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    «Almeno una volta ci è stato detto “nella vita non si smette mai di imparare” senza capire di quale “materia” si stesse parlando! Fin dalle scuole elementari abbiamo assunto come latte materno un modello di apprendimento a sezioni fatto di italiano, matematica, storia e geografia, altre discipline, ed è inevitabilmente diventato parte della nostra persona. Possiamo così contare su una conoscenza buona ma limitata, che si riduce all’ora di verifica in classe e destinata a svanire nei secondi successivi. Gli occhi stanchi e disillusi degli alunni, che vede un insegnante quotidianamente, sono l’effetto di un sistema che allontana la disciplina scolastica dalla vita odierna e la consegna direttamente all’iperuranio dei concetti astratti».
    Sono le parole di Gloria, studentessa universitaria a Milano, che ricorda una parte del percorso scolastico e che con grinta non ha voluto cedere al “si è fatto sempre così”, mettendosi in gioco in classe e con la classe: «Si matura la consapevolezza che, oltre le pagine, si impara anche dal dialogo e dal continuo confronto che accompagnano le nostre giornate per diventare i protagonisti di una vita che ci aspetta, finite le famose cinque lunghe ore, nelle relazioni affettive, studiando all’università, inserendosi nel mondo del lavoro». La scuola è quindi un luogo di incontro e di scontro, di pace e di conflitto! Parole grosse, è vero, ma rendono l’idea di ciò che un piccolo grande mondo nel bene o nel male vive tutti i giorni. In aula viene insegnata la convivenza civile fin da piccoli, che è provata con il fuoco delle relazioni giornaliere per anni e anni, fino ad entrare nella maggiore età. Non nascondiamo, però, la fatica nell’impararla quando i compagni sono poco accoglienti, se c’è un bullo in giro, se resta legata solo a qualche lezione teorica, se i prof. non la traducono in vita vissuta. Non serve il buonismo, ci vogliono gesti concreti, scelte educative chiare, lavorare sulle relazioni significative, dare un senso a ciò che si studia, offrire opportunità di operare il bene, proporre idee e interventi dalla misura alta.
    Virginia, studentessa in Giurisprudenza a Torino, mi ha scritto queste parole negli anni della pandemia: «Mi sono chiesta come continuare a trovare quello stimolo e quella voglia di scoprire sempre più a fondo, conoscere e innamorarmi di ciò che quotidianamente faccio. Mi manca quella quotidianità scolastica fatta di relazioni, tra compagni e professori, e non solo. Sembrava tutto così scontato e invece non lo era per nulla! Vorrei continuare ad avere speranza che “andrà tutto bene”, anche se dubito che sia così. Come si fa a credere ancora in un nuovo inizio? Ricordo che al terzo anno, quando la prima ora avevamo italiano e latino, lei alzava sempre la prima serranda della finestra e chiedeva a noi di fare lo stesso con le altre, sicuramente per cercare di svegliare le nostre menti troppo assonnate, ma anche per illuminare quella giornata, cioè darle un colore sin dal primo momento. Mi chiedo come possiamo continuare ad alzarle nella nostra per far entrare quei raggi di luce che dovrebbero colorare in modo diverso le nostre giornate?».
    Queste domande sono ancora attuali; i dubbi, le incertezze, la stanchezza sono antichi e allo stesso tempo nuovi. Forse è proprio l'unicità di quel periodo che può diventare uno stimolo e un’occasione oggi! Lo ricorderemo a lungo e i giovani ancor di più, ma oltre il brutto ricordo dovrà essere quasi un memoriale, perché ciascuno con il proprio ruolo e responsabilità sappia prendersi cura del futuro alla luce della pandemia. Come? Cercando il proprio posto in questa storia, continuando a porsi queste domande, costruendo relazioni nuove, riscoprendo vecchi amici, operando il bene. Nella mia vita ho scoperto che dedicandosi a chi soffre, sebbene i nostri pesi restino, essi ci sembreranno più leggeri confrontati con sofferenze più grandi. Non si tratta di essere ottimisti, ma di avere speranza e di essere "speranza" per gli altri!
    A proposito delle serrande e della luce: viviamo come se avessimo una ferita sempre aperta; la scommessa è di impegnarsi e riuscire a trasformare le ferite in "feritoie" da cui sgorghi la luce. Questi non sono consigli, ma una traccia, una sorta di punti da unire come nella settimana enigmistica, però senza alcun enigma, poiché io stesso da docente ed educatore cerco di unire ogni giorno questi puntini e seguire una traccia. In tal senso ci illumina Cristiana, anch’essa all’università di Milano, quando racconta: «Sono entrata al liceo che cercavo di capire quale fosse il mio ruolo nella vita degli altri, dimenticandomi che per scoprirlo dovevo mettermi in relazione con loro. E così sono uscita da quella bolla fragile in cui vivevo e sono andata a scoprire il mondo. La scuola mi ha permesso di conoscermi, mettermi alla prova, comprendere i miei obiettivi e i miei limiti. Mi ha spinto a fare un passo più avanti, promettendomi che alla fine la vista sarebbe stata bellissima, e ha mantenuto la parola!».


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