Grammatica e cantieri di sinodalità nella PG /5
Gianluca Zurra
(NPG 2022-08-60)
Una parola fondamentale della sinodalità è il termine “ospitalità”. Contiene in sé la necessità dell’apertura all’imprevisto, all’inedito, a ciò che è straniero; e quando la Chiesa, tramite il cammino sinodale, decide di non concepirsi come un chiuso monolite, ma torna a riconoscersi come un poliedro aperto e plurale, allora l’esperienza dell’ospitalità deve essere letta come un atteggiamento profetico per l’intera comunità cristiana.
D’altronde, nella storia della Chiesa le cose più grandi e più belle sono state compiute quando qualcosa di “straniero”, non ancora conosciuto, è stato accolto con fiducia, senza difendersi. É nell’essere stranieri, pellegrini, in cammino che il Dio biblico si manifesta, chiedendo di “uscire all’aperto”, di esporsi alla novità. Fare sinodo, dunque, vuol dire entrare in una condizione di precarietà, che non deve far paura, perché è proprio questo stile ospitale e ospitante ad essere il terreno buono per saper leggere meglio i “segni dei tempi”.
L’ordito ospitale dell’esistenza umana
Siamo venuti al mondo perché qualcuno ci ha ospitati, voluti, desiderati. Nell’ospitare e nell’essere ospitati la vita si moltiplica, senza essere trattenuta per sé: andare incontro all’ospite è uno dei gesti più coraggiosi che si possono compiere, perché richiede totale fiducia, apertura, rinuncia al controllo. Per questo motivo la Scrittura indica l’esperienza dell’ospitalità come luogo “sacro”, in cui si percepisce la presenza di Dio anche senza necessariamente nominarlo. In effetti, nella postura dell’ospitalità ci fidiamo in modo estremo, rischiando tutto ciò che siamo, riconoscendo che quel gesto, pur compiuto da noi, ci sfugge ed è immensamente più grande rispetto a ciò che potremmo fare se partissimo soltanto dalle nostre capacità.
L’ospitalità, dunque, esperienza profonda di intreccio tra la nostra radicale apertura e un mistero che ci viene incontro nella persona stessa dell’ospite, è il risvolto fondamentale di una comunione che ci struttura fin dall’inizio e che diventa spazio autentico di rivelazione, di vera apertura alla presenza di Dio. Essere liberi coincide con l’ospitalità dell’altro e il raggiungimento dell’uguaglianza passa per il riconoscimento della diversità, o “stranierità” degli altri, mai riducibile alle nostre visioni o ai nostri schemi di pensiero[1].
Dunque, ancora una volta anche il tratto ospitale della vita non è una facile passeggiata, né una generica indicazione retorica, ma un faticoso esercizio dialogico che ci riporta al cuore della nostra umanità e alla verità di ogni esperienza religiosa, come ha ricordato papa Francesco nello storico discorso sulla piana di Ur dei Caldei, sulle tracce di Abramo:
“Chi ha il coraggio di guardare le stelle, chi crede in Dio, non ha nemici da combattere. Ha un solo nemico da affrontare, che sta alla porta del cuore e bussa per entrare: è l’inimicizia. Mentre alcuni cercano di avere nemici più che di essere amici, mentre tanti cercano il proprio utile a discapito di altri, chi guarda le stelle delle promesse, chi segue le vie di Dio non può essere contro qualcuno, ma per tutti. Non può giustificare alcuna forma di imposizione, oppressione e prevaricazione, non può atteggiarsi in modo aggressivo”.
L’ordito ospitale della Scrittura
Che attorno all’ospitalità si sia riflettuto a lungo all’interno delle prime comunità cristiane è testimoniato dal Nuovo Testamento. La lettera agli Ebrei, al capitolo finale, riassume la sua lunga catechesi sull’unico sacerdozio di Cristo lasciando alla comunità l’impegno dell’amore vicendevole: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli”[2]. Non è soltanto una conseguenza morale, ma un vero e proprio riferimento teologico, nel quale ne va dell’incontro con Dio tramite la novità di Gesù, unico e definitivo sacerdote perché ha dato se stesso, il suo corpo, in piena solidarietà con l’umanità. Dunque, l’ospitalità diventa il “tempio” in cui abita per sempre la presenza di Dio.
Facendo un percorso a ritroso è facile cogliere che l’esperienza dell’ospitalità è al centro del percorso di riconoscimento del Signore Risorto. L’episodio di Emmaus si concentra sul gesto ospitale dei discepoli, che in ambiente domestico riconoscono il Signore[3]. Il Risorto stesso prende l’iniziativa della sua manifestazione preparando pani e pesci in riva al lago[4], o incontrando Tommaso per ospitare e rilanciare la sua ricerca[5].
D’altronde, il discorso escatologico di Matteo 25, che mette sullo stesso piano la relazione con Gesù e la cura dei fratelli[6], è nulla di meno che il culmine, la raccolta ultima dell’intera esistenza del Maestro, che a sua volta impara ad annunciare Dio come Padre dai gesti ospitali compiuti nei suoi confronti: la donna che profuma i suoi capelli, l’atteggiamento di ascolto di Maria rispetto all’ansia di Marta, il dialogo con la Samaritana o il confronto serrato con la Cananea, non a caso in terra straniera. Questa catena di ospitalità emerge così come il luogo irrinunciabile della presenza dello Spirito: la massima apertura verso lo straniero viene a coincidere con la massima profondità del rapporto con Dio, intreccio divenuto il senso compiuto e la forma definitiva dell’esistenza stessa del Figlio. Gesù è primogenito di molti fratelli, dunque fondamento e pienezza della fraternità, perché rivela l’ospitalità e il lasciarsi ospitare come il cuore stesso di Dio.
Continuando il percorso a ritroso, che l’ospitalità esprima un’esperienza originaria e inaggirabile dell’umano è rivelato dal famoso episodio biblico di Abramo alle querce di Mamre[7]. Al centro della vita del grande patriarca si pone un viaggio di pochi metri, quello che va dall’ingresso della sua tenda verso i tre stranieri che giungono improvvisamente sulla soglia[8].
Abramo viene sollecitato da quella sorpresa a rialzarsi, a ripercorrere da capo il suo piccolo mondo casalingo per allargarlo, approfondirlo, arricchirlo di nuove presenze. Per un semplice gesto di ospitalità lo stretto cerchio di ciò che è già conosciuto si dilata e Sara, sterile, darà alla vita un figlio, Isacco. Ancora una volta, ospitare e lasciarsi ospitare non è una conseguenza dell’incontro con Dio, ma la sua condizione, la sua sorgente inaggirabile, come disposizione continua di apertura.
Siamo nel libro della Genesi, dunque all’interno della narrazione che interpreta il senso degli inizi, di ciò che sta all’origine, al fondamento di una vita e di un intero popolo. Ebbene, nel luogo in cui tutto inizia non ci sta una certezza monolitica, ma una pluralità da riconoscere e ospitare, non si trova l’idolo faraone, monocolore e dittatore, ma la fragilità di un Dio che si manifesta nella precarietà di un incontro inatteso, imprevedibile, incontrollabile.
La parola biblica originaria, dunque, è la più generativa in assoluto: ospitalità come relazione, legame, apertura. Nella postura ospitale, esposta a ciò che ancora non si conosce, diventiamo uomini e donne compiuti, corrispondendo al desiderio di Dio.
L’ordito ospitale della Chiesa
Questa lunga riflessione ecclesiale delle origini sul tratto ospitale della comunità raggiunge il suo apice al capitolo 10 degli Atti degli Apostoli, a proposito della conversione del centurione Cornelio. Sarà per altro questo episodio ad anticipare la grande riunione di Gerusalemme di sapore squisitamente sinodale.
Pietro viene presentato come colui che è ospitato da un certo Simone, conciatore di pelli, e qui viene raggiunto dai tre messaggeri di Cornelio, a memoria dei tre angeli alle querce di Mamre. Tutto il racconto si gioca attorno al tema dell’ospitalità: il colloquio tra l’apostolo e il centurione avviene in un contesto domestico, attorno alla tavola il cui cibo non ha più nulla di impuro, e tutto si conclude con Pietro che viene ospitato in casa di Cornelio.
Siamo di fronte ad una delle immagini più belle di Chiesa sinodale, dai tratti ospitali: l’annunciatore del Vangelo non si pone in termini di potenza o di sicurezza dottrinale, ma è a sua volta ospitato da altri, rimanendo in un contesto di quotidianità. Sembra che proprio la condizione di ospite in casa di Simone ponga Pietro nella disposizione giusta per accogliere la novità dello Spirito, all’opera nella vita del centurione che lì a poco incontrerà. E attraverso quell’incontro ospitale sarà innanzitutto l’apostolo a convertirsi, scoprendo che “Dio non fa preferenza di persone”. Ma la cosa davvero strabiliante è che frutto dell’intero percorso non è la riconduzione di Cornelio a Pietro, ma è Pietro che viene accolto nel contesto nuovo, inedito, di Cornelio e della sua ricerca di fede.
Basterebbe rileggere e rimeditare di continuo questi capitoli per cogliere che cosa è in gioco in un vero cammino sinodale, soprattutto per quanto riguarda il dialogo con le giovani generazioni. Una Chiesa in sinodo è prima di tutto una comunità che, sull’esempio di Pietro, fa memoria della sua precarietà, guarendo dall’idea di sapere già tutto in anticipo, o dalla pretesa di non avere bisogno di nessuno. Una Chiesa in sinodo sa chiedersi con coraggio chi siano i tanti “centurioni” di oggi, che abbiamo perso lungo il cammino, forse anche per causa nostra, o che semplicemente ci stanno testimoniando altrove e in altro modo una nuova primavera dello Spirito. Una Chiesa in sinodo non si pone nella linea dell’indottrinamento, ma “chiede ospitalità” presso Cornelio, senza manie di potenza o di invadenza, ma imparando le nuove vie del Vangelo attraverso il dialogo domestico, famigliare, con le realtà di tutti i giorni.
Certo, l’ospitalità ci fa tremare le gambe, ci rende precari, ma è questa fragilità ad essere il segno più profetico e benedetto sotto il quale la Chiesa può fare del cammino sinodale non una fredda procedura organizzativa, ma la forma continua della sua missione e del suo rinnovamento evangelico.
NOTE
[1] Un approfondimento in questa direzione può essere trovato in M. Dal Corso (ed.), Teologia dell’ospitalità, Queriniana, Brescia 2019.
[2] Eb 13, 1-2.
[3] Lc 24, 13-35.
[4] Gv 21, 1-14.
[5] Gv 20, 19-29.
[6] Mt 25, 31-46.
[7] Gn 18, 1-16.
[8] Cfr. C. Monge, Lo straniero ospitale, in Aa.Vv., L’ospitalità di Abramo, Messaggero, Padova 2016, 53-66.