6. Tra competenze
e affidamento
Riccardo Tonelli
Alcuni miei amici hanno la bella abitudine di fare una preghiera prima di accendere il motore della loro automobile, infilare la marcia e mettersi in viaggio. Non lo fanno per abitudine. La loro è una scelta pensata e motivata: sanno che abbiamo sempre bisogno della presenza, attenta e premurosa, di Dio, per evitare i rischi che l’esistenza quotidiana ci lancia e concludere bene le nostre imprese.
Io condivido intensamente questo modo di fare e lo raccomando caldamente. Ho però una specie di pregiudiziale. Lo dico, continuando nello scherzo e poi ci rifletto sopra.
Non mi piace iniziare il cammino con la preghiera. Preferisco prima saggiare la competenza dell’autista e poi pregare. Il contrario… mi sembra un modo scorretto di invocare la protezione del Signore.
Per questo, a chi mi sollecita ad iniziare il viaggio con una preghiera, preferisco suggerire di guidare per 5 minuti. Ne bastano pochi per saggiare la competenza dell’autista. Gli dico: prima guida per 5 minuti, poi decido se pregare con te o se al contrario… è più igienico per me scendere dall’auto e prendere un mezzo pubblico.
Perché?
La risposta è facile.
L’affidamento a Dio non sostituisce la nostra competenza professionale. Al contrario, la invoca e la esige. Se non sei sufficientemente capace di guidare un’automobile, è molto meglio rinunciarci. Chiedere al Signore che si sostituisca alla tua imperizia, non è uno stile evangelico. Anche quando il demonio, secondo il racconto del Vangelo, ha suggerito a Gesù di gettarsi giù dalla torre del tempio, per esprimere la sua fiducia in Dio, Gesù gli ha risposto secco: non dobbiamo pretendere troppo né da noi stessi né tanto meno da Dio.
Tutto però non è questione di sola competenza.
Viviamo continuamente nell’incerto e nel rischio. Siamo sprofondati in un mistero di esistenza e di relazioni, che sfuggono ad ogni pretesa di autosufficienza.
Anche l’autista più raffinato è esposto all’incertezza dell’avventura della vita. Ha bisogno della presenza, paterna e materna, di Dio che lo guidi, lo protegga, lo sostenga nelle prove, lo liberi da ogni minaccia.
Per questa ragione non possiamo non pregare. Pregare è affidarsi a Dio come un bambino alle braccia sicure di sua mamma. Non preghiamo quando siamo incapaci di gestire le cose con le nostre forze. Preghiamo sempre, invocando le due braccia robuste che ci accolgano. Mettiamo in gioco tutta la nostra competenza professionale e ci affidiamo felicemente a Dio.
Una storia da meditare
Gesù ha suggerito questo atteggiamento, molto più religioso del suo contrario, tantissime volte. Ho appena citato la sua risposta al demonio che lo tentava per mettere alla prova la sua fiducia in Dio. Ai suoi discepoli, che facevano una certa fatica a capire queste raccomandazioni, ha raccontato una bellissima storia: la storia del fariseo e del pubblicano. So che la conosciamo. Te la racconto però di nuovo… perché non dovremmo mai smettere di meditarla e pregarla.
“Un giorno sono andati a pregare al tempio due tipi... più diversi di così non si può immaginare. Uno era un fariseo, bravo, zelante, noto a tutti per la sua vita osservante. L'altro era un esattore delle tasse: un tipaccio, pieno di soldi rubati senza scrupoli. C'era persino da meravigliarsi del fatto che fosse andato a pregare.
Il fariseo si è messo al primo posto: il suo. In piedi, a testa alta, ha ripetuto la preghiera che faceva tutti i giorni: Dio, ti ringrazio. Sei stato buono e generoso con me e io ti ho ripagato con la stessa moneta. Siamo pari: posso guardarti in faccia, come guardo quelli della mia stessa razza. Pago le decime, faccio le offerte prescritte, osservo tutte le leggi. Sono bravo, grazie a Dio e al mio impegno.
Poi conclude: Non ho più nessun bisogno di te. Ce la faccio ormai da solo. Risparmia le tue grazie... Quello che risparmi con me, lo puoi utilizzare verso quel poveretto che sta in fondo. Vedi come sono generoso? Grazie, mio Dio. Fine della preghiera del fariseo.
Anche il povero esattore delle tasse, nascosto in fondo, all'ombra di una colonna, tentava di pregare. Una fatica terribile... perché era in crisi e la preghiera lo ributtava maggiormente in crisi. È una fatica pensare a se stesso... pensare poi alla propria vita davanti a Dio è una tragedia... a meno di non essere bravo come quel fariseo là davanti.
Gesù riporta qualche parola dalla preghiera stentata dell'esattore delle tasse. "Signore, abbi pietà di me che sono un povero peccatore, pieno di problemi fino al collo. Sapessi quanto mi costa venire a pregarti. Ogni volta che penso a te, nella preghiera, scopro meglio chi sono, conto i tradimenti che attraversano la mia vita, confronto la tua bontà misericordiosa con la mia esistenza. I conti non tornano mai... e la crisi cresce.
Sai... qualche volta mi è venuta la voglia di piantarla con questa preghiera. Così, potrei vedermela solo con me stesso. Alla fine riuscirei ad accontentarmi e basta crisi. Forse. Non è bello, però. Non è giusto. E poi sono sicuro che non ci riuscirei. Senza di te, sono morto.
Ti chiedo due cose. Per me sono importantissime. Lo so che non me le merito. Ma te le chiedo ugualmente.
Prima di tutto, ti chiedo la grazia di continuare a venire qui per pregarti... nonostante tutto. Ho scoperto che fa un gran bene contemplarti, anche se questo mi fa soffrire. Nel tuo volto, vedo il mio. Dal profondo ti invoco. Mi fa del bene. Mi aiuta a vivere. Pregare è come sognare a colori sulla propria esistenza: non voglio proprio perdere anche il diritto a sognare.
La seconda cosa... è più difficile. Dipende solo da te. Non so bene le parole: leggi tu tra le righe. Ecco: provo a dirti quello che desidero. Pigliami così come sono. Accoglimi, povero diavolo che sono, nel tuo abbraccio. Senza di te non posso vivere. Non ce la faccio proprio. Non mi devi chiedere di diventare bravo come condizione del tuo amore. Resterei solo, triste, disperato. Regalami il tuo amore accogliente e vedrai che... un po' alla volta... qualcosa cambierà nella mia vita".
Ritorniamo alla nostra vita di tutti i giorni
Questa volta, Gesù non si è accontentato di raccontarci la bella storia del fariseo e dell’esattore delle tasse. L’ha commentata a fondo, per farci capire da che parte lui sta.
La gente sicura, che non ha bisogno di nessuno, che si fida solo di se stessa e che pensa di aver risolto tutti i problemi giocando la carta dell’impegno e della responsabilità… questa gente a Gesù non va giù. La considera presuntuosa, come se gli buttasse in faccia quell’amore che è la ragione della sua presenza accanto a noi. E, soprattutto, la valuta falsa. Non possiamo bastare a noi stessi. Non possiamo presupporre di risolvere tutti i problemi, soprattutto quelli che riguardano la vita e il suo senso, l’amore e la sua consistenza coraggiosa, con le nostre sole forze. Non siamo autosufficienti sulle cose che contano, anche se ce la mettessimo tutta fino allo spasimo.
Al contrario, ci fa capire quanto gli vada simpatico l’atteggiamento dell’esattore delle tasse. Lo considera un tipo serio, coraggioso, pieno di voglia di vivere e autentico nei suoi progetti. Si impegna, gioca al rialzo nella sfera dei suoi sogni di vita… e poi accetta di fare i conti con la propria debolezza. Ce la mette tutta e constata di non bastare a se stesso. Ha la necessità di alzare continuamente le braccia verso l’alto, per invocare due mani robuste capaci di afferrarlo e sostenerlo. Fa, in una parola, il gesto più autentico di umanità: si affida al mistero di Dio che avvolge la sua quotidiana esistenza.
Grida e invoca dal profondo di se stesso continuamente e sempre. Non vuole dividere gli ambiti di esistenza: quelli in cui si sente sicuro e competente, senza dover chiedere nulla; e quelli in cui è scarso di competenza e riconosce di conseguenza di aver bisogno di aiuto.
La conclusione della storia narrata spalanca verso l’avventura della nostra vita quotidiana: la competenza non è il contrario dell’affidamento, né viceversa. I discepoli di Gesù, nelle loro scelte e nei gesti concreti, cercano di assicurare il massimo della competenza possibile e, con la stessa intensità, si affidano al mistero di Dio che sostiene tutta l’esistenza.
Per questo, come ho raccontato sorridente all’inizio, si mettono al volante solo quando sono sufficientemente sicuri di sé e, nello stesso tempo, pregano intensamente il Signore della vita e della storia, nel coraggio di riconoscersi bambini tra le braccia di una mamma premurosa.
L’ha detto anche Gesù, quel giorno in cui i discepoli volevano liberarlo dal frastuono di un gruppo di ragazzini che gli stava d’attorno: “In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt. 18, 3). Non è certo un invito alla infantilizzazione di ritorno. È, al contrario, la raccomandazione a superare sicurezze e presunzione (la conversione), per vivere nell’affidamento (come bambini).
Nel fare sport
Detto così, sembra un discorso astratto, con scarsa incidenza nella vita concreta. Ma non è davvero così.
Penso, per esempio, ad una abitudine diffusa anche nello sport: un bel segno di croce – più o meno pensato – e poi il primo calcio al pallone o lo scatto fulminio allo starter. Lo facciamo noi e lo vediamo fare da altri. Qualche volta restiamo un poco meravigliati e moltiplichiamo i commenti.
Questo gesto – e altri simili – ha senso?
Non discuto se ha senso per chi lo pone. La faccenda è personale e va necessariamente rispettata. Mi chiedo se questo gesto esprime davvero una esperienza spirituale.
Ciascuno costruisce la propria risposta. Certo, la domanda è seria, perché nessuno di noi si rassegna a compiere gesti importanti nella propria vita, senza pensare al loro significato e alla collocazione personale che si portano dentro.
Io offro la mia, sviluppando rapidamente le note precedenti, perché solo in questo spirito è possibile trovare una risposta seria ad una domanda seria.
Il segno della croce ricorda l’evento radicale della morte di Gesù, un gesto, libero e responsabile, in cui Gesù ha consegnato al Padre, attraverso la mediazione dei suoi carnefici, la propria vita per assicurare a tutte le persone del mondo quella pienezza di vita e di speranza di cui aveva tante volte parlato. È dunque un gesto sconfinato d’amore, la decisione di dare la vita perché tutti ne abbiano in abbondanza, la traduzione in fatti concreti di una promessa e di una scelta di vita.
Purtroppo, tante volte abbiamo ridotto il segno della croce ad un gesto superficiale ed affrettato, tracciato senza pensarci troppo, quasi fosse il rito di apertura di incontri e azioni… nell’attesa che venga il bello serio, quello che segue. Non poche volte è persino diventato il gesto scaramantico, che rassicura e copre le spalle.
Il segno della croce dichiara la collocazione radicale di chi lo compie. Manifesta la decisiva scelta di prospettiva. Riconosce, senza mezzi termini, di far proprio un progetto radicale di esistenza e di affidarsi alla potenza di Dio che ha restituito la vita in pienezza a Gesù, incoronato Signore della vita.
Lo poniamo prima di ogni azione, seria e impegnativa, per dichiarare da che parte stiamo. Il segno della croce dice la nostra passione per la vita e dichiara di cercare la vita, per noi e per tutti, in Gesù, condividendo la sua passione per la vita e la sua strategia per assicurarla a tutti.
Facciamo il segno della croce prima di ogni azione seria per dichiarare tutto questo senza bisogno di fare lunghi discorsi. A chi ci chiede chi siamo, rispondiamo producendo il nostro nome e identificandoci nel profondo come amici di Gesù.
Ce la mettiamo tutta nelle cose che facciamo. Giochiamo bene e con competenza per vincere la gara o per compiere efficacemente il gesto che siamo invitati a porre. Ma diamo un significato più alto e decisivo a questo stesso gesto. Collochiamo la nostra persona e la responsabilità della nostra competenza in un progetto più vasto, che tocca persino i confini del mistero, affidando tutto di noi al mistero di Dio.
Per questo, siamo uomini seri… quando iniziamo le nostre imprese con un segno di croce. Non è gesto di scaramanzia. È dichiarazione di affidamento, che amplifica e consolida la nostra competenza.
Spero di essere stato capace di condividere con chiarezza una mia convinzione profonda: pregare o non pregare prima di intraprendere cose serie è qualcosa che riguarda la vita quotidiana ed è, nello stesso tempo, una seria faccenda di spiritualità cristiana.