Grammatica e cantieri di sinodalità nella PG /3
Gianluca Zurra
(NPG 2022-03-51)
Una parola fondamentale per l’esercizio della sinodalità è “partecipazione”. L’ascolto e la riflessione, come lo studio e la contemplazione, sono forme con cui si partecipa alla vita della Chiesa e della società in cui si vive. “Partecipare” significa “prendere parte”, dunque assumere una posizione, dare il proprio contributo, uscire dall’anonimato. Il cammino sinodale presuppone questa consapevolezza e senza di essa non sarebbe possibile l’edificazione di un bene comune, qualunque esso sia. La fede stessa, se non si declina in una presa di parola responsabile nei confronti della vita e del mondo, sarebbe sterile, né potrebbe diventare sorgente di una Chiesa viva, giovane, creativa.
Ma proprio la partecipazione sembra essere, oggi, in forte crisi, non solo nella Chiesa, ma nell’ambito socio-politico, nella realtà del volontariato e delle associazioni. O meglio, forse sta cambiando forma e comunque dovrebbe essere rifondata e rilanciata in modo nuovo e sostenibile. È necessario, quindi, aprire con coraggio questo cantiere: lavorare per educarci reciprocamente al senso partecipativo, evitando che l’appello alla sinodalità si trasformi in un’indicazione troppo retorica. Possiamo darci qualche strumento per camminare in questa direzione, tenendo conto di almeno tre approfondimenti: il significato umano della partecipazione come “restituzione”, lo sguardo biblico sul rapporto tra fede e coinvolgimento e infine la lezione del Concilio Vaticano II sul sacerdozio comune come sorgente e forma dell’impegno ecclesiale di ogni battezzato.
Partecipazione come restituzione
Una prima indicazione può essere quella di riscoprire la partecipazione come forma di restituzione che introduce alla vita adulta. In effetti, un impegno che parta soltanto da sé e si limiti a mettere al centro il proprio protagonismo alla lunga rimarrebbe sterile, ma soprattutto perderebbe la sua ragion d’essere, la sua profondità spirituale e mancherebbe di continuità. La crisi partecipativa non è riducibile alla poca voglia di impegnarsi, ma forse dovrebbe essere letta come la conseguenza di un modo di pensare la vita, che fatica a riconoscere il debito nei confronti di tutto ciò che ci è gratuitamente donato.
Se invece la partecipazione è vissuta come risposta pratica ad una prossimità della vita che ci viene incontro, in prospettiva chiaramente vocazionale, allora non è più riducibile alla semplice espressione di “qualcosa da fare quando mi va”, ma diventa la straordinaria avventura quotidiana della restituzione, che prosegue anche quando i risultati immediati non si vedono o l’impegno non coincide soltanto “con ciò che ci piace”. È così che si entra nella vita adulta, restituendo in modo creativo ciò che è stato ricevuto, generando e moltiplicando vita. Partecipare, dunque, non è uno scatto di buona volontà, ma diviene un’esperienza continuativa di dedicazione, di cura per un mondo verso il quale si risponde con gratitudine.
C’è bisogno, allora, di uscire dall’idea, presente anche nella Chiesa, che la partecipazione si possa incentivare chiedendo tante prestazioni, per impegnare, invece, le risorse migliori ad accompagnare i giovani verso la bellezza, la passione e la saggezza del “libero restituire”, aiutandoli come adulti a riconoscere quale possa essere il proprio talento da moltiplicare a favore degli altri.
Dunque, partecipazione non è sinonimo di prestazione, ma è riposta grata a ciò che ci precede; non è mai riducibile ad un gesto individuale della volontà, ma è fin dall’inizio un’esperienza relazionale, comunitaria, perché restituendo si risponde e, in modo creativo, si edifica insieme la socialità.
Partecipazione come coinvolgimento nella creazione
Per la Scrittura la partecipazione è una presa di iniziativa che non parte da sé, ma è risposta libera al coinvolgimento di Dio verso l’uomo. In Genesi, Adamo si ritrovò nel giardino di Eden “perché lo coltivasse e lo custodisse”[1]: la sua libertà creativa è posta in movimento dalla promessa che si manifesta per lui nel creato, fatto di piante e di animali, di terra e di cielo, di acqua e di pietre, fino all’incontro sorprendente con Eva. La partecipazione della coppia di origine non assume la forma del dominio, come vorrebbe invece il serpente e le sue suggestioni a cui siamo sempre soggetti, ma è chiamata a diventare contributo ad una creazione aperta, affidata all’umano perché se ne prenda cura, facendo sussultare di sorpresa lo stesso creatore.
Dunque, per la Scrittura partecipare è in qualche modo restituire creando e, sul comando di Dio, non significa immediatamente produrre, ma rispettare il settimo giorno, il riposo, condizione perché l’arte del custodire e del coltivare non si trasformi in dominio o in prevaricazione sul creato e sugli altri[2].
Gesù è Signore anche in questo: affidandosi alla risposta libera dei suoi interlocutori, nel suo passaggio suscita coinvolgimenti diversi, una partecipazione sempre molteplice, colorata, in base alla storia di ciascuno. Ad alcuni chiede di seguirlo, altri vengono guariti e ricondotti alla propria abitazione, altri ancora sono incontrati attraverso un lungo dialogo partecipativo, durante il quale lo stesso Gesù apprende come il Regno di Dio sia all’opera davanti ai suoi occhi. Chiunque lo incontra e accoglie la sua parola si coinvolge in qualche modo, prende parte, restituisce e moltiplica il dono ricevuto, con modalità proprie e inedite[3].
La prima Chiesa ha certamente meditato a lungo su questo stile nuovo del Figlio di Dio, concependosi nei suoi inizi come una fraternità in cui uomini e donne, ricchi e poveri, schiavi e liberi hanno scoperto di avere la stessa dignità nel partecipare in modo autorevole e diversificato all’edificazione del Regno di Dio[4].
Partecipare, dunque, è contribuire ogni giorno alla creazione, divenendo non dominatori, ma custodi, non geni solitari, ma fratelli che lavorano insieme. In questo modo la Scrittura riprende e compie il senso umano della partecipazione come restituzione: si esce dall’indifferenza e “si prede parte” dando forma alla propria identità perché si è raggiunti da un dono che ci risveglia, ci guarisce, ci rimette in piedi e non semplicemente per una estemporanea iniziativa individuale o solitaria.
Partecipazione come espressione del sacerdozio comune
A questo punto si può meglio comprendere tutta la profondità della svolta del Concilio Vaticano II nel ripensare la Chiesa in senso sinodale.
Se la partecipazione è gesto di restituzione che contribuisce alla creazione, allora non si tratta soltanto di rendere genericamente più attivi i battezzati in una comunità che rimane clericale, ma di riconoscere che dal Battesimo stesso emergono una dignità e una competenza a cui non si può fare spazio per pura delega successiva, o per necessità urgenti, ma perché senza questa molteplice partecipazione il Vangelo stesso non potrebbe risuonare dentro e a partire dalle esperienze elementari della vita in cui tutti ci troviamo, ben prima della diversità di ruoli e di ministeri.
Quando Lumen Gentium parla di partecipazione al sacerdozio comune, al cui servizio sta quello ministeriale[5], è sempre necessario ricordare che l’offerta gradita a Dio che ci rende “sacerdoti” è la vita stessa vissuta secondo il Vangelo[6]. È così che ciascuno può prendere parte all’edificazione della Chiesa, non come manovale della gerarchia, né subito o soltanto tramite una moltiplicazione di ministeri, per quanto essenziali, ma prima di tutto con l’esercizio della propria vita vissuta secondo lo stile evangelico. È compito della comunità cristiana trovare luoghi e forme tramite cui questa benefica contaminazione tra Vangelo e vita, tra fede e presa di parola di ogni battezzato, non rimanga una indicazione retorica, ma possa davvero rinnovare la Chiesa stessa e incrementare il sensus fidei di tutti i credenti[7].
Quando questo accade è evidente che, soprattutto per le giovani generazioni, si apre la possibilità di sperimentare proprio nella Chiesa e come Chiesa l’avventura di una partecipazione trasparente, fattibile, sostenibile, aperta, coinvolgente, che diviene già di per sé una vera e propria iniziazione alla vita adulta.
Partecipare, concludendo, è “restituire”, contribuendo con libertà creativa alla creazione. Il cammino sinodale può esserne il risvolto ecclesiale, a patto di riconoscere davvero nella partecipazione fondata sulla dignità battesimale il contributo senza il quale la comunità non si edificherebbe e l’annuncio stesso del Vangelo mancherebbe la sua capacità di diventare promessa e salvezza per tutti e per ciascuno.
NOTE
[1] Cfr. Gn 2, 15.
[2] Cfr. Gn 2, 2-3.
[3] Non a caso il rimprovero più forte di Gesù è per chi “non prende parte”, per chi ritiene di poter avere a che fare con l’annuncio del Regno rimanendovi indifferente. L’invettiva alla chiesa di Laodicea in Apocalisse ne è l’esempio più forte: “Così parla l’Amen, il Testimone degno di fede e veritiero, il Principe della creazione di Dio. Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3, 14-16). Chi parla, appunto, è il “Principe della creazione” affidata alle mani della creatura, di fronte al quale lo scandalo maggiore non è muoversi maldestramente, ma non agire, rimanendo tiepidi.
[4] In un contesto omologante e settoriale come il nostro, questa profezia della prima Chiesa diventa decisiva se saremo in grado di praticarla anche oggi: dovrebbe succedere, almeno nello spazio ecclesiale, che nessuno si senta come il pezzo di un ingranaggio più o meno utile, soprattutto i giovani, ma una voce da accogliere e da ascoltare nella propria diversità.
[5] Cfr. L.G. 10.
[6] Cfr. L.G. 11.
[7] Cfr. L.G. 12