Giancarlo Milanesi
(NPG 1977-09-30)
VIOLENZA DEI GIOVANI E VIOLENZA SUI GIOVANI
In questi ultimi anni la cronaca ha riportato quasi quotidianamente episodi di violenza, i cui protagonisti sono stati spesso giovani diversi per estrazione sociale, orientamento ideologico e formazione culturale. I fatti riportati hanno avuto luogo soprattutto in alcuni paesi caratterizzati da alti indici di sviluppo industriale (più raramente in paesi in via di sviluppo), gettando allarme sia tra gli «osservatori» specialisti, sia tra gli uomini di scuola, di chiesa e di governo. Anche solo il sospetto di una più o meno chiara connessione tra violenza giovanile e sviluppo industriale (entro il modello capitalista) ha scatenato una serie di interpretazioni spesso poco fondate, cariche comunque di colpevolezza e di autopunizione, che rivelano quanto sia lunga la coda di paglia di chi si è illuso di aver creato una società a misura d'uomo (e di giovane). Il sospetto è in realtà solidamente motivato, come cercheremo di chiarire nelle pagine seguenti; ma per essere razionalmente verificato esige una più complessa e attenta analisi della violenza che investe complessivamente tutta la società occidentale (e italiana in particolare). Violenza criminale e violenza politica, violenza manifesta e violenza latente, violenza rivoluzionaria e violenza reazionaria, violenza fisica e violenza morale; questi gli aspetti più appariscenti di un fenomeno largamente diffuso e di cui i giovani non sono certamente i protagonisti assoluti. La violenza sembra essere presente nella stessa struttura sociale, nella rigida divisione in classi, ceti e gruppi, che perpetua il dominio (culturale, economico, politico, religioso) di alcuni uomini su altri uomini e che consacra come «normale» la disuguaglianza, il privilegio e la sopraffazione. È presente, di conseguenza, nei processi sociali che presiedono alla formazione e alla legittimazione delle norme, dei modelli di condotta, dei pregiudizi, degli stereotipi (cioè di quello che noi chiamiamo cultura) e soprattutto nei processi per cui tali norme vengono trasmesse in modo rigido, impositivo, acritico, sfociando in forme di socializzazione che fanno uso della violenza nella manipolazione delle coscienze. La violenza è presente in quelle istituzioni o organizzazioni che hanno il compito di salvaguardare i rapporti di potere esistenti e di garantire il successo di una socializzazione conformizzante; la famiglia, la scuola, la fabbrica, l'ufficio, il carcere, l'istituto di rieducazione, la casa di cura... sono i luoghi in cui spesso la violenza delle istituzioni si manifesta attraverso l'autoritarismo, il ricatto affettivo e morale, il terrorismo ideologico, la discriminazione e l'emarginazione.
In questo quadro va compresa la violenza che nasce dal basso, come effetto del clima di accesa competizione e conflittualità che si crea nell'ambiente o come reazione alla violenza che viene dall'alto: i protagonisti della violenza sono perciò allo stesso tempo anche oggetto di violenza, coinvolti in un processo circolare, apparentemente senza uscita, che richiede attenta considerazione ed analisi.
La necessità di un più articolato studio del fenomeno-violenza si impone per altro da altri punti di vista. Non tutti gli oppressi infatti (e tanto meno tutti i giovani) rispondono alla violenza del sistema e delle istituzioni con altrettanta violenza; benché costretti a interiorizzare modelli di vita largamente inquinati da una ricorrente tentazione di violenza, molti rispondono con la non-violenza o almeno con atteggiamenti meno esplicitamente violenti. Ciò sembra suggerire che una comprensione della violenza giovanile (e non solo giovanile) debba far appello non unicamente all'apporto dell'analisi sociopolitica, ma anche a quella psicologica, opportunamente inquadrate in un preciso contesto storico.
VIOLENZA POLITICA E VIOLENZA CRIMINALE
La violenza in generale è intesa come uso della forza fisica (più raramente di quella morale) al servizio di finalità individuali o sociali imposte ad altri senza la loro accettazione o consenso. Più in particolare si parla di violenza criminale che è caratterizzata prevalentemente da finalità utilitariste e immediate, dall'assenza di scopi sociali, politici, dal rifiuto di un progetto riformista e tanto più rivoluzionario. La violenza politica invece è caratterizzata dal fatto che essa «tende a modificare il comportamento degli altri in una situazione che ci si aspetta abbia conseguenze sul sistema sociale» (Nieburg); in questa definizione viene compresa sia la violenza dei grandi apparati sociali e politici finalizzata al mantenimento o alla conquista del potere, sia quella di persone, gruppi, classi o ceti in conflitto tra di loro o con i sistemi sociali vigenti.
Al di là di queste definizioni piuttosto asettiche si avverte comunque che ogni discorso sulla violenza (criminale o politica) implica un giudizio o valutazione globale che va molto al di là di una pura descrizione del fenomeno; soprattutto nel caso della violenza politica si nota che essa richiama sempre un giudizio di legittimità o illegittimità, ampiamente soggettivo ed emotivo, che dipende dalle posizioni che l'osservatore occupa nella scala del potere, dalle sue appartenenze di classe, dalle sue scelte politiche, dalle circostanze ambientali. Di qui la difficoltà di una valutazione «oggettiva»; difficilmente si arriva all'accettazione incondizionata o al rifiuto radicale della violenza. Anche per chi accetta o rifiuta la violenza «in linea di principio», esistono situazioni in cui la violenza può essere rifiutata o accettata per ragioni che contrastano vistosamente con i principi adottati, ma corrispondono a precise valutazioni «di fatto».
Ciò è tanto più vero per la violenza giovanile, soprattutto quella politica, che può facilmente scatenare reazioni emotive rivelatrici delle ambivalenze e dei rifiuti di cui i giovani sono oggetto da parte degli adulti.
In questo contributo mi limiterò ad analizzare alcune interpretazioni generali della violenza, indicando! di volta in volta gli aspetti che possono riferirsi alla violenza politica e a quella giovanile in particolare; meno rilievo sarà dato invece alla violenza criminale, che per altro ha legami talora consistenti con quella politica.
LA PSICOLOGIA DI FRONTE ALLA VIOLENZA
Mancanza di spazi di espansione
K. Lorenz e P. Leyhausen, partendo da alcune osservazioni sul comportamento animale, hanno ipotizzato che la violenza (in forma di aggressività reciproca) è connessa con l'ansia e l'insicurezza derivanti da una situazione di sovrappopolazione in un'area limitata, aggravata dalla presenza di sistemi rigidi di controllo e di strutture sociali costrittive, che creano la sensazione di non poter né evadere, né espandersi, né realizzarsi. Questo modo di lettura che è stato chiamato «ecologico» è ricco di applicazioni alla reale condizione di molti giovani italiani, obiettivamente «bloccati» nella soddisfazione di molti bisogni anche fondamentali (famiglia, lavoro, partecipazione) da situazioni di reale penuria delle risorse, di crescente mancanza di spazi, di assurda negazione del bisogno di espansione. Ma questa interpretazione, per essere soddisfacente, va adeguatamente collocata in un quadro di considerazioni storiche e sociopolitiche che la teoria di Lorenz e Leyhausen non possono offrire.
Sviluppo abnorme dell'aggressività
Analogo discorso va fatto per il contributo offerto dalla psicanalisi. Freud (e in parte anche i successivi suoi discepoli) collega la violenza all'aggressività, o meglio ad uno sviluppo abnorme e unilaterale dell'aggressività, che è a sua volta una dimensione di base della personalità. La violenza non sarebbe quindi un comportamento solo o prevalentemente appreso, ma invece largamente derivato da una distorsione nel rapporto tra gli istinti di base. L'aggressività infatti è descritta da Freud come una manifestazione di un impulso o istinto di morte, di per sé distruttivo o aggressivo, che si può trasformare in forza positiva e costruttiva solo se adeguatamente controllata, canalizzata e orientata dall'opposto impulso o istinto di vita, che rappresenta una forte spinta alla ricerca degli altri, all'amore, alla felicità, all'autoconservazione.
Nella prospettiva freudiana ogni conquista umana individuale o collettiva è sostenuta da una forte carica di aggressività sublimata, mentre ogni distruzione reca il segno di un'aggressività scatenata, sottratta al controllo della ragione umana. L'equilibrio istintuale è però sempre instabile e il rischio della violenza attraversa in continuità l'esperienza quotidiana.
Violenza come frutto di una socializzazione violenta
Il carattere appreso della violenza è invece sottolineato da Dollard e coll., i quali la mettono in relazione alla situazione di frustrazione; ma allo stesso tempo negano che vi sia un nesso deterministico tra frustrazione e aggressione violenta, poiché i modi di adattamento o superamento della frustrazione sono molti; rimane dunque da spiegare perché molti frustrati non reagiscono in modo violento. All'interrogativo possono dare una risposta gli studi di Adorno e coll. che hanno verificato l'esistenza di comportamenti aggressivi e violenti in personalità dotate di tratti autoritari, non innati, ma appresi in particolari situazioni di socializzazione entro la famiglia, la scuola, la fabbrica, la società globale. La «personalità autoritaria» sarebbe infatti caratterizzata da atteggiamenti direttamente predisponenti alla violenza, quali sono appunto la rigidità convenzionale, la sottomissione cieca ad autorità sacralizzate, l'aggressività verso i violatori delle norme, il rifiuto della creatività, il pessimismo fatalista, il culto della forza e del potere, la distruttività e il cinismo generalizzati...
Pregiudizi e conflittualità
Analogo discorso è quello che viene fornito dello studio sul pregiudizio, categoria di valutazione distorta di persone e situazioni, diffusa in ogni contesto sociale, ma soprattutto negli ambienti caratterizzati da un pluralismo religioso, etnico, razziale o linguistico fortemente conflittuale. È stato soprattutto G.W. Allport ad approfondire le ragioni per cui il pregiudizio funziona da fattore catalizzatore, soprattutto nei casi in cui la situazione esige un «capro espiatorio», su cui scaricare responsabilità insostenibili, senza doverne temere reazioni o ritorsioni.
Scarto tra aspettative e realizzazioni
Ma la teoria più ricca di sviluppi sembra essere quella che fa capo al concetto di «privazione relativa» elaborato da studiosi come Gurr, Davies, Feierabend, Bowen. Riprendendo alcuni motivi di Dollard, questi sociologi ritengono che la violenza possa scattare quando diventa insopportabile il «gap», cioè la distanza esistente tra le aspettative o aspirazioni sociali di un gruppo e le capacità effettive di raggiungere le aspettative stesse. Si sono ipotizzati parecchi casi concreti in cui è possibile prevedere uno scoppio di violenza; anche se non è possibile richiamarne tutti i particolari in dettaglio, è lecito concluderne che forti frustrazioni sociali, sia pure in presenza di altri fattori, sono in grado di funzionare da «detonatori» della violenza, soprattutto quando sono violati diritti o aspirazioni umane a cui si può «ragionevolmente» tendere in un determinato contesto storico.
LA SOCIOLOGIA DI FRONTE ALLA VIOLENZA
La teoria della «privazione relativa» richiama un'altra serie di considerazioni sul rapporto tra violenza e potere, violenza e conflitto, violenza ed ideologia.
Vuoti e dislivelli di potere
Il fenomeno che stiamo studiando sembra più diffuso nelle società caratterizzate da un'alta competitività e da processi di rapido cambio sociale, nelle quali la corsa al potere è sollecitata dall'ideologia del «rendimento ad oltranza» ma allo stesso tempo è preclusa, almeno attraverso le vie legittime, ad ampie minoranze che non sono dotate degli stessi «punti di partenza» e delle facilitazioni o privilegi di cui godono i detentori del potere. Di qui la violenza come ultima risorsa degli «esclusi». Del resto lo stesso conflitto sociale è da considerarsi radicalmente come una potenziale «polveriera» della violenza; il conflitto infatti può essere un fattore di ordinato cambio sociale solo quando sia opportunamente istituzionalizzato, cioè quando si siano previste adeguate modalità per gestirlo socialmente. Ma quando vengono interrotte le comunicazioni tra i gruppi in contrapposizione, quando si verificano dei vuoti di potere che portano a comportamenti anarcoidi, quando si crea tra i contendenti un dislivello di potere che sembra permettere ad uno dei due di cambiare a proprio vantaggio l'equilibrio precedente, allora è possibile la violenza. Le teorie conflittualiste hanno analizzato l'ipotesi della violenza anche in rapporto ad altre variabili come il diverso grado di organizzazione e di efficienza dei gruppi in conflitto, la presenza di obiettive situazioni di «privazione» economica e sociale, la crisi delle strategie del consenso e della legittimazione del potere, fornendo con ciò un'ampia produzione di studi sulla ribellione e sulla rivoluzione, tuttora attendibili.
L'interpretazione marxista
Non meno importanti sono le considerazioni svolte dal pensiero marxista che si inseriscono agevolmente nel discorso sul rapporto tra violenza da una parte e conflitto e potere dall'altra. Il marxismo scopre e condanna la violenza insita nei rapporti di classe vigenti nei paesi capitalisti, individuandone la radice nella necessità di salvaguardare un ordine fondato sulla disuguaglianza e sullo sfruttamento; tale violenza è rappresentata soprattutto dal potere dello stato che ne legittima e gestisce le varie forme attraverso le proprie istituzioni. Più sfumato e, al limite, ambiguo è il giudizio sull'uso della violenza nella prospettiva storica della costruzione del socialismo. La tradizione marxista infatti sembra escludere l'uso della violenza in linea di principio, ma la legittima largamente di fatto come giusta reazione alle resistenze irragionevoli della borghesia: ciò vale soprattutto nella fase transitoria della dittatura del proletariato che prevede tra l'altro la sopravvivenza dello stato e di tutte le sue forme di coercizione. La rivoluzione armata, nelle situazioni di estremo. sfruttamento e di invincibile alienazione, diventa una necessità; la violenza di classe viene combattuta con la violenza popolare, che si trasforma in valore capace di dare un significato all'azione sociale e politica ma che si espone al rischio di essere legittimata anche come ideologia. Il pericolo di una ideologizzazione della violenza, puntualmente denunciato dai capi rivoluzionari come forma involutiva della coscienza rivoluzionaria, rispunta in modo pericoloso in tutti i gruppi di ascendenza marxista, quando il loro tentativo di «far politica» in modo radicalmente nuovo (cioè veramente rivoluzionario) cozzi entro una obiettiva situazione di crescente isolamento politico.
La violenza di destra
Analogo del resto è il processo di legittimazione della violenza di destra, che coincide di fatto in molte sue manifestazioni con la violenza dell'estrema sinistra. Indubbiamente fondata sui tratti psicologici che abbiamo inglobato nella «personalità autoritaria», questa violenza si presenta come comportamento largamente irrazionale, privo di un contenuto sociale o politico (si scosta infatti sia dalle utopie millenaristiche che da quelle socialiste), fine a se stessa, distruttiva, primitiva. Di qui anche l'assoluta povertà culturale dell'ideologia di supporto, che si esaurisce o nella scontata ripetizione di dottrine volontaristiche (il «superuomo», la «volontà di potenza», la «virilità») o nell'esaltazione del razzismo, del nazionalismo e del militarismo.
Le obiettive analogie tra violenza ideologizzata di sinistra e di destra spiegano forse il fatto che ambedue sconfinino di frequente nella violenza criminale fine a se stessa o strumento (improbabile) di lotta politica, come sembrano dimostrare alcuni ricorrenti fatti di cronaca (rapine, sequestri, omicidi, stupri...).
I FATTORI INTERVENIENTI
Accanto ai vari fattori psicosociologici che sembrano più direttamente collegati con l'insorgere della violenza, ne vanno elencati altri che sembrano avere un'incidenza indiretta, come incentivi o come impedimenti. Ne raggruppiamo alcuni in categorie relativamente omogenee:
- a livello di potere costituito sono rilevanti i gradi di maggiore o minore integrazione ed efficienza dei sistemi sociali, di stabilità politica, di funzionalità nell'esercizio del potere e del controllo sociale;
- a livello dei gruppi dissenzienti sono importanti i gradi di maggiore o minore politicizzazione, di organizzazione, di credibilità, di autonomia economica, culturale e politica dei gruppi stessi;
- a livello delle masse è rilevante l'appoggio legittimante o la condanna esplicita che esse possono dare della violenza;
- a livello di contesto micro e macro-sociologico sono fattori di grande rilievo la presenza o meno di subculture devianti, di aiuti dall'esterno, di simboli della violenza, di possibilità reali di fuga, camuffamento, difesa.
LA VIOLENZA GIOVANILE IN ITALIA
I giovani non sono, come già si è detto, i protagonisti unici o principali della violenza (politica e criminale) in Italia. Non sono certo i giovani che esercitano la violenza istituzionale o che hanno creato le premesse per una gestione violenta dell'attività politica. Né sono tutti i giovani quelli che reagiscono violentemente alla situazione difficile che si è venuta creando nel paese; i giovani lavoratori nella loro stragrande maggioranza sembrano estranei alla violenza e anche tra gli studenti solo un'esigua minoranza ha scelto la strada della violenza sistematica eretta a principio. Un'indebita generalizzazione sulla violenza giovanile sarebbe dunque una pericolosa operazione ideologica, che scaricherebbe sui giovani una responsabilità politica che essi in realtà non hanno.
Per valutare adeguatamente il fenomeno della violenza giovanile ritengo si debba procedere gradualmente, per considerazioni successive che ricuperano gran parte delle categorie teoretiche che abbiamo passato in rassegna.
I giovani «vittime» della violenza
Tutti i giovani italiani sono, potenzialmente, oggetto di un processo di emarginazione, isolamento, sfruttamento, che è a sua volta il frutto logico delle scelte politiche, economiche e sociali che hanno presieduto al modello di sviluppo del paese negli ultimi decenni. Tale emarginazione si manifesta soprattutto attraverso i fenomeni dell'esclusione dai processi produttivi (disoccupazione), dall'accantonamento forzato nelle aree di parcheggio (scolarizzazione prolungata), della partecipazione dipendente (nella vita politica, culturale, religiosa), della manipolazione consumistica.
Di fatto mentre molti giovani riescono sia pure faticosamente ad inserirsi, molti altri (forse meno privilegiati o meno appoggiati) hanno di fronte lo spauracchio di una forzata stagione di attesa nel limbo delle speranze irrealizzabili.
L'emarginazione è vissuta da questa consistente minoranza (alcune centinaia di migliaia) in modo drammatico, e ciò per più ragioni: anzitutto perché l'esclusione contrasta vivamente con le «promesse» che questa società ha fatto ai giovani e poi perché ne deriva una insanabile frustrazione di bisogni che non solo sono «ragionevolmente» appetibili, ma addirittura fondamentali, come un lavoro, una famiglia, un livello decente di sicurezza e di benessere materiale, un accesso minimo ai beni culturali.
In un clima politico deteriorato
La presa di coscienza da parte dei giovani della propria potenziale o reale emarginazione avviene oggi in un clima politico e sociale particolarmente deteriorato. Alla disorganizzazione morale e sociale del paese, già in atto da tempo ed aggravata dalla crisi economica, si aggiunge ora la prospettiva di uno sbocco politico (il compromesso storico) che rappresenterebbe, con la spartizione del potere tra gruppi maggioritari, la fine di ogni reale dinamica di cambiamento sociale. Di qui la sensazione di trovarsi di fronte ad una sostanziale sconfessione dei «nuovi modi di far politica» che erano una delle conquiste giovanili del '68 e che contenevano, per i giovani, le premesse per un reale rinnovamento del paese. Di qui una sorda ribellione contro i vecchi e nuovi gestori del potere, più interessati ai propri giochi politici che preoccupati di avviare le riforme (prima fra tutte quella scolastica) e le decisioni necessarie per la ripresa del paese.
Pluralità di risposte
A questi problemi i giovani hanno dato diverse risposte; alla indifferenza degli «inseriti» si contrappone la rabbia degli attuali e dei futuri emarginati. Disoccupati, studenti coscienti della inutilità del «pezzo di carta», devianti abbandonati a se stessi, nuovi hippies armati di ironia confluiscono con i militanti di «Lotta continua», «Avanguardia Operaia», «Manifesto», «MLS» e femministe in un nuovo «movimento», che progetta una rivoluzione riportata ai progetti di un marxismo radicale, in cui la violenza come la risposta alla prevaricazione del sistema è presa seriamente in considerazione. Il modello delle ali estremiste della sinistra post-sessantottesca (Nap, Brigate rosse, ecc.) esercita un fascino notevole sui giovani per la forte coerenza, per alcuni innegabili successi, per la carica idealista che lo pervade. Ma altri (in parte nuovi) motivi ispiratori si aggiungono ai vecchi come base motivazionale e culturale di una piattaforma politica in cui la violenza non è esclusa in linea di principio: i profeti nuovi di un marxismo «puro» (da Karhl a Heller, da Reitel a Rovati, da Modugno ai teorici di «Ombre Rosse») predicano la necessità di dare una risposta ai bisogni ad ogni costo; la corrente libertaria della psicoanalisi (Reich, Laing, Cooper) si accorda con il volontarismo di Nietzsche (filtrato da Guattari) che loda la follia come istanza rivoluzionaria; la cultura underground si sposa con i principi di un rinnovato situazionismo vitalista e anarcoide; le istanze «personalistiche» dei movimenti femministi si fondono con lo spontaneismo beffardo degli indiani metropolitani. Ce n'è abbastanza per creare un clima di tensioni e di attese che facilmente può sfociare in violenza appena la frustrazione superi le soglie di sopportabilità a causa di «incidenti» più o meno gravi (l'annuncio della «riforma Malfatti», un errore della polizia, una provocazione di gruppi di tendenza opposta).
Perché le risposte violente?
Se è vero che non tutti i giovani emarginati reagiscono con la violenza e che neppure tutti quelli confluiti nel «movimento» sono in linea di principio o di fatto favorevoli all'uso indiscriminato della violenza come strumento di azione politica, ci si può chiedere perché alcuni di essi (e non tutti) scelgono la «strada della P.38», che ormai non può più essere considerata solo una reazione alla violenza del sistema, ma piuttosto una forma di violenza ideologizzata. A spiegare il fatto non bastano certo né la presenza di fattori macroscopici sul piano politico e sociale (che toccano tutti i giovani) né l'impatto esercitato dai modelli ideologici e culturali che abbiamo citato (i quali coinvolgono minoranze assai consistenti). Ma non si può fare neppure appello a spiegazioni psicologiche (soprattutto se ci si incammina nel terreno di un'interpretazione patologistica del fenomeno); già dopo il 1964 in America e il 1968 in Europa illustri psicologi hanno perso il tempo alla ricerca dei tratti caratteristici della personalità del giovane «attivista politico». L'aggressività, l'autoritarismo, il pregiudizio, la frustrazione sono presumibilmente distribuiti in modo omogeneo tra tutti i giovani, se è vero che essi sono in gran parte frutto di modelli educativi, di costume e di malcostume diffusi in tutti gli strati sociali. Né abbiamo controprove serie (voglio dire scientifiche) che tra i giovani violenti si concentrino in modo significativo soggetti affetti da particolari patologie della personalità (le eccezioni sono, per altro, ragionevolmente previste).
In attesa di più probanti analisi possiamo forse ipotizzare che la tentazione della violenza coinvolga maggiormente i giovani in cui la percezione delle obiettive situazioni di emarginazione e l'accettazione acritica delle legittimazioni ideologiche della violenza si accompagnino a particolari ed accentuate carenze di canalizzazione dell'aggressività o ad abnormi sviluppi dei tratti autoritari e del pregiudizio. Ma non è che una ipotesi.
Dalla violenza un interrogativo al nostro sistema
Quali che siano le radici complessive della violenza giovanile, non ci si può nascondere che essa, come qualsiasi fenomeno di «devianza», interroga la nostra società. Sono chiamati in causa non solo i presupposti normativi (cioè i valori) su cui essa si fonda, ma anche i modelli specifici di comportamento morale, politico, sociale e religioso che essa legittima e trasmette attraverso le sue agenzie di socializzazione e di controllo. Anche gli operatori sociali (educatori, pastori, terapeuti...) sono messi in discussione dalla violenza giovanile: la loro identità e la loro collocazione all'interno del sistema sociale in cui tale violenza ha origine vanno sottoposte ad una revisione attenta, che per molti versi implica una rivoluzione, pacifica certo ma radicale, dei progetti e dei ruoli educativi.