2. Una spiritualità
della vita quotidiana?
Riccardo Tonelli
Oggi molti constatano con gioia l’esistenza di una nuova forte domanda di spiritualità. Lo documentano le analisi e lo comprovano tanti fatti.
I fatti però vanno interpretati bene, per non lasciarci sedurre dal loro fascino e per non concludere che finalmente siamo tornati ai bei tempi… cosa che proprio le ricerche più serie smentiscono.
Cosa sta capitando?
Una ricerca di speranza
La domanda di spiritualità emerge dalla diffusa domanda di ragioni per credere alla vita e per sperare sulla sua vittoria. Per questo, anche la sua proposta è sollecitata a misurarsi con la vita quotidiana.
Questa è la mia ipotesi. Abbiamo imparato ad amare intensamente la nostra vita e non ci accontentiamo più di quelle risposte che lanciano nel "dopo" la soluzione dei problemi e il consolidamento dei desideri. Nello stesso tempo, ci siamo trovati con le mani vuote delle tante sicurezze che ci avevano appagato. Questo ci mette in crisi: una crisi diffusa e insistita, da cui vogliamo uscire. Ci aggrappiamo a tutto ciò che può offrire rassicurazione e conforto.
E cerchiamo.
Lanciamo la nostra attesa "fuori" di noi e oltre quel confine ristretto, dentro cui abbiamo ormai consumato tutte le risorse.
Siamo un po' come l'atleta del gioco del trapezio al circo. Staccato dalla piattaforma di sicurezza, con le braccia in alto attende che i due polsi robusti dell'amico lo afferrino e lo riconsegnino alla vita, per ritentare di nuovo, nella speranza, il salto nell'avventura.
Sono in trepida attesa i giovani, privi delle certezze che gli adulti non hanno più saputo trasmettere. E lo sono gli adulti, cresciuti ormai in libertà e responsabilità: critici rispetto ai modelli religiosi eccessivamente rassicuranti o tutti proiettati verso un "dopo", abbastanza inverificabile.
La vita: una esperienza da condividere con tutti
Il giovane cristiano si rende conto di condividere di fatto l'esistenza di tutti. Non possiede nulla che lo autorizzi a considerarsi un estraneo o un arrivato nella mischia della vita quotidiana. Sa che le difficoltà possono essere superate solo nell'impegno e nella solidarietà. Conosce il nome concreto degli eventi, lieti o tristi, che gli attraversano l'esistenza.
È davvero, fino in fondo, uomo con tutti gli altri uomini.
Eppure sa di vivere nella fede in Gesù Cristo come in un altro mondo. Coerente con questa coscienza credente, compie gesti che lo sottraggono alle logiche del mondo comune.
Conosce per esempio i meccanismi dello sfruttamento che allargano l'area della fame e della violenza, eppure invoca il suo Signore come il principe della pace, lo confessa come il Padre buono che manda la pioggia sui buoni e sui cattivi e si preoccupa persino dei gigli del campo.
C'è in lui la percezione sofferta come di una doppia appartenenza. Si sente cittadino di una città che deve rendere sempre più abitabile, per dimorarci con gioia e con trepidazione. E sa di essere a casa solo nella città futura.
Le due città sono così diverse, così reciprocamente lontane, così intensamente affascinanti. Non ne può abbandonare una a favore dell'altra, perché operando in questo stile tradirebbe prima di tutto se stesso.
Certo, il problema non è nuovo: ha attraversato sempre l'esperienza dei credenti.
La novità è dettata dal modo con cui è vissuta questa tensione.
Il cristiano tradizionale esprimeva così il suo problema: perché interessarsi della vita quotidiana dal momento che è la vita eterna quella che conta? E cercava motivazioni che lo ancorassero di più alla sua terra.
Il giovane cristiano che ha appreso nella maturazione antropologica e teologica le esigenze della autonomia e della responsabilità, è spesso spinto a capovolgere i termini della sua domanda: perché la vita eterna, se e quella quotidiana che più conta?
Se consideriamo bene le cose, è facile accorgersi che non c'è solo un cambio di prospettiva. La vita quotidiana, posta al centro, trascina con sé tematiche che sono molto lontane da quelle su cui è stata scritta per tanto tempo la spiritualità cristiana.
Ne ricordo alcune, selezionandole tra quelle a cui siamo oggi più sensibili: la riscoperta della vita e della soggettività, l'attenzione ai valori della amicizia, della corporeità, della ferialità, della felicità, del "mondo vitale", il bisogno di significatività, la vivibilità delle proposte, la partecipazione, la radicale centralità della propria persona anche sulle norme, sui valori, sulle leggi; la provvisorietà, la relatività, la problematicità, la coscienza (rassegnata o esaltante) della propria finitudine come verità di se stessi.
Se non riesce a dialogare con queste provocazioni, la spiritualità resta cosa d'altri tempi, adatta solo per uomini nostalgici o rassegnati. La sfida assume così il tono drammatico di un interrogativo di fondo: Si può essere uomini spirituali restando uomini di questo tempo? Si può amare questa vita e sognare felicità in compagnia di tutti gli uomini, confessando contemporaneamente che Gesù è il Signore, nella comunità dei credenti?
La vita quotidiana per incontrare il Dio di Gesù
La domanda invoca risposte. Proviamo a pensarci con un poco di calma, facendo una parentesi di silenzio e di meditazione nel frastuono della realtà quotidiana.
Abbandonare la vita per incontrare Dio?
Un certo modo di pensare, di fare raccomandazioni e di cogliere problemi e prospettive è abituato a contrapporre le realtà trascendenti a quelle immanenti. Il mondo della trascendenza è quello che riguarda direttamente il mistero di Dio e quei gesti, parole e interventi che cercano di raggiungerlo. Il mondo dell'immanenza è invece quello della nostra esistenza quotidiana, dove l'uomo si arrabbatta, solitario, nel labirinto delle opere delle sue mani.
In questo mondo Dio è assente; risulta lontano, estraneo. Se vogliamo incontrarlo, dobbiamo avere il coraggio di abbandonare progressivamente tutto quello che ci lega a questa esperienza troppo condizionante per accedere alla libertà del mistero.
Ci sono dei cristiani coraggiosi che fanno il grande balzo in avanti e «abbandonano tutto» per incontrare Dio. Cambiano dimora; diventano così la gente della trascendenza.
Gli altri purtroppo devono continuare a fare i conti con le cose di tutti i giorni. Si ritagliano però qualche spazio privilegiato dove, ad intervalli regolari, cercano di incontrare il loro Dio.
Se meditiamo nella fede la vita e la persona di Gesù, siamo spinti a vedere le cose in un modo molto diverso.
Al conflitto tra trascendenza e immanenza l'evento di Gesù Cristo sostituisce la categoria teologica della «mediazione sacramentale».
Mi spiego.
È vero che il mondo di Dio e quello dell'uomo sembrano lontani e incomunicabili. Dio è il totalmente altro, l'ineffabile e l'imprevedibile. L'uomo è lontano da Dio perché è creatura e perché ha deciso un uso suicida della sua libertà e responsabilità nel peccato. Dio e l'uomo sono i «lontani» per definizione e per scelta.
Questa però non è l'ultima parola. La parola decisiva è invece Gesù di Nazareth. In lui, Dio si è fatto vicino all'uomo: è diventato «volto» e «parola». E l'uomo è stato ricostruito in una novità così insperata da diventare il volto e la parola di Dio.
In Gesù di Nazareth i lontani sono ormai diventati i «vicini», in una realtà nuova, che ha trasformato radicalmente i due interlocutori.
Senza Gesù nella storia dell'uomo il conflitto resta e la distanza è incolmabile. In Gesù la distanza è ormai coperta definitivamente: l'immanente è il luogo in cui il trascendente si fa «volto» e «parola».
La scoperta della vita quotidiana
A chi comprende la realtà in questo modo, viene spontanea una nuova domanda: qual è in concreto questa mediazione, che rende Dio vicino e presente?
La mediazione fondamentale è Gesù di Nazareth. In lui, nella verità più piena e definitiva, Dio e l'uomo sono diventati ormai radicalmente «vicini». Sono così intimamente vicini da essere in Gesù una realtà personale, unica e irrepetibile.
Gesù è il caso supremo di presenza di Dio nell'uomo. La Chiesa, per questa consapevolezza teologica, lo chiama il «mediatore»: la mediazione fatta persona.
Quello che riconosciamo in modo unico in Gesù può essere esteso a tutti gli uomini. La ragione appare immediata a chi medita l'evento dell'Incarnazione. Gesù è la mediazione che rende Dio vicino e presente all'uomo nella grazia della sua umanità. È infatti Gesù di Nazareth, quell'uomo che ha un tempo e una storia, una casa, degli amici e dei nemici, l'evento dove Dio si è fatto volto e parola e dove l'umanità è stata trascinata alle sue capacità espressive più impensabili, fino a risultare parola e volto del Dio ineffabile.
La mediazione è quindi l'umanità dell'uomo. In modo sovrano e inimitabile lo diciamo per Gesù di Nazareth. In lui e nella distanza di realizzazione che ci separa da lui, lo diciamo, con gioia trepidante, di ogni uomo, di ciascuno di noi.
Questa è la grande rivelazione che l'Incarnazione propone a chi sa leggere la storia in uno sguardo di fede.
In Gesù, per la solidarietà che tutti ci lega a lui, Dio è presente nell'umanità dell'uomo. La sua presenza è il dono che costituisce l'umanità stessa e la rende per questo luogo della sua presenza.
Possiamo fare un piccolo passo avanti. Non cambia la sostanza delle cose; ma ci permette di esprimerle in parole più concrete.
L'umanità dell'uomo non è un insieme di eventi fisici, aggregati più o meno casualmente, né è solo una catena di reazioni chimiche. Non è neppure un intreccio confuso di azioni, distese nel tempo senza reciproco collegamento. Se così fosse, la «mediazione» non potrebbe essere considerata come dono da riconoscere e da accogliere nella responsabilità. Si tratterebbe di qualcosa da considerare come estraneo rispetto alla libertà e responsabilità personale dell'uomo. Risulterebbe solo un dato fisiologico, prezioso finché si vuole, ma che sfugge alla responsabilità creativa dell'uomo, come il nascere e il morire.
Questa mediazione è invece una trama di esperienze, profondamente e reciprocamente collegate, di cui possiamo affermare la irrinunciabile paternità personale. Con una parola, carica di forti risonanze evocative, nella nostra storia abbiamo incominciato a chiamare tutto questo con la formula: «vita quotidiana». La vita, nella sua quotidianità, è la piccola nostra mediazione, che ci immerge nella grande mediazione di Gesù.
La vita quotidiana è l'esistenza di ogni uomo: l'insieme delle esperienze che l'uomo produce, entrando in relazione con gli altri, nella storia di tutti.
Distesa a frammenti nel tempo, la vita quotidiana è un evento unico e articolato: una trama, tessuta giorno dopo giorno, in cui diciamo chi siamo e come ci sogniamo.
Questa vita è il luogo dove Dio si fa presente ad ogni uomo, di una presenza tanto intima e profonda da essere più presente a me di me stesso.
La salvezza non è l'esito di alcuni gesti speciali. È ormai l'ambiente in cui esprimiamo tutta la nostra esistenza. Camminiamo a fatica verso la pienezza di salvezza, già segnati dalla sua novità.
Questa diffusa presenza è il principio costitutivo di ogni esistenza, intimo ad ogni uomo più di se stesso. Si tratta evidentemente di una presenza che è offerta alla libertà, che costituisce la libertà stessa: accettata o rifiutata nel cammino progressivo dell'esistenza personale, colloca nella salvezza o riduce alla pretesa suicida di una folle autonomia.
Nella nostra vita quotidiana viviamo nello Spirito. Siamo uomini spirituali se sappiamo riconoscere questa presenza e l'accogliamo nella responsabilità.