Claudio Bucciarelli
(NPG 1972-08/09-59)
È ormai luogo comune ascoltare riflessioni di questo genere, quasi sempre animate da buone intenzioni: «I giovani sono l'aria fresca e nuova nella Chiesa, vanno quindi ascoltati...; bisogna fare posto ai giovani nella Chiesa; bisogna lasciar loro la parola perché il loro apporto creativo è una delle strade più sicure per intravedere i segni dei tempi...».
Riflessioni di questo genere, il più delle volte, mi fanno pensare all'auto familiare, dove, gli adulti della famiglia, prendono comodamente il loro posto, quando all'ultimo momento arriva il padre che esclama: «su.... stringetevi ancora un po' e fate posto al fratellino...».
È evidente che non è con questo spirito che si può impostare una riflessione riguardante l'apporto che i giovani possono dare con la loro originalità e creatività alla «ri-espressione» del linguaggio della fede. La parola non si dà, ma bisogna mettere ciascuno nella condizione di «prenderla» quando vuole, quando può e come vuole. E mancherà sempre qualcosa ai significati evangelici, di cui la Chiesa vive, se i giovani non sono messi, realmente, nella condizione di apportare, in modo creativo, la parte insostituibile che è loro propria.
Con questi miei appunti mi riprometto soltanto di sollecitare il problema e di porre, in modo sintetico, quelle premesse dalle quali a me sembra opportuno partire per impostare una riflessione del genere.
DALL'ASSIMILAZIONE ALLA CREATIVITÀ
La prima domanda che, a mio parere, bisognerebbe porsi, mi sembra questa: «c'è un posto dei giovani o, addirittura, una loro insostituibile partecipazione nell'elaborazione di un linguaggio della fede?».
Occorre prestare molta attenzione a ciò che implica la sostanza di questo interrogativo, senza cedere istintivamente ad un consenso giovanilista oppure paternalista. Penso che ogni educatore, tradendo forse inconsciamente una concezione autoritaria dell'educazione, si sia posto, all'incirca, un'altra domanda: «come posso far penetrare le convinzioni cristiane di cui sono testimone nei giovani?». È evidente che se la domanda è posta in questa forma, essa elimina in partenza dalla risposta una buona parte di quella realtà, necessaria ad una maturazione autentica, che potremmo chiamare la creatività dei giovani.
Creatività e libertà
Il giovane nel quale si cerca di «trasmettere» o di «far passare» una convinzione, un insegnamento, vede praticamente diminuita la sua libertà; può sì rispondere negativamente ed è questo senz'altro un modo di esercitare-la sua libertà, ma può anche rispondere positivamente ed in questo caso l'esercizio della sua libertà è assai identificabile con la recettività, che, a volte, è chiaramente «passiva»; quando invece si tratta di una recettività «attiva», possiamo parlare di assimilazione, ma... siamo ancora lontani dalla creatività.
In un caso del genere la creatività è un fatto assai debole. Forse è per questa ragione che oggi nella maggior parte dei giovani, di fronte all'insegnamento religioso, la forma d'esercizio della libertà che s'incontra più frequentemente è la passività voluta o il rifiuto. Là dove ci sono giovani - e non sono pochi - con un vivo interesse religioso troviamo una certa libertà, ma forse non ancora una vera creatività.
È capitato un po' a tutti di trovarsi di fronte a casi in cui una classe scolastica o un gruppo giovanile si è praticamente opposto ad un'educazione o ad un insegnamento religioso imposto dall'alto. L'educatore, allora, prete o laico che fosse, sia per risparmiare a se stesso un vero calvario, sia per la preoccupazione di rispettare la libertà dei singoli, arrivava a solidarizzare con i giovani ed otteneva che essi volontariamente si riunissero in gruppo attorno al fatto religioso. Ecco allora sorgere una specie di gruppo spontaneo, ristretto, che si polarizzava attorno all'educatore per approfondire problemi umani in chiave religiosa. Ma che cosa è successo il più delle volte? Durante varie settimane questi giovani hanno sì esercitato la loro libertà, ma soltanto sotto forma di rivendicazione e in questo senso non si può certo dire di aver risolto il buon funzionamento del gruppo. La libera espressione rivendicata non bastava per salvare il gruppo da un ristagno e l'educatore in questione non era dopo più interessante di prima. In realtà ciò che i giovani avevano creduto conquista della libertà che doveva risolvere tutto, era solo conquista delle condizioni della libertà, meglio ancora di una condizione. E la libertà che si
era esercitata prima sotto la sola forma di protesta, di rifiuto, di rivendicazione, per farsi vero «momento» di autentica maturazione, doveva convertirsi in creatività.
È questo un passaggio difficile ad operarsi, ma necessario per educare uomini e cristiani «coscienti».
Ho ritenuto opportuno fare quest'osservazione per sottolineare che vi è una certa consistente sfumatura tra i vocaboli: libertà, volontarietà, creatività. E mi pare opportuno rilevare che oggi sul piano dell'educazione della fede nei giovani, si fa luce un certo tipo d'esercizio della libertà, una certa volontarietà ma si è ancora lontani dall'accoglienza della creatività.
Creatività ed educazione
La creatività è riconosciuta dall'antropologia pedagogica come uno dei valori più alti [1] nel vivere sociale, ma non si può certo dire con altrettanta sicurezza che sia sempre stata riconosciuta, promossa. Un'attenta analisi storica ci permetterebbe anzi di verificare che le risorse creative dell'uomo vengono spesso represse e tale repressione aumenta quanto più si complica la dialettica della vita di relazione: dialettica che rende sempre più arduo, non solo ai giovani, ma anche all'uomo adulto di oggi, di prendere la propria iniziativa e affermare la propria personalità. E tale difficoltà non è solamente riscontrabile nella società civile, ma anche in quelle istituzioni (movimenti, gruppi, associazioni...) che hanno finalità d'educazione religiosa, le cui cristallizzate strutture s'identificano facilmente con un canale conduttore capace solo di produrre mistificazione umana e alienazione religiosa, mentre è risaputo che il concetto di creatività presuppone sempre quello di libertà con i coefficienti indispensabili dell'espressione-intuizione da parte dell'individuo, dell'originalità, della coscienza, dell'interiorità, della presenza, della partecipazione.
E quando si parla di creatività non intendiamo alludere ad un «mostro originale d'uomo», perché, come afferma il Calvi, «il creativo non è un essere ai confini della norma e la creatività è fisiologica nell'essere umano, essa è una caratteristica appartenente alla specie e non l'appannaggio di pochi privilegiati» [2]. A questo riguardo è comunque opportuno affermare che l'atto creativo non si dà per caso. Conoscenza ed educazione sono il terreno fecondo per la cultura e la maturazione della creatività In questa prospettiva molta letteratura concernente la creatività [3], sia quella che si colloca nell'ambito della psicologia e sia quella che si pone nell'ambito della filosofia dell'educazione, propone temi che sono assai illuminanti in ordine alla dimensione pedagogica. Sono temi fondamentali che riguardano il rapporto tra persona e società, fra dato tradizionale e progresso, fra valore d'attualità storica e valore perenne, fra scienza e religione, fra cultura e fede.
Sotto questo profilo - dice giustamente M. Mencarelli - crediamo che la creatività abbia avuto soprattutto un merito: «quello di dimostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, che l'educazione è un fatto personale e che non può pertanto compiersi o svolgersi a dispetto della persona, cioè contro le legittimazioni effettive che le possono dar credito e successo, per non dire agile e confortante funzionalità. E se questo discorso vale per chi educa, vale anche per chi si educa, che non può trovare nella creatività il pretesto per evadere dalla propria responsabilità e per strumentalizzare gli altri con le proprie presunzioni o le proprie bizzarrie. In altri termini, la creatività merita questo nome quando la persona che la vive sa legittimarla nella coerente consequenzialità del proprio comportamento o nella singolarità dell'atto creativo. Si vuol dire che la legittimazione è punto di riferimento imprescindibile sia per chi educa che per chi si educa. Per altra via è solo il pretesto per accreditare un'attività istintiva, che, prima ancora d'essere anacronistica, è contro la persona» [4].
Queste assennate parole ci fanno comprendere come il fatto della creatività possa venire distorto o tradito nel momento stesso in cui associamo la creatività allo spontaneismo invece che alla spontaneità, al semplicismo invece che alla semplicità, all'istintivismo invece che alla riflessione dialogante o, addirittura, a forme nuove di dogmatismo: e ciò deve essere riferito sia all'atteggiamento della persona davanti a se stessa, sia all'atteggiamento che essa assume dinanzi ad altri.
La contestazione giovanile, sia sul piano sociale come su quello ecclesiale, in quasi tutto il mondo, ha trovato nella creatività una sua vera e propria qualificazione e punto di forza, in quanto si è colto in essa una delle esigenze più richieste dalla creatività: l'umanesimo dell'autenticità. Ma tutto ciò si è, in qua e in là, vanificato, perché, fra le tante cause, vi è stata purtroppo anche questa: l'incontro fra creatività e società si è risolto, il più delle volte, in una fase negativa, cioè nella fase di protesta e basta. La creatività, per quanto se ne può dire sulla base delle ricerche compiute, è un concetto principalmente positivo, cioè una proposta che si presenta, sia sul piano sociale, sul piano filosofico e sul piano religioso, con le credenziali di un confronto tollerante e pacificamente rivoluzionario, capace di autenticità e progresso. Per non cadere, allora, in un insignificante prurito del rischio o in nuovi e superficiali efficientismi, occorre che l'educatore abbia un chiaro ancoraggio ad un'effettiva educazione «personalistica».
Se innestiamo queste considerazioni alla componente dell'educazione della fede, una pastorale giovanile autentica, a mio parere, deve sempre rivolgersi, all'inizio di una programmazione, una domanda come questa: «in che modo deve innestarsi il messaggio evangelico nella vita dei giovani?». Se non si pone una domanda del genere per far scendere da essa la sua azione, non è una pastorale della creatività, ma, al limite, la possiamo definire una pastorale dell'assimilazione, perché essa sollecita ed autorizza soltanto un piccolo frammento della libertà dei giovani. E sono sempre più convinto che questa è la ragione per cui nella maggior parte dei casi il «fatto religioso» è praticamente rifiutato da molti giovani sul piano della coscienza, indipendentemente dalle qualità dell'educatore e dalla validità del suo insegnamento.
LINGUAGGIO DELLA FEDE E IL CONTESTO VITALE
All'inizio mi ero chiesto quale poteva essere la partecipazione insostituibile della gioventù all'elaborazione di un linguaggio della fede, ma, a monte, mi sembra corretto porre un'altra domanda: «possiamo parlare di creatività quando si tratta del linguaggio della fede?».
E la domanda va posta perché c'è chi afferma: «il linguaggio della fede non si elabora, si riceve; non s'inventa, ci si sottomette; non si crea, ci precede; non è un fatto di libertà, ma d'obbedienza».
L'obiezione è più che legittima e solleva una questione non facile che certamente non si può approfondire ora e in questa sede; non vorrei tuttavia che questa difficoltà condizionasse troppo pesantemente la riflessione in atto, quindi preferisco abbozzare, sia pure sommariamente, un tentativo di risposta alla questione: il vangelo è una realtà che si riceve e a cui ci si sottomette o è qualche cosa che s'inventa e di cui dobbiamo elaborare l'espressione?
Dalla risposta a questa domanda scaturisce un certo tipo di pedagogia oppure un altro. E dato che la pedagogia è una relazione comunicante che parla per se stessa, rispondere a questa domanda in un modo piuttosto che in un altro significa avere una visione di Dio e del suo rapporto con la realtà umana differente, a seconda della nostra scelta. Ed è per questo che anche se il nostro obiettivo è più pedagogico, non possiamo semplicemente sfiorare tale obiezione in nome della pedagogia, ma essa va affrontata anche sul piano teologico, da cui la nostra pedagogia prende ispirazione.
Il linguaggio della fede: verso un impegno di vita
Oggi la domanda più pressante che si pongono gli studiosi circa il problema del «linguaggio» in genere e del «linguaggio religioso» in specie, è questa: quando è che una parola o una formula sono realtà significative? Qual è il criterio per cui possiamo dire che una parola o una formula sono significanti? Si risponde: la frase è significante quando trasmette un messaggio. Occorre quindi determinare il criterio per cui si riconosce se una formula trasmette un messaggio oppure no. E molti studiosi affermano che questo criterio è il «contesto vitale» [5].
Porto un esempio forse un po' usato, ma sempre illuminante: un ragazzo dice ad una ragazza «io ti amo» e tale affermazione può anche essere falsa (può darsi infatti che lui non l'ami), ma significante. Perché è significante? Perché con questa formula colui che parla si richiama ad un contesto di amore, ad un momento in cui ha amato. Se quest'uomo non avesse mai amato questa formula non significherebbe nulla.
Tuttavia, siccome prima della parola viene la vita, c'è sempre la possibilità - dice C. Molari - che nell'uso delle parole si trasmetta un messaggio inconsapevolmente, cioè che la parola parli indipendentemente dall'uomo, per il fatto che è sorta da un'esperienza di vita, da un contesto vitale. Prima è l'umanità, la sua storia, la vita e poi la parola. In questo senso la vita rende possibile il significato delle parole anche per coloro che non lo colgono...; la teologia della parola supponeva che noi dovessimo ascoltare la parola per capire la vita, ma se è vero quello che si è affermato sopra, noi dobbiamo ascoltare la vita per capire la parola. Che cosa ne deriva? Che il criterio di lettura della Scrittura, del Magistero, dei Concili per la teologia non e un criterio assoluto, ma vitale e quindi storico. Però qui resta ancora il problema di fondo - continua Molari - e di capitale importanza: se la vita è senza senso ed è assurda, tutte le parole che ne vengono sono senza senso e quindi hanno significati apparenti. Qui non si tratta tanto del rapporto con la verità o meno, ma si tratta del rapporto alla significatività delle parole; cioè se la vita è assurda, le nostre parole sono senza significato. Se Dio non esiste, in altri termini, il nostro parlare è un silenzio, cioè se non c'è al fondo dell'esistenza «la Vita», se non c'è al fondo di ogni nostro atto d'amore «l'Amore», se non c'è al fondo di ogni nostra tensione verso il bene «il Bene», ogni nostra formula è senza significato. Non parlo di falsità, la mia affermazione è più radicale, ogni nostra affermazione è senza significato, cioè non dice nulla, perché ogni nostra parola parla della vita; se la vita è assurda ogni nostra parola parla dell'assurdo, cioè è senza significato. Si vede, allora, come il problema del linguaggio ci riporta al problema della vita, cioè al problema fondamentale che è quello del senso dell'esistenza; il senso delle parole è un problema che riflette l'altro problema di fondo che è il senso della vita, per questo il criterio-base è precisamente l'esperienza vitale o il contesto vitale delle formule che usiamo» [6].
Da queste affermazioni è facile capire allora che il linguaggio della fede non è mai esclusivamente speculativo, ma è un linguaggio che per sua natura parte da un impegno di vita e riflette un impegno di vita. La vita non può essere compresa, né espressa, né parlata se non nella misura in cui viene vissuta e la vita non può essere vissuta se non c'è un atto d'impegno. L'uomo nasce per vivere, non per prepararsi alla vita e impara a vivere, vivendo. La vita è tale che non si può viverla se non vogliamo; se non la scegliamo attivamente la vita ci sfugge. Per questo ogni discorso che si riferisce alla vita nella sua globalità è anche un discorso d'impegno, e implica l'impegno; la culla semantica delle formule religiose (per «formula» non s'intende soprattutto un'espressione verbale, ma atteggiamenti, comportamenti, scelte, opzioni...) è una situazione vitale; cioè il contesto religioso vero è sempre un contesto vitale, di scelte. In altre parole, una formula religiosa al di fuori di un contesto, di un impegno vitale, è insignificante. A questo proposito tornano in mente le parole del Bonhoeffer: «Gesù non chiama gli uomini a una nuova religione, ma alla vita».
LA FEDE RICERCA SEMPRE UN NUOVO SILLABARIO
Dicevamo sopra: il vangelo è qualche cosa che si riceve e a cui ci si sottomette, o è qualcosa che s'inventa e di cui si elabora l'espressione? In termini pastorali ciò significa chiaramente che, a seconda delle nostre conclusioni, bisognerà optare per una pedagogia dell'assimilazione o per una pedagogia della creatività. Una volta posti i termini dell'opzione cosa si può rispondere?
Dio ci ha parlato, la sua Parola ci precede, essa è alla base del movimento che fonda tutta la comunione con Dio; è difficile essere cristiani se non si riconosce implicitamente tutto questo. E in questo senso la Parola di Dio non è certo un'invenzione dell'uomo.
Ma da tutto ciò sembra emergere per l'uomo una situazione svalutata, caratterizzata dalla sua passività. Dire esplicitamente che «la Parola di Dio non è dell'uomo», significa non riconoscere l'originalità fondamentale del Cristianesimo, religione nella quale è proclamato che «Dio si è fatto uomo».
Come si è elaborata questa Parola attraverso il tempo? Sia nell'Antico come nel Nuovo Testamento la Parola di Dio non ha mai preso forma senza che l'uomo le prestasse il tessuto della sua esistenza come mezzo d'espressione. «La Rivelazione non cade dal cielo per comunicare agli uomini dal di fuori e dall'alto misteri trascendenti. Dio parla all'uomo dall'interno del mondo e a partire dalle sue proprie esperienze umane» [7]. Per fare un esempio potremmo dire che lo sforzo dell'uomo per capire e assumere l'esperienza della paternità è anteriore alla rivelazione di Dio come Padre. Quando Dio ci rivela di essere Padre di ciascuno di noi, ci parla valendosi di ciò che l'umanità nel suo sforzo secolare ha elaborato come paternità umana. Del resto ciascuno di noi capisce il «Padre nostro» riferendosi ad una esperienza personale o ad una tradizione collettiva e la rivelazione della Paternità divina non può scindersi da un'altrettanto profonda esperienza umana. In un primo momento è sempre partendo dalle nostre esperienze umane che ci impadroniamo d'una Parola che vuol dirci qualche altra cosa. In un secondo tempo, che non annulla il primo, la Parola divina ci fa ri-considerare la paternità umana. «Dio è Padre, certamente, essa ci dice, ma in modo assai diverso di come lo sono i padri della terra».
In questa novità e contestazione, la Parola di Dio non cessa tuttavia di appoggiarsi su ciò che vuole sorpassare, trascendere. Ci accorgiamo così di una specie di doppio movimento: l'uomo, a partire dalla sua esistenza e dalle sue esperienze, si fa una certa idea di ciò che Dio vuole dirgli; e nello stesso tempo, a partire da ciò che Dio vuole dirgli, rilegge e corregge il suo primo progetto. L'insieme di questa presa di coscienza, vissuta collettivamente e attraverso la storia, costituisce la Rivelazione: l'uomo non ne è mai assente, il suo lavoro di delucidazione è parte integrante della Rivelazione, come ce lo mostrano l'opera di Mosè, degli evangelisti, di Paolo. Per questi interpreti - essi costituivano le figure emergenti di tutta una società interpretante - la Rivelazione giungeva all'uomo attraverso un'opera di elaborazione e d'invenzione originale. Si dirà che ciò era forse vero nei tempi della Rivelazione e che non è più vero ora che questa Rivelazione è chiusa. Da parte nostra, ora, non abbiamo altro da fare che ricevere e assimilare.
Anche se questa ultima affermazione ha la sua validità, tuttavia non è certo che la distinzione fra il tempo della Rivelazione e il tempo della Tradizione sia delimitato in modo così netto. Resta e resterà sempre uno spazio tra la Parola di Dio alla quale aderiamo e ciò che ne comprendiamo e che esprimiamo. Infatti questa Parola non cambia, ma noi cambiamo.
L'alfabeto di cui Dio si è servito - cioè la nostra esistenza di uomini - è un alfabeto mutevole, sempre suscettibile ad acquisire un senso più ampio e completo. Quando un uomo moderno, educato ad esempio in una famiglia italiana, che ha formato a sua volta lui stesso una famiglia, che ha un dialogo vivace e combattuto con i suoi figlioli, che ha riflettuto alla luce della scienza e della cultura del suo tempo sulla funzione paterna, quando quest'uomo dice a Dio «Padre nostro», il più coscientemente possibile, dice senza dubbio qualche cosa di completamente diverso da ciò che dicevano i contemporanei di Gesù. Quando S. Francesco leggeva le Beatitudini vi scopriva un certo messaggio sulla povertà; un uomo del nostro tempo, immerso nelle contraddizioni economiche della nostra epoca di benessere e di consumo, traduce in modo totalmente differente lo stesso messaggio. E non soltanto l'applicazione che ne fa è diversa, ma anche e soprattutto è diversa l'interpretazione che ne deduce.
La «cultura» dell'epoca in cui un uomo vive è, in rapporto alla fede, necessaria e inutile, proprio come in rapporto all'uomo. Ma per assumerne e intenderne in modo autentico l'inutilità bisogna aver portato il peso della sua necessità. In altri termini: non prende sul serio l'uomo chi non prende sul serio le sue espressioni culturali, verificandone fino in fondo la necessità storica e il contesto vitale. Nel far questo, potrà avvenire che ci muoiano sulla bocca, nella mente e nel cuore, una dopo l'altra, tutte le «parole» che la fede aveva preso in prestito da culture defunte. Sarà come un perdere la fede. E invece sarà riscoprire l'alterità della fede e un prepararle i termini di una nuova ri-espressione e comprensione, insomma un nuovo sillabario. Naturalmente, un sillabario che sarà e si saprà provvisorio.
Essere, quindi, fedeli alla Parola di Dio, non comporta soltanto verificare il suo impatto sul bersaglio mobile della vita, ma soprattutto assumerla in una reale re-interpretazione; la Parola eterna, infatti, non esiste che in espressioni culturali diverse e mutevoli.
LA POSSIBILITÀ DI UNO SPAZIO PER LA CREATIVITÀ
Tutto ciò che si è detto, mi sembra fondare la possibilità di trovare uno spazio possibile per la creatività dei credenti e non soltanto per un'assimilazione di un linguaggio determinato una volta per sempre. In altre parole: quando si tratterà di trovare una migliore «applicazione» del vangelo alla vita, si potrà, allora, parlare di una pedagogia dell'assimilazione e dell'applicazione; quando si tratterà di elaborare una nuova espressione della stessa fede, mentre si scoprono nuove categorie, nuovi spazi e nuove aree dell'esistenza umana, si potrà parlare, allora, di una pedagogia della creatività. Non bisogna assolutamente disprezzare il primo movimento, ma bisogna riconoscere che il secondo offre maggiori possibilità per l'autenticità di qualunque maturazione ed è soprattutto indispensabile perché, attraverso i secoli, il vangelo possa rivelare l'inesauribile ricchezza di cui è ricolmo fin dall'origine, ma che si rivela nel decorso degli anni in una storia che è quella della presa di coscienza che l'uomo fa di sé; storia nella quale il contesto vitale del nostro linguaggio religioso ha la parola o l'espressione-chiave nella vita storica di Cristo, il cui Spirito svela all'uomo una «novità» sempre nuova. La nostra cultura è il «dialetto» e la presenza vivificante del Cristo è la «lingua madre» con cui lo re-interpretiamo e lo ri-esprimiamo, ... e poco importa se rimarrà «dialetto», l'importanza è che sia continuamente re-interpretato e riespresso alla luce della «lingua madre».
Giovani e linguaggio della fede
A questo punto, allora, prende consistenza la domanda iniziale: «quale può essere la partecipazione insostituibile dei giovani nell'elaborazione di un linguaggio della fede?». Se è vero, com'è vero, che Dio ci parla anche attraverso la nostra esistenza e il modo con cui la pensiamo e impostiamo, è chiaro, allora, che i giovani possono, a pieno diritto, attraverso la loro ricerca, arricchire la fede cristiana, aprendole nuovi orizzonti e nuove possibilità di espressione che le appartengono. Se non si tratta soltanto di proiettare la luce del vangelo sui problemi dell'uomo, ma anche di riafferrare il vangelo partendo dall'esistenza umana e dalla coscienza che se ne ha, allora l'esistenza stessa della gioventù e il modo con cui essa si pensa, autorizza l'apertura di un nuovo «cantiere» per l'elaborazione di un linguaggio della fede. E questo cantiere le appartiene. Possiamo rischiare di concretizzare una specie di definizione culturale dell'evangelizzazione?
Ecco, innanzitutto, per rispondere correttamente all'interrogativo, eviterei un'enunciazione abbastanza corrente: annunciare il vangelo vuol dire comunicare una convinzione, far sì che un giovane sappia che il Cristo opera nella sua vita... ecc...; preferirei invece pensare in questo modo un certo tipo di definizione culturale dell'evangelizzazione: il riaggancio molteplice e continuo al vangelo partendo dagli spazi e dalle aree nuovamente aperte alla coscienza che l'uomo ha di se stesso.
Provo ad esemplificare: ecco un giovane che durante la sua vita ha considerato Dio come suo Padre. Durante la sua giovinezza era guidato da questa sua situazione di «figlio» per esprimere a se stesso la sostanza della formula «Dio-Padre». Ora è sposato ed è divenuto a sua volta padre. Si sposta, allora, l'angolo visuale dal quale egli intuiva la paternità divina è d'ora in avanti esprimerà a se stesso la paternità divina partendo dalla sua propria paternità, senza pertanto rigettare la prima percezione, infatti resta sempre «figlio». Evangelizzare quest'uomo non significa forse aiutarlo ad esprimere lo stesso mistero della paternità divina, man mano che si allargano gli spazi da cui può intravederla?
In modo analogo, anche se ben più largo, si possono considerare le molteplici acquisizioni di un determinato gruppo di uomini o, meglio, di un popolo intero, per tutto ciò che riguarda il suo modo di pensare e di vivere la paternità. D'altra parte, se diamo uno sguardo alla storia, non faremo fatica a vedere da quante agitazioni e contestazioni è stato scosso l'istituto della paternità! Comportamenti paterni possibili un tempo ora non lo sono più, mentre altri inimmaginabili un tempo sono diventati oggi reali e quotidiani. Da questa nuova coscienza che una determinata collettività elabora attorno alla paternità, «espressioni» nuove possono sorgere ad «arricchire» il vangelo. E da dove verranno queste nuove espressioni, re-interpretazioni della fede, se non da coloro che, immersi in queste mutazioni culturali, cercano di «arricchirne» il Vangelo?
Ora, noi sappiamo che vi sono percezioni, atteggiamenti, comportamenti che sono «propri» della gioventù. Quanto sarebbe pregiudizievole per tutta la Chiesa, se nessuna voce si alzasse da queste nuove aree in cui si prende coscienza di sé, per «dire», «proclamare», «testimoniare» il vangelo in una forma rinnovata! Se, al contrario, questo fatto trova nella Chiesa le condizioni per svilupparsi, tutti gli uomini ne approfitteranno e tutta la Chiesa se ne arricchirà. Non dobbiamo, allora, domandare ai giovani soltanto di «applicare» il vangelo; domandiamo loro soprattutto di «re-interpretarlo» e di «tradurlo». La loro «versione» ci è indispensabile. La condizione di adulti nella nostra società rende questa «versione» particolarmente indispensabile: non immaginiamo quanto la coscienza che la giovinezza ha di se stessa sia estranea alle nostre prospettive!
Verso una pedagogia della creatività
Concludendo questa parte, piuttosto teorica, vorrei dire, allora: non siamo certamente noi ad inventare il vangelo, lo riceviamo e questo ci richiede l'obbedienza della fede. Pur tuttavia, il fatto che Dio ci parla non esclude per noi un compito particolare ed essenziale: elaborare il linguaggio attraverso cui la sua Parola ci raggiunge. Quindi non ci è permesso di concludere: la Parola è di Dio, dunque non è dell'uomo! La forma più alta dell'obbedienza è la più attiva, la più creatrice, la più feconda. Non si tratta tanto di inventare noi un «nome» (= la realtà!), bensì di scoprire il «nome», che è già scritto da Dio nel profondo mistero di ogni essere. Il «nome» non è imposto da noi alle cose, arbitrariamente, ma per obbedienza al reale e misterioso segreto delle cose. La fede, quindi, non è una «nostra» interpretazione della realtà, ma una «scoperta», una «re-interpretazione», una «ri-espressione», una «presa di coscienza» della realtà, così come realmente è, anche se ciò lo scopriamo per la rivelazione di Dio e non per il nostro limitato potere di indagine.
Tutto ciò ci conduce, allora, in nome della fede e in nome di un certo umanesimo, a dare la preferenza ad una pedagogia della creatività piuttosto che ad una pedagogia della semplice assimilazione.
«Io penso che la nostra prima autonomia consiste nella nostra capacità di interpretare la nostra vita culturale alla luce del Vangelo ed a sua volta il Vangelo stesso con tutte le risorse di questa cultura comprese quelle in apparenza più negative e disgregatrici - in un moto circolare continuo, dove l'obbedienza del nostro ascolto e la libera spontaneità della nostra intelligenza si uniscono in modo da non più distinguersi» [8].
NUOVO DINAMISMO DI RI-ESPRESSIONE DELLA FEDE DI MOLTI GIOVANI
Se facciamo attenzione al mondo giovanile, non tarderemo certo ad accorgerci che vi è tra i giovani cristiani un dinamismo e un movimento molto attivo per la ri-espressione della fede. Ben inteso, non è un fatto che abbia caratteristiche generali e neppure di... completa ortodossia, ma sappiamo che esiste allo stato brado, allo stato selvaggio, per così dire. Giovani che hanno ricevuto un'educazione cristiana in un contesto tradizionale, nell'urto con la cultura del loro tempo si trovano spesso nell'impossibilità di credere nelle forme (non si allude solo ad un aspetto «formale», è chiaro!) che hanno ricevuto. Costretti dalla situazione reale a fare una scelta si trovano spesso immersi in questo dilemma: abbandonare la fede dei padri o rinnovarne la «formulazione»? Quando vogliono correre il rischio di seguire la seconda pista, si mettono, il più delle volte, in una situazione di reale creatività. E che tale movimento di «ri-espressione» raggiunga il suo scopo di una fede più illuminata, a misura con la sua epoca cioè, dipende in gran parte dagli educatori, altrimenti può divenire l'ultima «battaglia d'onore» di una fede impossibile ad essere conservata. Bisogna che gli educatori abbiano il coraggio di percepire questo movimento nella sua vitalità, anche se si tratta di una re-interpretazione selvaggia da parte dei giovani. Se la percezione dell'educatore non è alterata da una preoccupazione esasperata dell'ortodossia, quello che appare subito è la vitalità di questo dinamismo, la creatività dei giovani nel campo dell'espressione della fede.
Dinanzi a determinate proposizioni di fede, certi giovani incontrano delle difficoltà, credono di trovarsi di fronte ad affermazioni impensabili, inaccettabili, prive di senso. Non sempre le rigettano immediatamente snobbandole con il solito «... storia da monache!», ma con il loro spirito critico affermano, più o meno coscientemente, che «quella» determinata proposizione di fede può avere anche un altro senso. E non disperano di trovarlo, lo cercano, potremmo dire lo creano. E intraprendono questa ricerca con i loro mezzi di bordo, quasi sempre in gruppo e, almeno apparentemente, senza richiedere l'aiuto degli adulti o dell'esperto nella fede. Tutto questo potrebbe porre perplessità agli adulti, ma non bisogna dimenticare che è proprio dal mondo adulto che è nata la difficoltà e che i giovani lottano contro questa eredità che, se è inventariata oggettivamente, presenta crepe e carenze.
A mio modo di vedere, la creatività è il motore insostituibile di tutto ciò che si potrà ulteriormente costruire con i giovani, e penso che ogni pedagogia giovanile dovrebbe in un primo tempo provocare e armonizzare tutte le condizioni per mettere in luce questa creatività e per fare ciò è evidente che il metodo migliore è quello della «non-direttività», e in un secondo tempo dovrebbe impedire e superare ogni ostacolo che potesse spegnerla. Quando il petrolio zampilla da un pozzo la prima preoccupazione certamente è quella di mettere in atto i mezzi per canalizzarlo impedendogli di disperdersi fra la sabbia, ma nessuna sovrastruttura, nessuna impalcatura, nessuna valvola, nessuna ibrida canalizzazione deve neutralizzare lo scaturire della sorgente.
Il pericolo di snaturare la fede
Giunti a questo punto è d'obbligo porci un'ulteriore domanda: «ma non c'è il pericolo, agendo così, di snaturare la fede?». La creatività dei giovani, a volte, può esprimersi solo a livello di emozioni, quindi l'obiezione è più che legittima. In effetti, però, penso sia giusto porre un correttivo all'obiezione. A mio parere, il più delle volte, la creatività dei giovani non si congela solamente in uno stato emozionale, ma è più frequente diagnosticare una specie di riduzione dei misteri cristiani dalla significazione teologale a quella quasi esclusivamente antropologica.
Gli ardui censori dell'ortodossia - quelli che si alzano al mattino e non trovando niente da condannare lo inventano - protestano e affermano che bisogna correggere tutto questo e aggiungere subito quegli utili completamenti che dovranno manifestare la «globalità» di quella determinata verità cristiana. Reazione comprensibile: tutti noi, forse, l'abbiamo incontrata molte volte o ne abbiamo fatto l'esperienza diretta nel dialogo, più o meno difficile, con quel determinato vescovo o con quel teologo, insegnante di dogmatica in seminario.
Ben inteso che sull'osservazione di fondo sono d'accordo anch'io. Ma dinanzi a casi come quelli che ho descritto sopra, a mio parere, il voler ripetere «bisogna completare tutto ciò con...» non fa certo avanzare le cose. Infatti se quei giovani hanno potuto accettare ed interiorizzare la proposta che si sono fatti a loro stessi, è segno che avevano scoperto una «mediazione culturale» sufficientemente parlante e significante per loro. Non è affatto certo che ciò che noi aggiungeremo, pur essendo perfettamente ortodosso, avrebbe una nuova capacità qualificante o lo stesso prestigio della loro scoperta. Come può un adulto di 40-50 anni sapere in che modo il mistero dell'Immacolata Concezione può significare qualcosa per una ragazza di 14-15 anni? Perché, intendiamoci bene, non si tratta soltanto di spiegare, ma bisogna cercare che una «formulazione» di fede diventi significativa e significante per colui o colei che l'accetta. È abbastanza facile spiegare ad adolescenti, che hanno disertato la pratica della messa domenicale, il legame dei diversi gesti, la ragione del rito, il simbolismo di' un atto o di un oggetto: tutto ciò può portarli a «capire» che cos'è la messa, ma non la renderà più significante per loro.
Non dovremmo mai dimenticare il «movente ultimo» che mobilita i giovani in questa loro ricerca: ridare un significato a un fatto o un insegnamento che non li tocca, non li riguarda più. Ebbene, questo non possiamo farlo al loro posto, anche se forse possiamo farlo con loro.
DUE ATTEGGIAMENTI NECESSARI ALL'EDUCATORE
Già nelle pagine iniziali si è detto quanto sia importante e delicato il problema della creatività, penso quindi che l'educatore quando accoglie la creatività nel processo dell'educazione della fede, non dovrebbe mai dimenticarsi di questi due atteggiamenti che dovrebbe far propri:
* Rispettare i diversi livelli di significato, ciò che significa procedere per gradi, vedendo negli atteggiamenti creativi dei giovani dei «punti salienti» di un cammino. Prima di aderire al significato ultimo di un passo evangelico, la creatività dei giovani cerca di pensarlo su di un piano di significato che è loro congeniale e che desume dal loro contesto vitale. Questo fatto non esclude affatto gli altri livelli, ma... la casa si costruisce pietra su pietra. Se si vuole avanzare, questo primo livello di significato è necessario, e l'educatore non può toglierlo subito di mezzo, come una passerella si toglie dopo che i passeggeri sono saliti a bordo. Nello stesso modo l'umanità di Gesù ci è necessaria per accedere alla sua divinità e per scoprire il volto divino di ogni uomo. Lo stesso Gesù non ha voluto e quindi potuto «sorpassare» la sua umanità. In questi due casi la mediazione non è un fatto esteriore, ma una realtà «interiore», perché se manca «un primo senso umano», una parola «divina» resta esangue e priva di contenuto. Se andiamo per il mondo a ripetere che Dio ci salva, le nostre parole possono rimanere «vuote» fino a quando chi ci ascolta non dia loro un preciso significato umano, deve cioè trovarsi in una situazione e in un'esperienza viva che gli faccia esclamare: «ci siamo, sono perduto...! Questa volta, sono salvato!...».
Io penso che ciò che spinge i giovani ad inventare un linguaggio prendendo le cose «dal capo opposto», come dice Robinson, sia proprio una predicazione e un insegnamento dati in una lingua formale, puramente «soprannaturale e rivelata». Abbiamo detto e ripetuto, per esempio, che Maria è vergine e madre, senza preoccuparci affatto di dare prima un senso umano, attuale, a questa doppia condizione di vergine e madre, ed è per questo che i giovani si fermano al senso umano che proprio loro scopriranno. È il «soprannaturalismo» che genera il «naturalismo»!
* Servire questo dinamismo senza paura, ciò che significa fondare una pedagogia che, senza distruggere la creatività dei giovani e l'elaborazione che essi costruiscono, fornisca loro le indicazioni, le piste, i criteri, i metodi e i documenti, perché la «re-interpretazione» di cui abbiamo parlato non anarchizzi e snaturi la fede, costruendo dal niente o in balia della pura fantasia o del soggettivismo delirante. Ma al di là di questi rischi vi è tutto un largo margine in cui, oggi, la creatività dei giovani può dire qualcosa di insostituibile sul piano della scoperta e della conoscenza di Cristo, sul piano della liturgia e della preghiera, sul piano della morale e della testimonianza della carità, sul piano, infine, di una rinnovata relazione educativa.
NOTE
[1] Cf D.J. DE SOLLA PRICE, Sociologia della creatività scientifica, Bompiani, Milano, 1967.
[2] Cf G. CALVI, Il problema psicologico della creatività, Ceschina, Milano, 1966.
[3] Oltre il libro già citato del Calvi, sempre dello stesso autore consiglio, Creatività e sviluppo mentale; J. DEWEY, Intelligenza creativa, «La Nuova Italia», Firenze, (1917), 1957; M. FATTORI, Creatività e educazione, Laterza, Bari, 1968; LÉVI-STRAUSS CL., Il pensiero selvaggio, «Il Saggiatore», Milano, (1962), 1964; A. CROPLEY A.J., Creativity, Green and Co., London, 1967; S. SPEARMAN, Les aptitudes de l'homme, P.U.F., Paris, (1936), 1946; J. MARITAIN, L'intuizione creativa nell'arte e nella poesia, Morcelliana, Brescia, 1957; M. MENCARELLI, Scuola di base e educazione, «La Scuola», Brescia, 1969.
[4] M. MENCARELLI, Intelligenza e creatività, in «Pedagogia e Vita», 5, 1970-71, «La Scuola», Brescia.
[5] Cf M. FOUCAULT, Le parole e le cose, Milano, Rizzoli; P.M. VAN BUREU, Il significato secolare del vangelo, Gribaudi, Torino, 1969; D. ANTISERI, Filosofia analitica e semantica del linguaggio religioso, Queriniana, Brescia, 1969; G. GUSDORF, Filosofia del linguaggio, Città nuova editrice, Roma, 1970.
[6] C. MOLARI, Linguaggio ed ermeneutica in teologia, dispensa con appunti registrati a cura dell'Istituto di Catechetica del P.A.S., Roma, 1971; cf H. HALBFAS, Linguaggio ed esperienza nell'insegnamento della religione, Herder-Morcelliana, Roma-Brescia, 1970; J. LE DU, Alcuni problemi di linguaggio posti alla catechesi, in «Concilium», VI (1970), 3,74-87; E. ALBERICH, Catechesi alla ricerca di un linguaggio, in «Orientamenti attuali della catechesi», LDC, Torino-Leumann, 1971, 143-161.
[7] URS VON BALTHASAR, Parole de Dieu et liturgie, edit. du Cerf, p. 86.
[8] M. RICOEUR, nella rivista «Cahiers universitaires catholiques», 1966.