostra attenzione è caratteristico del modo in cui la musica apporta nelle relazioni umane, in un contesto religioso o meno, un senso di gioia e piacere condivisi, del tutto fisici e consistenti in vibrazioni, respiri e movimenti del corpo, che semplicemente sono oltre la rabbia e l'umiliazione. Come potrebbe mai la musica ripudiare il corpo con vergogna, se non distruggendo sé stessa? [70] In effetti, possiamo spingerci a dire che quando una musica di prima qualità accompagna le parole del Dies Irae (come, per esempio, nel caso dei Requiem di Mozart e di Verdi), la sua naturalità fisica e la sua passione – il suo generoso movimento vocale – tendono a negare quella sequenza e a indicare un modo di vita più amorevole e umano [71].
In entrambi i nostri esempi di dissenso, troviamo ragioni potenziali di rabbia e, forse, in passato, di una rabbia effettivamente manifestata. Ma nelle riconciliazioni descritte non c'è alcuna allusione a un tale passato di rabbia. Non solo non c'è alcun processo strutturato di teshuvah o penitenza, con le sue molteplici condizionalità, ma non c'è nemmeno perdono in alcuna forma riconoscibile, nemmeno in quella incondizionata. C'è solo amore, che zittisce ogni rabbia. Il tema non può essere pienamente sviluppato adesso, ma almeno abbiamo la percezione delle possibilità che si presentano a guardare con sospetto all'idea di perdono in quanto tale.


NOTE

54 Le conseguenze di questo spirito sono state sicuramente transizionali, con i dibattiti sulla rimozione della bandiera confederata dalla sede del governo statale e con il voto finale, piuttosto sorprendente, favorevole al decreto di rimozione.
55 Vedi, per esempio, Matteo 19, 19 e 22, 39; Marco 12, 31; Giovanni 13, 34 e 15, 12.
56 Un esempio saliente è in Efesini 4, 30-32, dove charézesthai significa «siate benevoli», «siate generosi», e non implica alcun riferimento a una rabbia precedente, eppure viene reso come «perdonatevi» in tutte le traduzioni che sono stata in grado di reperire. La parola standard per il perdono, aphíemi, non compare affatto nel contesto. Sulle traduzioni sbagliate di testi biblici riguardo al perdono, vedi Konstan [2010, 99]. Tutto il capitolo 4 di Konstan è una trattazione preziosa del materiale biblico, sia ebraico che greco.
57 Non è chiara la precisa distinzione voluta fra thymós e orgé.
58 Luca 15, 12-34. Traduco esplanchnísthe con un'espressione più forte dell'usuale «ebbe compassione», che tra l'altro implica che il padre fosse in quel momento consapevole della sofferenza del figlio.
59 La metafora riguarda il sacrificio, dove le viscere della vittima sono estratte e divorate.
60 Sugli antecedenti classici di questo spirito di generosità, vedi la discussione di Harris dell'ideale di philophrosýne e della humanitas romana, [Harris W.V., Restraining Rage: The Ideology of Anger Control in Classical Antiquity, Cambridge, Mass. Harvard University Press, 2001, 149 e 205].
61 Ho analizzato in dettaglio questa sinfonia in Nussbaum M., Upheavals of Thought: The Intelligence of Emotions, New York, Cambridge University Press 2001; trad. it. L'intelligenza delle emozioni, Bologna, Il Mulino 2004, cap. 14].
62 Programma per la rappresentazione di Dresda 1901, in Cooke D., La musica di Mahler, Milano, Mondadori1983, 87-88.
63 De La Grange H.L., Mahler, New York, Doubleday 1973, 786.
64 Wagner R., Das Judentum in der Musik,  Amazon, Amazon Digital Service 2012, 1850.
65 Mahler caratterizza frequentemente la creatività musicale come femminile nella sua emotività e ricettività. Vedi Nussbaum, cit.
66 Vedi la mia discussione sul significato di geschlagen sia come «battere il cuore» che come «battere il tempo» ibidem [trad. it. 2004, 748].
67 In realtà, per come ci viene raccontata la storia, il padre non è mai arrabbiato con il figlio.
68 Vedi ancora ibidem per un ragionamento dettagliato su questo punto.
69 Qui è interessante il caso del War Requiem di Britten, in cui avidità, rabbia e rancore distruttivo fanno la loro parte, ma sono poi sovrastati dai testi di Wilfred Owen, che mettono a confronto l'amore incondizionato di Gesù con le pratiche della chiesa organizzata. Più in generale, è notevole che la musica che intende rappresentare (ufficialmente) un anelito di vendetta spesso esprima invece una gioia vitale. Così il «duetto della vendetta» nel Rigoletto verdiano in realtà sprizza una giocosa energia. Quando mia figlia aveva tre anni, questo era il suo pezzo musicale preferito proprio per la sua allegria, e naturalmente non aveva alcuna idea di cosa vi si stesse «dicendo». La ricerca di una vera espressione musicale della vendetta ci condurrebbe nell'ambito della musica più soffocante e oppressiva, come nel caso dell'Elettra di Strauss che ho commentato nell'Introduzione.
70 Così Schönberg non permette a Mosè di cantare nel suo Moses und Aron: la posizione religiosa va espressa con le parole, lasciando il canto ad Aron e seguaci.
71 Forse questi esempi non fanno che dimostrare che Mozart e Verdi furono anime allegre e generose, che scrissero Messe da Requiem per convenzione culturale, piuttosto che per qualche profonda affinità spirituale – come spesso si dice dell'opera di Verdi. Ma il rapporto della musica con l'amore mi sembra giacere ancora più in profondità, ed è difficile pensare che qualcuno riesca a comporre un Requiem nello spirito della rabbia divina che ho presentato. Naturalmente un compositore può esprimere la mentalità che ho descritto senza scrivere un'opera intera nel suo spirito (come Wagner «ventriloquizza» in maniera superba il narcisismo senz'amore nella musica di Alberich e Hagen, sebbene l'opera nel suo complesso tratti della generosità in amore). Ma una Messa intera? Non sarebbe come un intero Ring cantato da Alberich e Hagen? Ho detto che Elettra è così, ma si tratta di un'opera breve, studiata per essere quasi insopportabile, un lavoro singolare nella produzione di Strauss.

(FONTE: Rabbia e perdono. La generosità come giustizia, Il Mulino 2017, pp. 124-134.