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    7. Uno spazio

    di interiorità

    Riccardo Tonelli

    Ti invito a pensare ad un tema che può apparire molto strano, soprattutto oggi, in questo tempo in cui pensare è già un lusso riservato a pochi e pensare poi, entrando nel segreto della propria esistenza, in quello spazio di silenzio in cui siamo soli, di fronte a noi stessi e al mistero di Dio, sembra proprio una follia di nostalgici.
    Eppure, se non troviamo un poco di spazio di silenzio dentro di noi, per pensare, confrontarci, progettare… siamo condannati a restare manipolati dai tanti venditori di fumo che ci circondano e perdiamo la gioia e la responsabilità di abitare noi stessi.
    L’affermazione è dura ed esigente. Nasce dall’esperienza e dall’amore: due ragioni che giustificano anche le parole forti.
    Devo però spiegarmi, produrre le ragioni, suggerire una ipotesi di lavoro.

    Cosa è “interiorità”

    L’invito che ho appena suggerito, di pensare un poco a se stessi, lo chiamo con la parola che ho messo a titolo: “interiorità”. Per sapere di che cosa si tratta, non basta aprire un dizionario o fare una passeggiata in Internet. Di definizioni ne troviamo tante da smarrirci per strada.
    Generalmente si collocano su due differenti prospettive.
    Da una parte, interiorità è la capacità di fare un poco di autoanalisi, per vedere la realtà oltre quello che appare a prima vista, cogliendo le logiche sottostanti e i suoi possibili esiti e riflessi. Spesso questo processo è collegato a tentativi di “autobiografia”, quale libera e spontanea anamnesi della vita, orientata a sviluppare le potenzialità del pensiero introspettivo, per poi ampliare l’acume intellettivo, giungendo ad un contatto più stretto con il proprio sé.
    Dall’altra (soprattutto nell’accezione classica della spiritualità cristiana), interiorità è il livello più alto di esperienza spirituale, che porta gli uomini religiosi al silenzio e alla solitudine, per immergersi più intensamente nel mistero di Dio.
    La prima accezione è troppo ampia, la seconda troppo ristretta, per poterla suggerire come esigenza ai giovani di questo nostro tempo. Preferisco fare riferimento ad una accezione di interiorità diversa. Considero l’interiorità uno spazio di riflessione e di silenzio personale: un luogo “interiore”, un atteggiamento e un modo di essere, dove tutte le voci possono risuonare, ma dove ciascuno si trova a dover decidere, solo e povero, privo di tutte le sicurezze che danno conforto nella sofferenza che ogni decisione esige. In questa esperienza esistenziale, il confronto e il dialogo serrato con tutti sono ricercati, come dono prezioso che proviene dalla diversità. La decisione e la ri­costruzione di identità sono portate a maturazione progressiva in quella solitudine interiore, che permette, verifica e rende concreta la coerenza con le scelte unificanti della propria esistenza. Per questo, l’interiorità esige occhi profondi e capacità d'ascolto e di meditazione, per scorgere il significato della realtà oltre le apparenze e capacità di silenzio per penetrare in noi stessi, attraversare impressioni, sensibilità, risonanze e giungere al mistero di Dio e di noi stessi.
    Non è atteggiamento esclusivo dei cristiani. Rappresenta però una condizione di maturazione in umanità, senza della quale riesce davvero difficile vivere intensamente l’esperienza cristiana, per ascoltare lo Spirito che si rivela solo nel silenzio dell’interiorità.

    L’interiorità è impresa difficile

    Ho detto a cosa penso quando parlo di interiorità.
    Come vanno le cose oggi? L’interiorità viene spontanea o si deve fare una faticaccia per costruire spazi di interiorità nel ritmo affannoso di una giornata?
    Ciascuno deve rispondere per se stesso e pensando alla propria esperienza.
    È facile però constatare che le difficoltà non mancano e abilitarsi a vivere nell’interiorità esige coraggio e impegno.
    Una grossa spinta verso la rimozione dell’interiorità proviene oggi soprattutto dalla diffusione capillare dei mass media, in particolare della televisione, con l’ossessiva ricerca di audience spesso soddisfatta da programmi e rubriche in cui i moti della vita affettiva, i problemi più strettamente personali e inerenti alla sfera dell’intimo sono riversati all’esterno e dati in pasto a milioni di persone.
    Per fortuna, ci sono anche casi felici e ne possiamo citare a piene mani. Sono convinto però che la domanda di interiorità, constatabile tra i giovani di oggi, assomiglia molto al modo in cui essi vivono l’esperienza religiosa, anche per la correlazione esistente, nel nostro contesto, tra ricerca di senso e manifestazioni religiose. Questa voglia di esperienze forti è segnata da una serie di atteggiamenti che non poche volte inquinano il fatto e l’esito: incertezze, soggettivizzazione, pluralismo, ricerca affannosa di emozioni, capacità di esprimersi più attraverso immagini che mediante parole riflesse, bisogno di solidarietà che riscrive persino la qualità dell’interiorità personale.
    Dubito di conseguenza che tutto questo abbia come riscontro la riconduzione spontanea di queste esperienze in quella stanza di silenzio interiore dove le emozioni sono decantate e ragione e significato prendono il sopravvento, fino a diventare scelta di vita, capace di resistere anche alle onde d’urto del contesto.

    Recuperare l’interiorità, riscoprendo il “deserto”

    Arrivo allora alla proposta.
    È urgente riscoprire l’interiorità, se ci sta a cuore la qualità della nostra vita e di una esperienza cristiana matura.
    Come?
    Nel titolo del paragrafo ho introdotto una risposta, suggerendo la riscoperta del… deserto. Ti prego: non farci una risata e neppure mettermi addosso l’etichetta di nostalgico ecologista. L’invito al deserto ha una sua logica, molto radicata nell’esperienza spirituale di tanti cristiani. Va compresa bene per poterla giudicare ed eventualmente condividere.
    Mi ha messo in crisi e mi ha fatto pensare la testimonianza di tanti cristiani, impegnati nella dura lotta per la liberazione dell'uomo, sulle frontiere dove la lotta è più dura, fino al sangue del martirio. Hanno riscoperto il "deserto" senza abbandonare la lotta e l'impegno. L'hanno riscoperto come momento di libertà, di solitudine e di solidarietà, per vivere l'impegno di liberazione da uomini spirituali. Ce lo ricorda, tra le tante voci, quella di un testimone qualificato: "Il pellegrinaggio avviene nella povertà e nelle privazioni imposte dalla terra inospitale che il popolo deve attraversare. Esso non si sposta portandosi sulle spalle la propria casa; ma va in cerca di una nuova abitazione. Lo assalgono i timori e si moltiplicano le minacce alla sua vita. Per questo si presenta ripetutamente la tentazione del ritorno, del passo indietro. (...)
    La marcia nel deserto è un andare continuo ed esigente. (...) Nel deserto non esiste una pista tracciata in precedenza. Lì, come nel mare, le tracce non si conoscono. Il cammino spirituale è libertà permanente e creatrice sotto la guida dello Spirito. La rotta è tracciata nella massima solitudine. La solitudine non è il ripiegamento egoista, è un fatto centrale di tutta l'esperienza di Dio: Dio ci parla nel deserto. La solitudine prepara la comunione, dispone con autenticità ad essa. Senza l'esperienza della solitudine non c'è comunione, né unione con Dio, né vera condivisione con gli altri" (G. Gutiérrez).
    Il deserto, cercato o fuggito, non è un luogo fisico, dove rifugiarsi scappando dalla mischia del quotidiano. Invece è uno stile di vita: la ricerca di spazi "dalla parte del deserto" nel ritmo della nostra vita quotidiana, per ritrovare un modo di vivere da uomini credenti.
    Questa è la mia scelta. L'ho progressivamente maturata, meditando i testi della Scrittura e della prima tradizione cristiana.
    La nostalgia del profeta per il deserto non corre prima di tutto a quell'ambiente fisico di cui parlano i testi di geografia. Anche lui, come tutti quelli che l'hanno attraversato, sa che il deserto non è certo una terra benedetta da Dio. Assomiglia molto alla desolazione iniziale, quando "sulla terra non c'era ancora nemmeno un cespuglio e nei campi non germogliava l'erba" perché "Dio, il Signore, non aveva ancora mandato la pioggia e non c'era l'uomo per lavorare la terra" (Gen. 2, 5).
    Il deserto è il luogo della maledizione, l'esito a cui viene condannato chi tradisce la fedeltà a Dio.
    "Siamo tristi nel fondo del cuore,
    i nostri occhi sono velati di lacrime
    perché il monte Sion è diventato un deserto,
    un posto abitato dalle volpi.
    Queste sono le conseguenze del nostro peccato" (Lamen. 5, 16-18).
    Il popolo ebraico ha vissuto però una esperienza unica che ha riscattato il deserto.
    Nel tempo dell'esodo, infatti, in quella sofferta marcia che l'ha ricondotto dall'Egitto alla terra dei padri, esso ha trascorsi lunghi anni del deserto. In questo luogo, duro e ostile, si è ritrovato Dio vicino e accogliente, come mai gli era successo prima. L'ha condotto per mano, liberato da mille pericoli, nutrito e dissetato dalla sua potenza. Nel deserto, Dio ha firmato un patto di vita con lui. Lì, la sua fedeltà è stata messa alla prova. Nonostante i continui segni di una insperata benevolenza, anche in questo tempo felice è riaffiorato il tradimento e l'infedeltà. Dio però è rimasto vicino al suo popolo. Lo ha richiamato e colpito. Ma alla fine lo ha salvato, riportato alla casa promessa, "in una terra fertile e spaziosa dove scorre latte e miele" (Es. 3, 8).
    Così, il deserto è stato veramente trasformato. La terra maledetta è diventata terra di benedizione.
    Il profeta l'aveva sognato; i fatti gli hanno dato ragione a dismisura:
    "Saranno come pecore,
    che pascolano lungo le strade
    e trovano erba abbondante
    su ogni collina.
    Non soffriranno più la fame o la sete,
    né il sole, né il vento caldo del deserto
    li colpirà.
    Li condurrò con amore,
    li guiderò a fresche sorgenti.
    Farò passare attraverso le montagne
    facili strade.
    Il Signore conforta il suo popolo
    e ha misericordia
    per quelli che hanno sofferto" (Isaia 49, 9-13).
    In questa esperienza il deserto risuona come il tempo della fedeltà misericordiosa di Dio.
    Per questo, l'uomo della Bibbia è pieno di nostalgia per il deserto, anche se lo teme ogni volta che lo deve attraversare, e lo combatte per strappargli fazzoletti di terra fertile. Ricorda con rimpianto il tempo di una fedeltà più grande; è ancora affascinato dall'esperienza di sentirsi sussurrare "parole d'amore" da Dio.
    Noi siamo un po' nella situazione del popolo ebraico, pellegrino verso la terra promessa. In cammino verso la casa del Padre, siamo ancora nel tempo duro del deserto. L'abbiamo riempito di luci e di colori, addomesticato con i mille ritrovati della nostra scienza e sapienza. Ci stiamo bene, anche perché abbiamo condannato altri a stare peggio di noi.
    Anche noi siamo nutriti di un pane di vita che viene dal cielo; siamo anche noi dissetati da una fresca acqua di sorgente. La nostra vita, misteriosamente avvolta della presenza di Dio, resta però sempre il tempo del deserto: della lotta, dell'attesa, dell'esodo.
    La nostalgia per il deserto non è la fuga dalla nostra cultura né la ricerca forzata di un'austerità a tutti i costi. È invece la ricostruzione nel nostro tempo delle stesse esperienze che hanno trasformato il deserto in un tempo felice.
    Il deserto è quindi prima di tutto la proposta di un modo di vivere, il segno più espressivo di uno stile di esistenza che dobbiamo recuperare, per vivere da credenti in una spiritualità della vita quotidiana.
    Se c'è della gente che non può rinunciare al deserto, siamo proprio noi.
    Per vivere nell’interiorità dobbiamo costruire spazi di deserto attorno a noi.

    Finalmente in compagnia di se stessi

    Di una cosa importante il deserto è davvero maestro inesorabile: costringe a restare soli, in compagnia di se stessi.
    Ho l'impressione che sia una delle esperienze più difficili oggi. Abbiamo tutti un gran paura di restare soli e cerchiamo affannosamente gli altri. Ci sostengono, ci servono di prezioso punto d'appoggio. Diventano persino il grembo materno a cui affidiamo la fragile nostra esistenza.
    Spesso è una compagnia strana: rumorosa e distraente, come un pomeriggio domenicale che dura tutta la vita, passato in discoteca, vicini e tanto isolati, costretti ad urlare per farsi ascoltare, sempre male interpretati, nel sottofondo musicale che distorce ogni voce. Ma ci va bene. Ci aiuta a non pensare: a non avere paura e a non essere costretti ad alzare le mani invocanti.
    Qui è il punto.
    Quando siamo soli, faccia a faccia con la nostra finitudine, ci sentiamo costretti a cercare due polsi robusti a cui ancorare le nostre braccia alzate nell'invocazione. Ma questo ci fa soffrire, troppo per risultare praticabile.
    Scopriamo di non bastare a noi stessi, noi che sappiamo tante cose e usciamo indenni da tutti gli inghippi. E ci accorgiamo che, in fondo, nessuno dei nostri amici ci basta per sopravvivere sull'onda del limite invalicabile della nostra fame di vita e di felicità.
    Abbiamo paura di sprofondarci nell'abisso del mistero che ci avvolge, dove i conti non tornano più.
    E così scappiamo dalla difficile e inquietante compagnia di noi stessi.
    Nel deserto questa fuga è impossibile. Sprofondati nel silenzio, lontani dalle cose che ci rassicurano, fuori dal ritmo ossessivo del nostro tempo, ci troviamo inesorabilmente da soli.
    Finalmente viviamo nell’interiorità.


    T e r z a
    p a g i n A


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