"La pandemia ha suggellato

tra i giovani

l'angoscia dell'incontro

con l'altro"

Massimo Recalcati
in dialogo con Vanessa Giovagnoli


 

Giovagnoli. Massimo Recalcati, con te oggi parliamo di disagio giovanile. È di qualche giorno fa un appello dei direttori dei dipartimenti di psichiatria degli ospedali pubblici, che dicono che sono sempre di più le persone – soprattutto giovani – che, anche a causa della pandemia, del Covid, hanno sviluppato malattie psichiatriche, ma che il servizio pubblico ha enormi carenze di organico e chiedono per questo, al ministro della Salute Schillaci, un piano straordinario di assunzioni. Mancherebbero – la stima è imprecisa, ovviamente e noi la prendiamo così – 10.000 professionisti.
Ti chiedo, anzitutto, se anche tu hai notato, dopo la pandemia, l’aumento del disagio dei giovani e quali sono le forme di disagio più diffuse.

Recalcati. È indubbio, questa è una constatazione, purtroppo, molto facile da fare. Ci sono stati un allargamento e una diffusione del disagio giovanile che ha come sintomi più tipici quelli che sono, da una parte, sintomi ansiosi che culminano nell’attacco di panico, e dall’altra parte comportamenti di caduta depressiva, di atteggiamenti autolesivi, dipendenze tecnologiche oppure alimentari… insomma, siamo di fronte, effettivamente, ad un’ondata di disagio giovanile, che però, per un altro verso, era già presente, come tendenza, prima della pandemia. Cioè, la pandemia ha accentuato, amplificato un disagio che noi vedevamo già assumere forme molto particolari, prima di essa.
Quali forme particolari? Quelle che privilegiano un atteggiamento di introversione e di chiusura e di distacco dai legami sociali. Noi eravamo abituati a vedere come manifestazione primaria del disagio giovanile comportamenti dissipativi, una spinta al godimento che si ritorceva contro il soggetto. Mentre in questo caso noi vediamo quello che gli psichiatri chiamano, appunto, comportamenti di fobia sociale, cioè di allontanamento, di introversione, di chiusura. La figura giapponese dell’hikikomori, che nella nostra lingua significa, appunto, “uscire dal mondo, mettersi da parte”, è la cifra che riassume, diciamo plasticamente, questa nuova forma del disagio giovanile, che non è, appunto, centrata sulla dissipazione, ma sulla introversione. La pandemia, accentuando il tema del distanziamento, accentuando l’esperienza del confinamento, accentuando anche l’esperienza del riparo, del rifugio come necessarie, ha amplificato questa tendenza che io chiamo “neomelanconica” dei nostri figli.

G. Cos’è che ha determinato questo cambiamento, qual è la causa? E ti chiedo anche se internet abbia un ruolo in questo crescente isolamento dei giovani, in questa tendenza neomelanconica, perché anche questa è una notizia, tutto sommato recente: c’è stata una class action delle scuole pubbliche di Seattle, che hanno denunciato, negli Stati Uniti, i principali social media perché li considerano la causa dell’aumento dell’ansia, delle depressioni e anche, appunto, di questo isolamento dei giovani È internet una delle cause o ce ne sono altre?
R. Beh, intanto colpisce il fatto che, per esempio, quella che noi chiamiamo depressione, che è fondamentalmente una sorta di ritiro della vita dalla vita, di spegnimento del sentimento della vita, che solitamente accompagnava classicamente la curva finale dell’esistenza riguardi oggi i giovani. Cioè, è normale pensare che tanto più l’esistenza perde vigore, perde forza, perde slancio… conosca una sorta di declino depressivo. Mentre i dati ci dicono che mai come oggi, mai come in questo tempo, la depressione è diffusa in un’età – quella della giovinezza – che dovrebbe essere esattamente il contrario: la giovinezza è il momento in cui la vita si apre alla vita, è il momento – dovrebbe essere il momento – di massima espansione, di massimo vigore della vita. E invece constatiamo il paradosso che la depressione si diffonde ampiamente proprio nei nostri figli.
Allora qual è la causa? Da una parte, abbiamo detto, la pandemia, a cui si associa anche il colpo della guerra che io non sottovaluterei.
Ma perché la pandemia? Perché in fondo ha messo in evidenza l’oggetto dell’angoscia che esisteva già prima, come dicevo, e cioè il fatto che l’incontro con l’altro, il legame sociale, il contatto può essere pericoloso, può essere luogo di un’infezione, può essere luogo di qualcosa di ingovernabile. Ora, questa percezione che l’incontro con l’altro porti con sé sempre qualcosa di ingovernabile, di minaccioso, di perturbante, di destabilizzante, era già presente prima della pandemia: è come se la pandemia avesse sugellato in modo drammatico, tragico, quest’angoscia diffusa. Allora, se l’altro, il legame, il contatto è il luogo di una infezione mortale, di un pericolo, di una destabilizzazione, è chiaro che bisogna trovare un partner che non porti con sé questa minaccia, e qual è il partner più affidabile? È per esempio il partner tecnologico, è il partner che consente uno pseudo contatto, quindi delle pseudo amicizie, degli pseudo legami, che non espongono il soggetto al rischio per esempio, della perdita, dell’abbandono, della separazione oppure anche della rivalità, della prestazione.
Con la fine della pandemia c’è stato il ritorno all’aperto che è un’esigenza della giovinezza: gli adolescenti sono stati i più colpiti, a mio giudizio, da questa pandemia, insieme agli anziani ma per altre ragioni, ovviamente. Perché i più colpiti? Perché la pandemia li costringeva a vivere contro natura: se la giovinezza esige, appunto, l’aperto, il contatto, l’incontro, la libertà, allora noi abbiamo fatto un’esperienza necessaria, ma comunque un’esperienza di privazione, di compressione del diritto alla libertà. Ecco, in questo senso, però, quello che è stato vissuto come privazione è diventato anche luogo di un rifugio, di un riparo, da che cosa? Dal rischio dell’incontro con l’altro e anche dall’angoscia della prestazione. Perché molti ragazzi, per esempio, adesso faticano, hanno faticato, stanno faticando a ritornare a scuola? Perché ritornare a scuola significa di nuovo ingaggiarsi nella rivalità, nella prestazione; Significa, ancora, mettere alla prova se stessi, che non è un fatto così semplice. E invece il rapporto tecnologico garantisce un legame che non impone la prova, che non impone la prestazione, ma che è un legame che dà l’illusione che sia il soggetto a governare ogni cosa. Per questo noi abbiamo una patologia che oggi tende a svilupparsi veramente in modi sempre più anche grotteschi oltre che drammatici di “iperconnessione” con l’oggetto tecnologico. Questa iperconnessione è, in realtà, un modo per evitare la connessione reale con l’altro e anche è un modo per sconnettersi dal legame con l’altro. Quindi è come se – ecco il paradosso – la dipendenza, nella misura in cui produce un fenomeno di iperconnessione con l’oggetto, producesse al tempo stesso l’effetto di una sconnessione dal mondo e dall’altro.

G. D’altra parte la bolla ipertecnologica sembra in parte scoppiata. Anche qui, è di qualche giorno fa l’appello lanciato da un tick toker che ha detto: “Non trovo nessuno con cui uscire”. Quindi sembra in qualche modo scoppiata questa bolla, o per lo meno, i giovani se ne rendono quasi conto…
R. È difficile sconnettersi. Cioè, è difficile introdurre una pausa rispetto all’assorbimento dell’iperconnessione. Che cosa ci vuole per sconnettersi? Che cosa ci vuole per separarsi dall’oggetto tecnologico che, faccio notare, a volte assomiglia veramente a una separazione tecnicamente noi diremmo “orale”? Cioè, l’oggetto tecnologico assomiglia davvero a un seno e la separazione da questo oggetto produce davvero dei fenomeni di angoscia primaria.
Ti racconto questa scena che ho sentito da un collega che è veramente divertente e drammatica al tempo stesso: riceve una coppia di genitori che hanno una figlia che soffre di questa dipendenza estrema dal cellulare che tiene accesso giorno e notte e con cui intrattiene un legame fusionale, incestuoso, e mentre la madre, angosciata racconta di questa dipendenza patologica, la figlia si alza dicendo: “Ma no, sta dicendo un sacco di bugie, dottore non le creda! Lo giuro sul cellulare!”.
Che è come se il cellulare assumesse quasi la forma del testo sacro, della Bibbia, quando nei tribunali si giura di dire la verità, tutta la verità. Insomma, questa è una scena che ci può far sorridere, ma che mostra come veramente il rischio è che la realtà virtuale sostituisca quella reale perché quella reale implica quello che la pandemia ha scoperto drammaticamente, cioè il fatto che le relazioni introducono sempre una quota di instabilità nella nostra vita, per quanto la nostra vita senza le relazioni è effettivamente una vita morta.

G. Qual è ruolo dei genitori? Perché la pandemia ovviamente ha imposto lo stare a casa e ci ha spaventato rispetto al contatto con gli altri. Però è anche vero che c’è una tendenza preesistente alla pandemia, nei genitori, che è quella, ne abbiamo parlato anche qua con te, di evitare ogni forma di sofferenza ai figli, mentre l’incontro con l’altro produce ovviamente anche delle forme di frustrazione. I genitori di oggi sembra che vogliano proteggere i figli ad ogni costo…
R. Questo è indubbio. Se dovessi dire quali sono i tre elementi fondamentali che inquadrano il disagio contemporaneo della giovinezza direi che il primo è veramente una sorta di dissesto evolutivo. Cosa intendo dire? Intendo dire che una volta il disagio dell’adolescenza era strettamente connesso al fenomeno della pubertà. Per cui il fenomeno della pubertà, che comporta un grande cambiamento nella immagine del proprio corpo e nel vissuto del proprio corpo, si collegava, psicologicamente, alla inquietudine adolescenziale. Oggi noi siamo di fronte al fatto che pubertà e adolescenza si separano, per cui uno è adolescente, resta adolescente ben al di là del passaggio evolutivo di tipo puberale, e quindi c’è la tendenza alla cronicizzazione del disagio adolescenziale. Questa tendenza alla cronicizzazione, ecco il secondo punto, dipende in gran parte dagli adulti. Cioè dipende dal fatto che c’è una crisi diffusa, generalizzata del discorso educativo che riguarda non solo la scuola, non solo la difficoltà degli insegnanti e degli educatori a fare il loro mestiere, ma in primis nei genitori che si trovano in difficoltà a contrastare il comandamento dominante del nostro tempo, che è quello che impone un godimento senza rinuncia. E come fa un genitore a dire “no”, a fare esistere il trauma, il trauma benefico del limite, della soglia, della rinuncia… quando fuori dalla famiglia tutto spinge al “sì”, tutto spinge a una sorta di permissivismo neolibertino, che esclude dall’orizzonte l’esperienza dell’attesa, l’esperienza della pausa, l’esperienza del pensiero anche, mi verrebbe da dire, e l’esperienza della rinuncia… come se ogni rinuncia perdesse di senso?
E questo comporta, anche, la caduta della differenza simbolica tra le generazioni, per cui ci sono gli adulti che si vestono come i figli, parlano come i figli, giocano con gli stessi giochi dei figli, magari hanno amanti dell’età dei loro figli… e la caduta della differenza simbolica destituisce il genitore della sua autorevolezza simbolica.
Il terzo punto, che è l’effetto che più ci colpisce come clinici nei ragazzi che traducono più di altri questo disagio, è la caduta del desiderio, cioè il fatto che se io dovessi dire in modo molto semplice qual è il denominatore comune che unifica panico, depressione, anoressia, dipendenze tecnologiche, alcolismo, passaggi agli atti violenti, direi che esso è proprio la fatica a desiderare. Dove il desiderio non va confuso col capriccio, ma è quella vocazione che dà senso all’esistenza, e che le rende possibile impegnarsi in un progetto, quindi a non vivere nelle discontinuità aleatorie del godimento capriccioso, ma avere un baricentro che orienta la vita nel mondo, quindi una passione, quindi, appunto, una vocazione. Ricordiamo sempre che in Freud, per esempio, il termine desiderio viene dalla parola tedesca “Wunsch”, che significa esattamente voto, vocazione. Il desiderio porta con sé una vocazione, cioè un’attitudine, un’inclinazione… ecco, io penso che l’effetto di quello che ho appena raccontato nei giovani adolescenti – dei giovani e non giovani adolescenti, perché abbiamo detto che l’adolescenza contemporanea tende a protrarsi ben al di là del segmento della crisi puberale – sia la fatica a desiderare... Come se ci fosse tanto godimento e poco desiderio.

G. Facciamom vedere una clip, un pezzo di un film sul rapporto tra genitori e figli. È un film del 2010, Agitare bene prima dell’uso, con Michele Placido e Margherita Buy nei panni dei genitori e Andrea Facchinetti che interpreta il figlio. Ascoltiamo.

Padre Io e tre dobbiamo parlare. Tu sei un ragazzo intelligente, però succede che spesso anche le persone intelligenti sbaglino. Ecco, io sento il dovere di dirti che stai sbagliando, perché se no non si capisce come mai un ragazzo come te, al primo anno di università che ha superato brillantemente tre esami, si debba mettere in fila tutta una mattinata per fare un provino del cazzo.
Figlio Papà…
Padre Dove non ti prenderanno mai, lo sai benissimo, e se ti prendono è ancora peggio…
Figlio È un’esperienza che voglio fare!
Padre Ma è una cosa umiliante…
Madre Eh sì, ha ragione papà… Luigi, insomma, è una cosa un po’ umiliante, umiliantina …
Figlio Per me non è umiliante! So ballare, so cantare, comunico, sono simpatico…
Ho queste doti, ma perché non le devo sfruttare?
Padre Ma lì è il punto, non sono doti, sono cazzate, figlio mio! Ce ne sono milioni, come te, di ragazzi, in fila, pronti alla scorciatoia…
Figlio Ma 300.000 euro ti sembrano una scorciatoia?
Padre Ma il soldo va guadagnato facendo qualcosa, e non scaccolandosi in diretta per tre mesi sopra un divano assieme a un altro branco di deficienti analfabeti!
Madre Vabbè, però le stesse cose si possono dire con più calma, con calma…
Sì, sono un gruppo di decerebrati, comunque…
Figlio Addio, addio, sei milioni, sei milioni di italiani guardano il Grande Fratello, siamo tutti dei coglioni!

G. I genitori vogliono assimilare la vita dei figli, vogliono che seguano i loro progetti. È anche questo uno dei problemi?
R. Questa clip ci fa vedere due facce della stessa medaglia: la prima faccia, se stiamo sul lato del figlio, è uno dei grandi miti del nostro tempo, che è il mito del successo. E il mito del successo implica il fatto che vi sia un accesso facile al successo stesso. È quello che giustamente il padre fa notare al figlio.
Il mito del successo è il mito che rende inutile, superflua la rinuncia, la fatica, la dedizione, la vocazione. E io penso che il mito del successo individuale sia un grande tema antropologico del nostro tempo che ha prodotto veramente guasti notevoli.
Dall’altra parte, però, vediamo anche l’impotenza dei genitori a introdurre una norma educativa, perché la norma educativa – è questo il cambiamento epocale che noi dobbiamo registrare – non può più essere trasmessa attraverso la voce grossa del padre, che abbiamo appena ascoltato, la voce grossa del padre che un tempo avrebbe ammutolito il figlio e lo avrebbe messo sull’attenti, secondo un modello militare disciplinare dell’educazione pre 68. Noi non siamo più in questo tempo, per cui è evidente che c’è una frustrazione nei genitori a trasmettere la norma educativa, con in più il fatto che – è questo il punto che tu sottolineavi – spesso i genitori vorrebbero che il figlio corrispondesse ai propri ideali, e invece il gesto più profondo della genitorialità è quello di amare il figlio non nonostante non sia in linea con le nostre attese, le nostre aspirazioni, e anche le nostre preoccupazioni, ma proprio perché è differente, perché è difforme. Questa è proprio un’esperienza che io stesso, come genitore, ho fatto, faccio… Quando guardo i miei figli li vedo così difformi, così differenti da me… Ma questa differenza non riduce l’amore, ma mostra esattamente la profondità dell’amore. Cioè, se fossero come io li immaginavo, perfettamente coincidenti con l’ideale che io avevo di loro, sarebbe troppo facile. E invece l’amore genitoriale c’è proprio quando tu dici di sì alla differenza e alla difformità del figlio.

G. E prima di andare da Massimo Recalcati devono essere genitori, in sostanza…
R. Però ti ho detto anche che c’è il lato del figlio, perché questo figlio che dice “Vado al grande Fratello”, beh, fa cadere le braccia… se mio figlio mi dicesse “La mia aspirazione è andare al Grande Fratello”, mi cadrebbero le braccia, però mi farei anche qualche domanda su come mi sono mosso fino a quel momento. È chiaro che può benissimo dire, come accade, per esempio per fare un riferimento personale, che la lettura non è proprio la sua priorità nella vita, e che l’investimento che i miei figli hanno sui libri è molto diverso da quello della mia generazione: noi mangiavamo i libri! I giovani di oggi hanno un rapporto con la lettura molto diverso, hanno un investimento libidico sul libro, per esempio, molto diverso. Ed è sciocco pretendere di imporre il nostro modello ad un tempo che non è più quello in cui noi vivevamo.

G. Stiamo parlando di disagio giovanile, e tra le cause che tu hai citato c’è quella della depressione c’è quella della pandemia, che ha causato maggior disagio nei giovani, ma non solo. Un’ascoltatrice scrive: “Sto provando sulla mia pelle, a 60 anni, la stessa sensazione che provano i giovani, soprattutto la paura è costantemente al mio fianco. La nostra generazione non aveva avuto scosse o traumi, la pandemia, inconsciamente, ha fatto affiorare ciò che tenevamo ben nascosto. Questi disagi erano ben nascosti anche nelle persone più mature?
R. La pandemia ci ha insegnato – e questo riguarda anche gli adulti, appunto – che lo statuto dell’altro, lo statuto del legame sociale è sempre ambivalente: da una parte noi abbiamo bisogno, necessità dell’incontro con l’altro, della presenza dell’altro, e dall’altra parte, però, l’incontro e la presenza dell’altro introducono necessariamente nel nostro mondo una quota di precarietà, di instabilità. Cioè, la dipendenza dall’altro genera fatalmente, il fatto che noi non possiamo più governare l’altro.
C’ è un episodio che io, non solo io, ma immagino molti, abbiamo vissuto durante la pandemia, quando nel momento del primo lockdown si usciva di casa raramente, per portare in giro il cane, per fare la spesa… a me capitava di portare in giro il nostro cane e di incontrare magari, in una Milano totalmente deserta, qualcuno che arrivava dall’altra parte con un altro cane, sullo stesso marciapiede, e la prima spinta era quella di fermarlo e di parlarci, stabilire un contatto, poi immediatamente arrivava un pensiero successivo che mi diceva: “No, ma, il contatto è a rischio”… e quindi cambiavo marciapiede. Ecco, quest’oscillazione tra l’esigenza del contatto e la paura del contatto appartiene alla dimensione umana della vita. Siamo fatti così. Da una parte noi esigiamo il contatto, viviamo di contatti, e dall’altra parte, però, i contatti, l’incontro, il legame, sono anche fattori di perturbazione.

G. A proposito dell’educazione hai detto prima: bisogna educare i giovani alla gratitudine. Lo hai detto anche in altre puntate. Allora Giorgio da Firenze chiede: come si educa alla gratitudine?
R. Se ci ricordiamo la bella clip che abbiamo appena ascoltato – e mi permetto di dire, così, anche se io stesso sono il primo che commette errori nell’educazione dei figli – …

G. Ci hai detto in altri momenti che per Freud “Essere genitori è impossibile”…
R. Esatto, ma detto questo, che cosa secondo me è fuori luogo, in quella reazione comprensibilissima che io stesso avrei potuto avere, di fronte al progetto del figlio di fare il “Grande Fratello”? Che i figli di oggi non si educano attraverso i sermoni, cioè attraverso delle discussioni, diciamolo pure, attraverso il dialogo. Il sermone, la discussione, anche il dialogo che oggi sembra essere una parola egemonica, non portano grandi frutti.
Che cosa, davvero, educa il figlio? È la testimonianza silenziosa del genitore, che significa testimonianza dell’amore tra il padre e la madre, testimonianza della dedizione verso un lavoro, della presenza di una passione… queste testimonianze silenziose che non passano attraverso delle retoriche pedagogiche sono dei semi che noi mettiamo nel terreno del figlio e il germoglio non è detto che sia immediato. Ma se noi abbiamo seminato il campo, attraverso delle testimonianze significative, io penso che il germoglio prenderà necessariamente vita, nel tempo.
La gratitudine può anche non essere immediata. La riconoscenza può anche non essere immediata. Un figlio può anche non riconoscere immediatamente che quel gesto, cioè il gesto quotidiano del padre che si sveglia la mattina, va a lavorare e torna a casa la sera, etc, etc… era una testimonianza.
Che quel gesto era una testimonianza può essere scoperto molto in là negli anni. Ma la cosa importante è avere seminato. Ma, ed è una precisazione, ahimè, che devo fare, anche la semina più generosa, più ricca non garantisce necessariamente la felicità dei nostri figli.

G. Ci sono alcuni WhatsApp audio. Ascoltiamone due.
- Buongiorno, una domanda per il prof. Recalcati che stimo moltissimo. Va bene il discorso dell’amore nei confronti dei figli, questo mi è chiaro, ma in pratica ci può dare proprio alcuni consigli estremamente pratici che possano essere utili nella conflittualità quotidiana che noi abbiamo con i figli adolescenti? Tullio da Rieti.
- Buongiorno sono Giancarlo da Lecce. Io vorrei chiedere al signor Recalcati, quale è il compito dei genitori, se è quello di accompagnare i figli a commettere errori o è quello di evitare che i figli possano commettere errori. Grazie
Allora, come evitare la conflittualità e qual è il ruolo dei genitori? In parte avevi risposto all’ultima domanda.

R. La conflittualità: l’educazione è fatta di conflitti. Non si può pensare di scansare la conflittualità. Un adolescente ha necessità del conflitto. Allora, nella misura in cui ha necessità del conflitto l’errore del genitore sarebbe, da una parte, pretendere che non esistano conflitti, dall’altra parte rispondere a quella necessità con un braccio di ferro.
Dunque il figlio ha diritto al conflitto, ma è il genitore che ha la possibilità di sciogliere il conflitto. E in questo senso muro contro muro non porta mai da nessuna parte e bisogna sorprendere il figlio, non scansando il conflitto, ma introducendo nel conflitto un elemento che il figlio non può prevedere, che è l’elemento, potremmo chiamarlo, del perdono, che è l’elemento della parola, che è l’elemento del gesto che sorprende il figlio… questo può farlo un adulto. L’ostinazione del figlio rende molto difficile dialettizzare il conflitto. Spetta all’adulto, sempre, introdurre un elemento imprevedibile nella logica ferrea, ostinata che orienta il conflitto adolescenziale che può aprire un pertugio, che può aprire uno spiraglio e che può rendere, dunque, possibile il conflitto come dialettica e non come opposizione, muro contro muro.
Dall’altra parte l’ascoltatore che ha posto quella domanda supporrebbe di sapere che cos’è il bene, che cos’è il male per il figlio. E invece il primo gesto del genitore è non sapere cos’è il bene e cos’è il male per un figlio, perché la misura del bene e del male sono sempre misure singolari, anzi, una definizione che noi potremo dare di educazione autoritaria è quell’educazione che presuppone di sapere cosa sia il bene per il figlio.
Fare il bene del figlio spesso ha nascosto le più terribili azioni autoritarie e repressive. Non c’è una sola misura del bene così come non c’è una sola misura della felicità. Ciascuno deve costruire una misura singolare della felicità. Ma è ovvio che l’ascoltatore si poneva il problema di come noi possiamo scoraggiare delle cattive pratiche, come noi possiamo scoraggiare il fatto che il figlio prenda una via dissipativa, che faccia del male a se stesso innanzitutto, perché questo è un grande problema dell’educazione.
Secondo me il compito del genitore non è tanto quello di dire cos’è bene e cos’è male, cos’è giusto e cos’è ingiusto, cos’è vero e cos’è sbagliato. Il compito di un genitore è innanzitutto quello di trasmettere da una parte il senso della legge (potremmo fare la prossima puntata su questo), che non è da confondere col rispetto delle regole, perché il senso della legge fonda il rispetto delle regole.
E dall’altra parte, e questo secondo me è il compito più essenziale della genitorialità, trasmettere il senso del desiderio. E il senso del desiderio si acquista, per un figlio, innanzitutto attraverso il rapporto coi genitori, ma io aggiungerei, e meno male, non solo attraverso il rapporto coi genitori. La famiglia non esaurisce l’orizzonte del mondo, meno male… Ci sono incontri che hanno questa potenza di trasmissione del desiderio che i figli fanno fuori dalla famiglia, nella scuola innanzitutto, ma anche fuori della scuola. E noi dobbiamo pensare che ciò che dà veramente potenza vitale a un figlio è l’incontro con un testimone del desiderio. È chiaro che se i genitori sono testimoni di desiderio tanto meglio, ma i figli hanno bisogno di incontrare dei testimoni del desiderio.

G. Un’ ultima puntualizzazione che sintetizza anche tante domande: tu l’hai accennato, la scuola è l’ultimo baluardo della socializzazione in questo contesto che ci hai descritto, anche dopo il lockdown, che ci ha imprigionato nelle nostre case, e ha imprigionato soprattutto i giovani.
R. La scuola ha una funzione fondamentale, decisiva, nel processo di formazione della vita. Noi ci dimentichiamo questo fatto. I governi si dimenticano di questo fatto quando per esempio non investono le risorse necessarie sulla scuola, non gratificano, come dovrebbe invece essere, lo straordinario lavoro degli insegnanti di cui noi dimentichiamo molto spesso il valore del dare forma alla vita dei figli. E spesso confondiamo la scuola con un’azienda e pensiamo che il compito di questa scuola-azienda sia quello, semplicemente, di trasmettere informazioni, nozioni, cognizioni. Il compito principale della scuola è trasmettere il desiderio! Cioè, dare senso alla vita, fare in modo che la vita si apra ai mondi del sapere, che si apra ai mondi della cultura. È quello che Pasolini descriveva come un vaccino fondamentale: il vaccino del desiderio di sapere come desiderio di vita. Ecco, io penso che la scuola sia una sentinella che deve tenere il suo posto per consentire a questo desiderio di vita di trasmettersi da una generazione all’altra.

G. Grazie, buona giornata.
R. Grazie a voi. A presto.

(Trascrizione di Maria Rattà

Rai Radio1 / Il mondo nuovo
Puntata di martedì 17 gennaio 2023

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