Giancarlo Milanesi
(NPG 1972-08/09-20)
Cercherò di mettere in rilievo le tensioni che oggi sembrano attraversare la Chiesa, seguendo un doppio criterio di osservazione: il quadro delle conoscenze sociologiche obiettive che si hanno della situazione ecclesiale e la percezione che di essa hanno i giovani.
Mi rendo conto anzitutto che parlare di «percezione» dei giovani può costituire un errore di prospettiva, in quanto la condizione giovanile è fenomeno assai articolato, entro cui si possono rilevare posizioni estremamente diversificate a seconda delle differenze di età, sesso, classe sociale, formazione religiosa, impegno politico, ecc.
D'altra parte è forse possibile rilevare nella diversità delle posizioni verso la Chiesa e le sue tensioni alcune «costanti» comuni a larghi strati di popolazione-giovanile.
Aggiungo inoltre che non è possibile in questa sede documentare tutte le affermazioni; mi limiterò a fornire una bibliografia di base in cui sarà possibile verificare in modo più analitico la descrizione che farò in queste pagine.[1]
Le tensioni che attraversano la Chiesa derivano a mio giudizio dal radicalizzarsi dei due processi di istituzionalizzazione e di secolarizzazione che la riguardano. Si tratta di fenomeni globali e generali, connessi necessariamente con le trasformazioni recenti della società occidentale, ma radicati in premesse di carattere strutturale e culturale di antica data.
TENSIONI PROVENIENTI DAL PROCESSO DI ISTITUZIONALIZZAZIONE
Il processo di istituzionalizzazione si verifica necessariamente in ogni esperienza collettiva; alla sua origine è finalizzato alla salvaguardia dei valori essenziali del gruppo, che ne costituiscono la ragion d'essere. Istituzionalizzazione significa infatti il progressivo cristallizzarsi, formalizzarsi e stabilizzarsi dei comportamenti di gruppo che sembrano più utili e funzionali alla realizzazione dei valori comuni.
Tale processo risponde certamente in modo positivo a certi bisogni del comportamento collettivo; semplifica le condotte sociali, presenta e forma modelli di condotta e ruoli già pronti per essere realizzati, coordina la cultura di gruppo, controlla efficacemente gli eventuali tentativi di devianza. Ma allo stesso tempo l'istituzionalizzazione, soprattutto nelle sue forme più rigide, comporta alcune conseguenze negative: la cristallizzazione delle condotte collettive impedisce l'adeguamento del gruppo ai fenomeni di cambio sociale, frustra la creatività dei singoli, favorendo perciò le opportunità di disadattamenti, devianza, emarginazioni; abbassa il senso di responsabilità.
Il processo di istituzionalizzazione ha inizio al momento stesso in cui un'esperienza da individuale diventa collettiva, cioè al momento stesso della formazione di un gruppo. Il fatto stesso dello stabilizzarsi delle relazioni interpersonali tra i membri di un gruppo è già una forma iniziale di istituzionalizzazione.
Il processo accompagna dunque con le sue ambivalenze ogni tentativo di perseguimento di valori fatto collettivamente. Il dilemma dell'istituzionalizzazione è «strutturale» ad ogni esperienza di gruppo.
Tale ambivalenza attraversa anche costantemente la storia della Chiesa. Essa è istituzione (sia pur in forme flessibili e in misura minima) fin dal primo momento della sua esistenza come gruppo spontaneo e carismatico di credenti. In realtà non esiste una Chiesa carismatica in contrapposizione ad una Chiesa istituzionale, ma piuttosto una Chiesa in cui carisma e istituzione costituiscono i due poli tra cui si attua la dialettica dello sviluppo. Vi sono momenti in cui prevale il carisma e momenti in cui prevale l'istituzione; non è facile dimostrare che l'evoluzione sia unidirezionale dal carisma alla istituzione.
È possibile comunque analizzare i processi che portano a forme rigide ed estreme di istituzionalizzazione all'interno della esperienza di Chiesa; essi riguardano soprattutto le trasformazioni del culto, delle credenze e dell'organizzazione.
L'istituzionalizzazione del culto
L'esperienza religiosa originaria è certamente spontanea e irrepetibile, in quanto è un atto di fede che crea una comunicazione tra l'uomo e il trascendente in forme personali. Ma quando si pone la necessità di rievocare l'esperienza religiosa originaria non si può fare a meno di gesti e parole che abbiano un significato simbolico, che esercitino cioè la funzione di riprodurre l'esperienza stessa.
La ricchezza dell'evento salvifico si traduce in una pluralità di simboli, garantiti nel loro significato dalla presenza dei credenti che hanno fatto l'esperienza iniziale carismatica. Di mano in mano che ci si allontana nel tempo dagli eventi salvifici e vengono meno i «garanti» dei simboli, si impone la necessità di fissare in termini precisi quali siano i gesti e le parole che hanno un collegamento con l'esperienza religiosa stessa. Ciò non potrà essere fatto se non in connessione con il sorgere all'interno del gruppo religioso di una classe di «esperti» o «responsabili», che è riconosciuta come continuatrice dell'autorità carismatica dei fondatori. L'istituzionalizzazione del culto, se radicalizzata, porta alla prevalenza delle forme rituali; l'esperienza si formalizza, si perdono i collegamenti con il sacro originale, si attenua la capacità rievocativa del sacro stesso, e venendo a mancare l'esperienza dei valori religiosi essenziale al gruppo, si sfalda anche la solidarietà e il sentimento di appartenenza che sono fondati sulla partecipazione diretta a quei valori.
Nella recente esperienza della Chiesa si è avvertito sempre più la necessità di rinnovare le forme cultuali, appesantite da una istituzionalizzazione eccessiva; il Concilio ha dato avvio ad una rielaborazione radicale delle forme cultuali dell'esperienza religiosa (Messa, Sacramenti, devozioni), affrontando le inevitabili tensioni connesse con un compito storico di tale portata. Si tratta infatti di procedere in molte direzioni: nella riscoperta dei significati plurimi degli avvenimenti salvifici che stanno alla base del culto, nel tradurli in simboli leggibili per l'uomo d'oggi, nello stabilire un legame flessibile tra esperienze esistenziali da cui dipende la variabilità e la mobilità dei simboli stessi (gesti e parole).
Il riflesso sui giovani
Le tensioni connesse a questo tentativo di de-istituzionalizzazione del culto rimbalzano necessariamente sui giovani del dopo-Concilio:
- Si ha una forte aliquota di giovani che abbandonano la pratica religiosa e la vita sacramentale; il motivo risiede nella loro incapacità a percepire il significato del culto, in cui essi vedono solo una condotta formale e ritualistica, che non può essere radicalmente cambiata da nessuna riforma liturgica.
- Altri invece contrappongono alla cristallizzazione culturale il bisogno di un'esperienza spontaneista che è carica di ambivalenze; mentre infatti si tende ad adattare la simbolica cultuale (messa e sacramenti) alla esperienza vissuta nel quotidiano, si corre il rischio di banalizzare la simbolica stessa, privandola della sua essenziale intenzionalità trascendente. Il culto diventa così veicolo espressivo della vasta problematica umana in cui si è immersi, ma può perdere il suo significato sostanziale di «segno» che rievoca e ripropone una salvezza trascendente.
- Altri ancora perseguono e accentuano la scoperta del significato essenziale dell'avvenimento salvifico (cioè del sacrificio di Cristo, dei segni sacramentali...) relativizzando all'estremo le forme culturali in cui esso si esprime; queste cioè non costituiscono un «problema» e possono essere «inventate» liberamente nei momenti in cui il gruppo sente il bisogno di ricollegarsi con gli eventi salvifici. Questo atteggiamento implica un giudizio negativo sulla pretesa «sacerdotale» di gestire in proprio ed esclusivamente il culto e, anche sulla scorta di una certa teologia del sacerdozio, avanza richieste di partecipazione alla elaborazione delle espressioni simboliche connesse con gli eventi salvifici (canti, gesti, parole dei testi, schemi di celebrazione...).
In definitiva i giovani più interessati ai processi di de-istituzionalizzazione del culto riflettono nella loro azione e nelle loro iniziative le difficoltà che il compito impone; riscoperta del significato autentico dell'avvenimento, relatività dell'universo simbolico in un mondo che cambia rapidamente, pericolo ricorrente di cristallizzazione se si assolutizzano le forme culturali.
L'istituzionalizzazione delle credenze
L'esperienza religiosa primigenia contiene certamente un nucleo di contenuti che formano l'oggetto della fede. Per quanto non irrazionali questi contenuti non sono frutto di una pura sistemazione logica, non sono derivazione di premesse razionali, ma piuttosto sono punto di riferimento di una complessa forma di approccio che comprende elementi percettivi, emotivi, affettivi, consci e inconsci, che si organizzano in un atteggiamento o presa di posizione vitale dell'uomo di fronte al Radicalmente Altro, che si rivela, interroga, salva.
Possiamo chiamare «mito» questa somma di contenuti mentali (non puramente razionali) che esprimono il rapporto tra l'uomo e il divino. La storia delle grandi religioni è caratterizzata dalle tensioni che si creano quando si tratta di sottoporre ad analisi, interpretazione, elaborazione i contenuti del mito primitivo; è il cammino che segue lo sviluppo del mito in logo. È il tentativo di riproporre in linguaggi comprensibili agli uomini delle diverse epoche il contenuto del messaggio.
Per l'esperienza di Chiesa che ci interessa, il mito è dato dal nucleo essenziale di verità che contiene il piano di salvezza rivelato da Dio. Il logo è frutto dell'inarrestabile bisogno che l'uomo ha di capire. La storia della Chiesa mostra quale sia stata la progressiva utilizzazione di strumenti razionali, derivata dalle varie culture, per la comprensione del messaggio rivelato. La garanzia che l'interpretazione sia fedele al contenuto primitivo è data dal progressivo affermarsi di una classe di «esperti» cui è riconosciuta l'autorità di verificare la coincidenza tra mito e logo. Le diverse teologie documentano lo sforzo di sistematizzazione e fissazione delle acquisizioni razionali che si sono realizzate rispetto al mito iniziale. In questo complesso processo consiste sostanzialmente l'istituzionalizzazione delle credenze.
Il processo è carico di ambivalenze; infatti il rischio grave è quello di relativizzare il mito (cioè il contenuto originario della fede) agli strumenti razionali che si sono usati per interpretarlo, di cristallizzare il messaggio in una espressione culturale storicamente condizionata, di abbassare la fede al livello di ideologia, cioè a elaborazione culturale che banalizza il contenuto rivelato. In tutti questi rischi connessi alla istituzionalizzazione delle credenze, il risultato è la formalizzazione della fede, lo svuotamento della sua specificità di rivelazione trascendente, il suo progressivo distacco dalla ricchezza dell'annuncio originario, la separazione del gruppo degli «esperti» dalla viva esperienza e comunicazione del corpo dei credenti. Il Concilio è una chiara presa di coscienza dei pericoli di istituzionalizzazione delle credenze, documentabili all'interno della Chiesa dal formalismo teologico e all'esterno dai ricorrenti tentativi razionalisti di ridurre il messaggio cristiano a dottrina filosofica, a proiezione psicologica, a necessità sociologica.
La Chiesa deriva dal Concilio l'impegno di sceverare l'autentico messaggio cristiano dalle incrostazioni culturali dei secoli passati e di tradurlo in linguaggio moderno, proporzionato al pluralismo culturale di oggi, senza per questo relativizzarlo alle ideologie, filosofie, teorie scientifiche contemporanee.
Tale compito è difficile e carico di tensioni; si tratta di abbandonare secolari categorie di interpretazione e correre il rischio di sperimentarne delle nuove, di vigilare costantemente sul pericolo di distorsioni del messaggio, di inventare nuove forme di partecipazione dei credenti alla elaborazione del messaggio per l'uomo d'oggi.
Il riflesso sui giovani
Di queste tensioni risentono in varia misura i giovani:
- Una certa aliquota non è in grado di avvertire la portata rivoluzionaria dell'annuncio della fede e accetta solo un cristianesimo largamente «addomesticato» fino a diventare una ideologia compromessa con la filosofia di vita della buona società borghese. In questo senso si dicono «cristiani» molti di coloro che effettivamente non danno la loro adesione di fede al Dio di Gesù Cristo, che si rivela nella Chiesa. Per loro il cristianesimo non è portatore di un messaggio di salvezza soprannaturale, ma è solo una sublime dottrina etica.
- Ve ne sono altri che accentuano la dimensione socio-politica del messaggio cristiano, piegandolo alle esigenze di una rivoluzione certamente sensibile al progetto di liberazione dell'uomo, ma ignara della portata trascendente e totale della liberazione annunciata nel Vangelo. In questi giovani il contenuto del «mito» cristiano è secondario rispetto all'impegno politico; gli è solo giustapposto, come discorso parallelo e, al massimo, legittimante. La Chiesa è vista come coinvolta in una interpretazione apolitica del messaggio, ma in realtà impegnata in una interpretazione conservatrice del medesimo.
- Altri al contrario affermano l'assoluta trascendenza del messaggio cristiano rispetto alle ideologie politiche, filosofiche, sociali; rifiutano il compromesso culturale (di cui accusano la Chiesa gerarchica), credono nella funzione critica e demitizzante della verità cristiana che deve perciò stare al di fuori e al di sopra delle vicissitudini ideologiche. Essi hanno fiducia nella potenza esorcizzante della Parola che va dunque annunciata nella sua purezza e potenza. Avvertono tuttavia che un rapporto con la cultura è imprescindibile almeno nel momento in cui si tenta di esprimere il messaggio in un linguaggio accessibile all'uomo d'oggi.
- Altri ancora cercano faticosamente un punto di incontro tra il contenuto della fede e le istanze dell'umanesimo secolare nel quale sono inseriti; l'equilibrio viene cercato o attraverso la utilizzazione della fede come significato ultimo del profano o come motivazione dell'impegno nelle realtà terrestri. Pochi tentano ancora di «dedurre» dai contenuti della fede le linee per l'azione profana.
- Tutti o quasi tutti rifiutano la gestione autoritaria del messaggio, la esclusiva attribuzione alla classe sacerdotale del diritto-dovere di controllare l'evoluzione del rapporto tra mito e logo; vi è una larga richiesta di partecipazione alla rielaborazione «in prima persona» del messaggio cristiano.
Incertezze e ambiguità accompagnano questo tentativo; la «lettura» carismatica del contenuto della fede può scadere in forme di soggettivismo arbitrario che ripropongono l'antico problema del criterio di autenticità e verità; a chi far capo per avere le garanzie che la lettura corrisponda alla verità del messaggio?
È un problema di carattere ecclesiale che è ben lontano dall'essere risolto nelle comunità giovanili; vi è la tendenza a risolverlo entro la dinamica della chiesa locale (assunta come criterio di fedeltà alla Parola), ma non sempre questa scelta risulta convincente.
In definitiva si osserva che la presa di coscienza dei rischi involutivi connessi con la istituzionalizzazione delle credenze provoca nella Chiesa e nei giovani profonde tensioni riguardanti il rapporto tra messaggio cristiano e ideologie profane e le modalità di strutturazione ottimale di tale rapporto.
L'istituzionalizzazione dell'organizzazione
A livello di struttura si può verificare l'istituzionalizzazione dell'organizzazione; ciò avviene in due diversi settori, all'interno della struttura della Chiesa e nei rapporti di questa con il più vasto mondo.
1. Sebbene sia documentabile l'esistenza di una certa differenziazione dei ruoli all'interno della struttura ecclesiale fin dai primi momenti dell'esperienza cristiana, si può affermare che la loro istituzionalizzazione è minima, i rapporti tra i diversi ruoli sono di natura prevalentemente carismatica, non esistono vere e proprie «classi» all'interno della Chiesa. È solo in seguito che si verifica il passaggio dal carisma dell'autorità al carisma dell'ufficio, cioè da un'esperienza collettiva in cui i rapporti sono regolati da un consenso amicale ad una in cui prevale il potere unicamente fondato sull'ufficio. Di qui una progressiva stratificazione gerarchica all'interno della struttura (con le note distinzioni tra clero, monaci e laici) e una progressiva emarginazione degli strati «inferiori» in posizione di dipendenza e di irrilevanza decisionale.
2. L'organizzazione istituzionale all'interno obbedisce alla necessità di adattamento verso l'esterno; fin dall'inizio il gruppo dei credenti si interroga sugli atteggiamenti da prendere verso la struttura della società in cui il gruppo è inserito. Le soluzioni adottate oscillano tra due posizioni-limite: o rifiuto totale della struttura sociale vigente e perciò organizzazione interna in funzione di rottura con l'ambiente («non siamo di questo mondo») o adattamento alla situazione circostante, nel tentativo di cambiarne profondamente la struttura («siamo stati mandati per il mondo»). La seconda soluzione è stata spesso prevalente: essa implica la progressiva istituzionalizzazione del corpo ecclesiale, la sua integrazione nel quadro strutturale della società globale (con tentativo spesso riuscito da parte della istituzione ecclesiale di diventare la istituzione-cardine del sistema e di imporre alla cultura il quadro dei valori religiosi come unico «significato ultimo», come quadro totalizzante).
Questa scelta implica molte ambivalenze. Condiziona anzitutto la coscienza che la Chiesa ha di sé e perciò la correlativa ecclesiologia; tende cioè a svuotare di valore i significati tipicamente trascendenti che il gruppo si era dato all'inizio per accentuare gli aspetti organizzativi, giuridici, istituzionali; si passa cioè dalla «comunità dei credenti» alla «società perfetta». Inoltre la scelta dell'istituzionalizzazione come mezzo di dialogo con il mondo può comportare (come di fatto è spesso avvenuto) un lento cedimento alla logica dei sistemi sociali con cui la Chiesa entra in rapporto; essa ne può subire in varia misura l'influsso mondanizzante e accettare varie forme di compromesso con le altre istituzioni, specialmente quando sia minacciata di emarginazione. Tutto ciò rende estremamente precaria l'immagine della Chiesa agli occhi dei credenti e dei non credenti; vi è infatti il pericolo di sovrapposizione delle motivazioni tipicamente ecclesiali (la Chiesa come comunità dei credenti in Gesù Cristo) a quelle tipicamente profane (la Chiesa come istituzione politica, sociale, economica; come organizzazione assistenziale, culturale, ricreativa).
È molto frequente la confusione che si fa anche da credenti, tra Chiesa, Santa Sede, Vaticano, ecc. Tutto ciò rafforza anche il distacco tra vertice e base; vi è la tendenza a identificare la Chiesa nel vertice gerarchico che gestisce il potere (da quello religioso a quello politico) e a escluderne i «comuni» fedeli.
La presa di coscienza dei rischi connessi con l'istituzionalizzazione dell'organizzazione è stata lenta e progressiva; il Concilio ne ha costituito una tappa importante ma necessariamente provvisoria. Contro i pericoli dell'istituzionalizzazione all'interno si è venuta sottolineando la necessità di ridistribuire le corresponsabilità dell'intero corpo ecclesiale, però in armonia con le esigenze della sua costituzione gerarchica voluta da Cristo. Di qui notevoli tensioni, dovute alla difficoltà di raggiungere un soddisfacente equilibrio tra la democratizzazione della struttura (il principio della collegialità) e l'esercizio dell'autorità gerarchica.
Il riflesso sui giovani
Anche i giovani riflettono queste tensioni:
- Le ambiguità connesse con l'eccessiva istituzionalizzazione interna ed esterna della Chiesa mettono in crisi il sentimento di appartenenza di molti giovani; alcuni assumono le ambiguità come un alibi per giustificare la progressiva separazione dalla Chiesa stessa.
- Vivissima è in molti la richiesta di democratizzazione della struttura interna della Chiesa (e spesso di partecipazione anche a livello decisionale), ma talora non viene avvertita la delicatezza della proposta, in quanto si sottovalutano le componenti teologiche del problema. La denuncia del verticismo clericale si inquadra in un più vasto disegno di rifiuto dell'autoritarismo in tutti i settori di esperienza collettiva, in quanto tende a considerare l'istituzione ecclesiale come parte integrante di un sistema sociale fondato sulla repressione.
- Diffusa tra i giovani è la convinzione (o il pregiudizio) che la Chiesa, appunto perché istituzione, si è largamente compromessa con i detentori del potere politico, economico e culturale, fino al punto di averne le mani legate al momento di annunciare il messaggio di salvezza. Di qui un vasto consenso per una Chiesa de-istituzionalizzata, a fondamento carismatico, libera da impacci mondani; consenso appena incrinato dalla confusa intuizione che la de-istituzionalizzazione possa portare alla lenta emarginazione della Chiesa dai problemi del mondo, chiudendola in un ghetto di iniziati. D'altra parte non vi sono progetti alternativi proposti da questi giovani per un recupero della Chiesa-istituzione; come in altri settori della contestazione la denuncia di un eccesso non è seguita da elaborazione di soluzioni di ricambio. È l'atteggiamento tipico di una gioventù che anticipa e preannuncia un momento «magico» di «fluidità istituzionale», ove il nuovo assetto sociale è allo «stato nascente» e ove ogni esperienza è da plasmare su un modello «proteiforme».
- I nuovi modi di presenza della Chiesa nel mondo sono talora immaginati da altri giovani in maniera articolata e spesso contraddittoria. «No» alla chiesa impegnata nella lotta tra i partiti, «sì» all'impegno politico inteso in senso pieno; «no» ad una «dottrina sociale» della Chiesa, «sì» ad una collaborazione della Chiesa agli sforzi delle organizzazioni politiche sociali ed educative per la liberazione dell'uomo; «no» ad una chiesa disimpegnata sul piano sociale, «sì» alla scelta di classe, ecc. Si tratta di proposte che registrano una notevole e variabile gamma di definizioni di Chiesa-istituzione e allo stesso tempo oscillano tra una concezione meramente sociologica dell'istituzione ed una più piena che implica anche la sua struttura soprannaturale; la difficoltà maggiore infatti consiste nel precisare il compito della Chiesa come comunità che reca al mondo un messaggio che non è solo una proposta di salvezza umana.
In conclusione: molte delle tensioni che attraversano la Chiesa oggi derivano dall'accentuarsi dei processi di istituzionalizzazione del culto, delle credenze e dell'organizzazione ecclesiale, ma anche dalla difficoltà di trovare nuove forme di istituzionalizzazione flessibili, capaci di garantire alla Chiesa un rapporto con la storia che non ne comprometta l'autenticità religiosa. In radice però le tensioni sembrano legate ad una non ancora maturata comprensione della imprescindibilità della dimensione istituzionale. A parte le motivazioni teologiche, da un punto di vista psico-sociologico si può dire che il rifiuto della istituzione sembra ignorare che tale è il destino di ogni esperienza collettiva che voglia dialogare con il mondo e la sua storia. Il problema allora diventa solo questione d gradi e di modalità.
TENSIONI PROVENIENTI DAL PROCESSO DI SECOLARIZZAZIONE
Il processo di secolarizzazione è piuttosto complesso; ne analizzerò solo alcuni aspetti che interessano maggiormente, rimandando per altre questioni alla bibliografia riportata più sopra.
Secolarizzazione ed emarginazione come crisi della istituzione ecclesiale
In seguito alle trasformazioni strutturali e culturali connesse con il progresso scientifico e tecnologico si è venuta instaurando una situazione di pluralismo sociale entro cui non è più ammissibile la pretesa della Chiesa di giocare il ruolo di istituzione-cardine in grado di offrire un quadro di valori totalizzanti (cioè capaci di organizzare in modo unitario tutte le esperienze di vita). Ancor più radicalmente l'istituzione ecclesiale viene lentamente emarginata, in quanto prevalgono nella società industriale le istituzioni che rispondono di più alla logica della razionalizzazione scientifico-tecnologica; in altre parole il sistema di significati-per-la-vita che contraddistingue l'istituzione ecclesiale perde progressivamente di rilevanza sociale, esce dal quadro dei modelli collettivi di condotta, è ridotto a esperienza del «primario» cioè a esperienza racchiusa nell'ambito della coscienza individuale o del piccolo gruppo. È così compiuta la «privatizzazione» delle condotte religiose, che risponde in pieno alla logica di una società borghese liberale e illuminista, tesa a eliminare la dimensione religiosa dalla sfera delle attività pubbliche e a confinarla tra gli interessi a di coscienza» dell'individuo.
La pressione esercitata dalla dinamica sociale sullo «status» della istituzione ecclesiale suscita all'interno di questa una serie di notevoli reazioni. A livello di vertice gerarchico l'emarginazione non è accettata passivamente, è giudicata in modo negativo come un fattore che toglie alla Chiesa la possibilità di arrivare a «salvare» tutte le anime, è intesa come una ingiusta punizione per la Chiesa. Si corre così ai ripari, affidando a strumenti giuridici (concordati, patti, accordi) la tutela della rilevanza sociale dell'istituzione; ma ciò pone in evidenza il carattere «retorico» della religione-di-chiesa, emarginata di fatto, ma ancora importante di diritto. Ciò inoltre avalla il sospetto che la istituzione voglia con questi strumenti giuridici continuare un'azione di potere che male si concilia con la missione e il carattere spirituale della Chiesa.
Ad altri livelli di esperienza ecclesiale, l'emarginazione prodotta dal pluralismo è giudicata in modo positivo; la situazione di minoranza e di diaspora è valutata come una condizione di desiderabile selezione dei credenti e come base per una più consapevole appartenenza. La privatizzazione viene accettata come conseguenza necessaria e auspicabile del processo di de-istituzionalizzazione e anche come premessa ottimale per la riscoperta di una religiosità comunitaria, a struttura micro-sociale, su base locale.
Le diverse maniere di valutare questo aspetto della secolarizzazione dà origine a tensioni notevoli nella Chiesa; emerge anche in questo problema un sostanziale disaccordo sulla funzione della istituzione, intesa o come strumento necessario o come ostacolo ad un'esperienza religiosa dei credenti.
Il riflesso sui giovani
I giovani riflettono in modo diverso queste tensioni:
- Avvertono in misura notevole le difficoltà di appartenenza emergenti dalla nuova situazione di emarginazione e de-istituzionalizzazione della Chiesa: l'appartenenza non è più un atteggiamento appreso per tradizione ma una scelta che va maturata in un clima di minore costrizione sociale. Ma l'appartenenza è resa difficile (oltre che da carenze pedagogiche e pastorali ben precise) dalla incapacità, sperimentata da molti giovani, a cogliere un'immagine coerente della istituzione ecclesiale, sottoposta alla crisi della secolarizzazione.
- La «privatizzazione» trova una vasta eco favorevole in un'aliquota notevole di giovani, già predisposti anche per motivi psicologici-evolutivi a contrapporre la propria personale ricerca ed esperienza religiosa alla religiosità ufficiale controllata dalla istituzione. Risulta però che l'esigenza «personalistica» viene fortemente ridimensionata dal bisogno di fare una esperienza di gruppo. In ultima analisi la tensione tra religiosità «personale» e religiosità «ecclesiale» è un punto centrale della problematica giovanile odierna.
- In connessione con la decadenza istituzionale della religione-di-chiesa nasce il bisogno di una nuova esperienza religiosa gruppale: la comunità giovanile ne è forse l'esempio più evidente. Ma l'esperienza nuova è attraversata dalle stesse ambiguità che si registrano a proposito della religiosità di chiesa ufficiale: motivazioni spurie, sia psicologiche sia sociologiche, condizionano la vita del gruppo. Bisogni di inclusione e di accettazione, frustrazioni familiari e scolastiche, solitudine e alienazione spesso spingono i giovani alla ricerca del gruppo religioso. Non è infrequente il ripiegamento del gruppo su se stesso, che prelude alla chiusura preconcetta e al rifiuto delle problematiche sociali più vaste; la polemicanti-istituzionale inoltre sembra impedire il superamento di una visione troppo particolarista dell'esperienza religiosa stessa e della comunità locale.
- Comune a molti gruppi giovanili di ispirazione religiosa è l'accettazione di un cristianesimo in situazione di minoranza e di diaspora, accompagnata dal rifiuto di ogni tentativo di prolungare artificialmente la posizione di preminenza o di privilegio che l'istituzione occupava entro la società pre-tecnica, tradizionalmente religiosa.
La coscienza «minoritaria» sembra influire direttamente sulla concezione ecclesiale e sul tipo di azione cristiana svolta da questi gruppi; essa ispira infatti un impegno di animazione e di testimonianza che è ben lontano da ogni tentazione trionfalista.
Secolarizzazione come de-sacralizzazione
Un aspetto evidente del fenomeno della secolarizzazione è la progressiva scomparsa delle forme sacrali (cioè magico-superstiziose, utilitariste, devozionali, provvidenzialiste) di esperienza religiosa. Tali forme, forse sufficienti in altri contesti sociali, non sembrano più adatte ad esprimere adeguatamente la religiosità dell'uomo maturato attraverso l'esperienza della società tecnologico-industriale.
Il processo di de-sacralizzazione è seguito con apprensione da molti strati della istituzione ecclesiale; non tanto per le preoccupanti emorragie li pratica religiosa, quanto per il timore che la de-sacralizzazione comporti una più sostanziale perdita delle capacità radicali di fare un'esperienza religiosa. In tale caso la de-sacralizzazione si tramuterebbe in dissacrazione totale. Non pochi pensano appunto che la caduta della religiosità sacrale si risolva in una eclissi (provvisoria o definitiva) della tessa esperienza religiosa, soprattutto per quelle aliquote di praticanti incapaci di recuperare altri tipi di religiosità. Di qui un cauto atteggiamento di conservazione delle forme tradizionali della vita religiosa.
Altri invece ritengono quasi automatico il passaggio da una religiosità sacrale ad un nuovo tipo di esperienza religiosa purificata; cosicché il processo di de-sacralizzazione non sarebbe da considerarsi negativo, ma auspicabile e conseguentemente lo si dovrebbe incrementare e accelerare.
Di qui un atteggiamento di aperto ottimismo anche di fronte alla macroscopica caduta della pratica religiosa di massa e di ampia disponibilità; per tentativi di nuove forme di esperienza religiosa.
Il riflesso sui giovani
Il processo di de-sacralizzazione e le tensioni che derivano dalla contrapposizione netta delle due diverse valutazioni del fenomeno (e dei correlativi modi di «gestire» il processo) sono evidenti anche tra i giovani:
- È abbastanza generalizzato, tra di loro, il rifiuto delle religiosità sacrali almeno a livello di presa di posizione cosciente, mentre è ancora documentabile in alcuni strati di popolazione giovanile (ragazze, contadini, operai) la sopravvivenza di fatto di tronconi di religiosità sacrale, giustapposti a nuovi modelli secolarizzati.
La de-sacralizzazione non è ancora un fatto compiuto (specie tra gli adolescenti più immaturi) e la strada per la scoperta di una nuova religiosità è ancor lunga.
Inoltre si nota che la scomparsa della religiosità sacrale rappresenta per la maggioranza dei giovani la definitiva caduta di ogni pratica religiosa (anche se non necessariamente di ogni interesse religioso); pochi sono quelli effettivamente impegnati nell'elaborazione di una nuova religiosità secolarizzata.
- Il rifiuto della religiosità sacrale apre ai giovani più impegnati una vasta possibilità di sperimentazione delle nuove forme di religiosità. Vi è specialmente nel campo della vita liturgica un rifiorire di tentativi non superficiali di riconquista dei significati essenziali di innovazione del linguaggio, di aggancio con l'esperienza quotidiana. Questi tentativi si svolgono generalmente in un clima di semi-clandestinità e di sospetto, che denunciano apertamente le tensioni che a tal riguardo sussistono nella comunità ecclesiale, ma che derivano anche dallo status di «emarginazione» o «autoemarginazione» di questi gruppi riguardo al corpo globale della chiesa.
- Va notata particolarmente la distanza che esiste e si allarga sempre più tra il gradualismo prudente delle riforme liturgiche (che rispecchiano l'atteggiamento della Chiesa gerarchica rispetto alla de-sacralizzazione) e il radicalismo innovatore dei gruppi giovanili più avanzati. Questa distanza, pari a quella che separa in direzione opposta i propositi di riforma liturgica dalle superstiti esperienze sacrali, dà la misura delle tensioni esistenti in questo settore all'interno della comunità ecclesiale.
Secolarizzazione come emergenza di un umanesimo profano
La progressiva emarginazione dell'istituzione ecclesiale (e del quadro di valori da lei gestito) dalla dinamica sociale, sembra favorire la formazione di uno o più «sistemi di significato» (filosofie di vita, visioni del mondo, ideologie...) sganciati da motivazioni religiose (e spesso in conflitto con esse). L'autonomia del profano viene affermandosi in modo diffuso e profondo, causando una serie di tensioni notevoli nell'ambito della istituzione ecclesiale. Essa infatti non può rimanere inerte o neutrale di fronte al fatto nuovo; è ben vero che molti dei valori di questi nuovi umanesimi profani coincidono con alcuni dei tratti essenziali del messaggio cristiano, ma è altrettanto evidente che queste filosofie di vita si pongono di fatto come alternative ad esso. A ciò si aggiunga il carattere «mitico» o «quasi religioso» che taluni valori o pseudo-valori del nuovo umanesimo profano vanno assumendo, sostituendosi così alla funzione totalizzante del messaggio cristiano.
Di qui la necessità di un confronto, da cui risulti la collocazione esatta (e nuova) della istituzione e dei suoi valori di fronte all'umanesimo secolarizzato della civiltà tecnologico-industriale e alle sue involuzioni mitologiche.
Le risposte a questo interrogativo sono all'interno della comunità ecclesiale assai diverse.
Per alcuni il sorgere di questi umanesimi è fonte di perplessità; non si vede come si possa in qualche modo «esorcizzare» questi tentativi di autonomia del profano e si ripiega così su un confronto diretto in cui il messaggio cristiano diventa criterio di rifiuto globale. Il «mondo» appare irrimediabilmente compromesso dalle sue scelte e perciò degno di condanna; solo la Parola riesce a salvare e a riscattare una situazione intrinsecamente compromessa.
Per altri invece occorre tentare la strada del dialogo; tra l'umanesimo profano e il messaggio cristiano vi sono più punti di contatto o di continuità che fondano un confronto ricco di sviluppi sul piano teorico e pratico; ma, in definitiva il messaggio cristiano si diversifica sostanzialmente da tutti gli umanesimi profani, li supera radicalmente mediante una proposta di salvezza che mira alla dimensione spirituale dell'uomo; gli umanesimi profani sono filosofie di vita essenzialmente monche e imperfette. Per altri ancora va riconosciuta al profano la propria autonomia integrale; nella misura in cui è attento criticamente ai pericoli di involuzione e di corruzione cui va incontro, l'umanesimo secolare rappresenta un punto di arrivo valido e significativo che non può non essere assunto in pieno dal Cristianesimo. I valori di tale umanesimo possono ottenere il consenso e stimolare l'impegno dei credenti; per costoro infatti il messaggio cristiano fornisce il significato ultimo e definitivo dell'impegno mondano, senza sovrapposizioni né compromessi.
Il riflesso sui giovani
Quanto ai giovani, l'emergere di un umanesimo profano è portatore di notevoli tensioni:
- Per molti la civiltà tecnologico-industriale è capace di produrre solo dei benefici sul piano del progresso materiale (quando proprio non lo è sul piano ludico o edonistico); a questo si riduce per loro il contenuto della filosofia di vita secolarizzata. Il confronto con il messaggio cristiano si risolve in un progressivo svuotamento della religiosità tradizionale per lasciar posto ad un irrazionale godimento dei nuovi valori-mito della società consumistica.
- Altri, tra i molti valori del nuovo umanesimo, massimizzano gli ideali di libertà, di giustizia, di fratellanza (spesso unificati nel riscoperto valore della politica); ne mettono in evidenza la latente conflittualità con il tipo tradizionale di socializzazione religiosa della loro infanzia (volutamente apolitica, ma proprio per questo compromessa spesso con le centrali del potere e della conservazione) e non ne sanno risolvere il conflitto se non scegliendo la politica e abbandonando l'interesse religioso.
- Altri ancora risolvono il conflitto religione-politica mediante una scelta di compromesso; si impegnano politicamente per creare le condizioni di una nuova società entro cui il discorso religioso possa rinnovarsi profondamente, in dialogo con i valori di un umanesimo perenne.
- Una piccola aliquota è tesa alla scoperta del significato del cristianesimo, onde metterlo alla base dell'impegno politico; il messaggio cristiano diventa così motivazione e criterio ultimo di valutazione dell'azione sociale proprio perché contiene un progetto di uomo che è al di là delle vicissitudini della storia. Le teologie della politica, della rivoluzione, delle realtà terrestri documentano questo tentativo di dialogo con gli umanesimi della civiltà industriale.
Tutto ciò avviene tra notevoli tensioni; il pluralismo delle soluzioni, la carenza di verifica dei vari progetti, la diffidenza della gerarchia creano incertezze e conflitti. La coscienza dei cristiani chiamati a leggere la storia è spesso messa a dura prova dagli interventi dei «custodi della fede», preoccupati (giustamente, dal proprio punto di vista) di salvare l'ortodossia. Ancora una volta il compito di dialogo tra la Chiesa e il mondo diventa problematico.
CONCLUSIONE
Le tensioni analizzate sono fondamentalmente riducibili ai dilemmi strutturali che necessariamente attraversano l'esperienza-di-chiesa.
Se si accetta la doppia struttura della Chiesa come comunità di fede e di grazia, ma anche come gruppo umano calato nella storia e confrontato con essa, si devono correre rischi come quelli della istituzionalizzazione e della secolarizzazione.
Il progetto di una Chiesa carismatica fa parte dell'Utopia e come tale stimola giustamente la fantasia dei giovani di ogni tempo. Non per questo si riduce a fantasia.
L'Utopia è proiezione di soluzioni ottimali a problematiche difficili e complesse, che confrontata con la realtà ha il potere di far superare i momenti di impasse, le involuzioni conservatrici, le risposte rinunciatarie.
L'Utopia ecclesiale ridimensionata dall'impatto con la realtà apre il discorso sui nuovi equilibri tra carisma e istituzione e rende sempre attuale l'esperienza della riforma interiore della comunità dei credenti.
[1] Per approfondimenti e documentazioni, consiglio di riferirsi alla seguente bibliografia: ACQUAVIVA S.S., L'eclissi del sacro nella civiltà industriale, Milano, Comunità, 1971 - ACQUAVIVA S.S. e G. GUIZZARDI, Religione e irreligione nell'età postindustriale, Roma, Ave, 1971 - ACQUAVIVA, MILANESI, GRUMELLI, MIANO, DE ROSA, La secolarizzazione in Italia, oggi, Roma, Città nuova editrice, 1971 - O'DEA T., Sociologia della Religione, Bologna, Il Mulino, 1968 - GILKEY L., Il destino della religione nell'era tecnologica, Roma, Armando, 1972 - LUCKMAN T., La religione invisibile, Bologna, Il Mulino, 1969 - MILANESI G.C., Sociologia religiosa, Torino, LDC, 1970.