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    Violenza, non violenza e esperienza cristiana



    Guido Gatti

    (NPG 1977-09-36)


    IL PROBLEMA DELLA VIOLENZA RIVOLUZIONARIA NELLA COMUNITÀ DI FEDE

    Il problema della violenza è diventato uno dei punti discriminanti della attuale polemica intraecclesiale. La mitizzazione della violenza rivoluzionaria, questa disperata speranza che il massimo dall'irrazionalità possa generare il razionale e che la pace nasca dalla violenza totale, sta avendo da un decennio un'eco acutissima nella comunità ecclesiale.
    La posizione tradizionale della chiesa è sempre stata, almeno in linea di principio, una opzione per la non violenza come metodo per la trasformazione del mondo; e si capisce bene solo che si pensi al messaggio morale del vangelo: la sua sostanza è il comandamento della carità che abbraccia nella sua radicalità l'amore dei nemici, l'invito esplicito a rispondere al male col bene (Mt 5,38-41), rinunciando a farsi giustizia da sé (Rom 12,19) e considerando l'autorità civile come legittimata da Dio all'uso della coazione legale (Rom 13,1 ss).
    Questo naturalmente non escludeva da parte della morale tradizionale e della prassi relativa, la codificazione di deroghe e compromessi ben definiti che andavano dalla legittima difesa alla tutela dell'ordine sociale con la coazione legale (che non escludeva in linea di principio la pena di morte) fino a comprendere la possibilità di una guerra giusta e la legittimazione (almeno discussa) del tirannicidio.
    Si tratta come. si vede di una casistica abbastanza distante dal nostro contesto storico: la violenza rivoluzionaria non vi è contemplata; ed essa rimase effettivamente fuori dalle prospettive morali cristiane molto a lungo. Ma da qualche anno singoli credenti e gruppi di fede hanno abbracciato in pratica o più frequentemente difeso in teoria la violenza rivoluzionaria, come unico mezzo serio ed efficace per lottare contro l'ingiustizia e l'oppressione legalizzata e per la trasformazione radicale del mondo.
    Si rimprovera alla non-violenza il suo carattere rinunciatario nei confronti delle responsabilità storiche; la si accusa di essere una non-scelta, una neutralità illusoria che lascia in realtà libero corso alla violenza istituzionalizzata del sistema sociale, una collusione implicita e oggettiva con il potere degli sfruttatori e degli oppressori. La violenza al servizio della libertà e della giustizia sarebbe il nome nuovo della carità evangelica. Amare, si dice, è prendere posizione, è schierarsi dalla parte degli oppressi, condividendo la loro lotta e quindi la loro strategia. Conservarsi pulite le mani vuol dire in realtà rinunciare ad avere mani (Peguy). Si rintracciano ascendenze rivoluzionarie nel vangelo fino a vedere in Cristo la vittima per eccellenza di ogni ribellione storica dei deboli contro i potenti e nel vangelo una «memoria sovversiva».
    Nel dubbio alimentato nella chiesa da questa polemica, spesso violenta e faziosa, tra le due posizioni, il credente è chiamato a tornare alla parola di Dio per sviluppare una riflessione più serena e trovare luce per le sue scelte storiche.

    PER UNA TEOLOGIA DELLA VIOLENZA

    Il progetto di Dio è la comunione

    La parola di Dio ci fa vedere nella solidarietà umana un segno dell'amore del Padre ma anche un appello alla nostra responsabilità. Ma essa ci insegna che la solidarietà umana ha un significato ancora più profondo: il fatto che l'umanizzazione sia un fatto di solidarietà e che la cultura e la storia umana crescano solo attraverso la collaborazione rivela un progetto di Dio.
    Il progetto di Dio è un progetto di comunione, cioè di solidarietà accettata e vissuta nell'amore e nella pace.
    Se l'uomo non può crescere che dialogando e collaborando è proprio per questo: Dio vuol fare di tutta l'umanità una sola famiglia, vuole che gli uomini trovino la loro pienezza umana amandosi, facendo comunione, tra di loro come fratelli e con Lui.
    Questa comunione è il Regno di Dio di cui Cristo ci ha recato il lieto annuncio. Dio chiama tutti gli uomini alla gioia della comunione nell'amore e nella pace. La storia del mondo è una grande avventura di amore: la riuscita o lo scacco finale dell'universo saranno in realtà la riuscita o il fallimento di questa avventura.

    Il contro-progetto dell'uomo

    Ma l'esperienza del mondo registra insieme con i segni della vocazione dell'uomo alla comunione anche quelli della difficoltà, si direbbe invincibile, che l'uomo trova nella realizzazione del progetto di Dio. Anche qui è la parola di Dio a svelarci la dimensione segreta e quindi la vera origine di tutte le divisioni umane, di tutta la violenza della storia. Non al livello dei meccanismi concreti e delle cause storiche immediate, ma al livello delle cause profonde, quelle che hanno un rapporto diretto con Dio, creatore e fondamento della convivenza umana.
    Il mondo è diviso perché sotto il segno del peccato, cioè del rifiuto di Dio, della separazione dal suo amore, fonte di ogni comunione. Gli uomini non riescono ad abbattere i muri che li separano, le contrapposizioni che li fanno nemici gli uni degli altri nella misura in cui si escludono dalla comunione con Dio.
    I loro peccati hanno preso corpo nelle strutture di un mondo violento e lacerato. Sono diventati il peccato del mondo, il contro-progetto dell'uomo, una misteriosa realtà intrinsecamente violenta, di cui vediamo le tracce nella contrapposizione insanabile degli interessi, nelle guerre, negli odii, nelle ingiustizie che lacerano il mondo. Solo la riconciliazione con Dio e l'accettazione del suo progetto può rendere possibile il sogno, antico quanto l'uomo, della pace e della riconciliazione degli uomini tra di loro.

    La riconciliazione in Cristo

    Ma Dio non si è arreso di fronte allo scacco del peccato e alla realtà della violenza. Egli ha voluto ricomporre l'unità del genere umano, riconciliando a sé l'umanità nel Figlio suo, principe della pace messianica. In Cristo, Dio ha aperto nuovamente all'uomo la possibilità dell'amore e della comunione, ha riconciliato a sé l'umanità e ha vinto la forza disgregatrice del peccato.
    Questa riconciliazione è stata operata da Gesù mediante il mistero della sua morte e risurrezione. Essa è ora all'opera nel mondo come un compito e una speranza per tutti gli uomini ma soprattutto per i credenti, che ne hanno ricevuto da Cristo la buona novella e l'hanno accolta nella fede.
    In forza della redenzione, il peccato non è più un ostacolo insuperabile, gli uomini possono lottare con speranza contro le divisioni e le violenze che li oppongono a vicenda, preparando la piena comunione di amore e di pace che si attuerà nel Regno di Dio.
    Cristo è così la nostra pace: egli ha iniziato nel mondo una nuova fraternità che è il preludio e la preparazione della comunione piena del regno. La pace di Dio non appartiene solo a un futuro lontano, è già presente nel mondo come un germe; si costruisce ogni giorno attraverso lo sforzo, suscitato dallo Spirito, che ogni uomo compie per fare pace nel mondo. Ogni volta che gli uomini lottano contro la violenza e le divisioni che li separano e operano per la pace, il regno di Dio si viene costruendo nella storia. Durante questo cammino della storia, la fraternità resta tuttavia un compito difficile e una realtà fragile e precaria; continuano a persistere in noi le radici della violenza e del peccato, vinto ma non debellato. La pace del credente nel mondo non può essere altro che un continuo impegno di riconciliazione, una ricucitura della pace che la debolezza umana rende fragile e il peccato tende continuamente a lacerare.

    PER UNA MORALE DELLA VIOLENZA RIVOLUZIONARIA

    Il compromesso etico

    Le modalità di questo impegno per operare la pace ed opporsi alla violenza non possono essere formulate in maniera incondizionatamente vincolante una volta per tutte. Soprattutto esse non possono essere dedotte in modo univoco dalla parola di Dio. Essa offre indicazioni esemplari e modelli privilegiati cui va sicuramente riconosciuto un certo carattere normativo. Ma i condizionamenti storico-culturali e il genere letterario di queste indicazioni (si pensi al carattere apodittico ma paradossale del «discorso del monte») vieta di fare di esse il punto di partenza per la formulazione di norme rigide che predeterminino totalmente le scelte dei credenti nelle diverse situazioni storiche emergenti, scelte che debbono restare aperte alla creatività dello Spirito che rinnova la faccia della terra.
    Questo spiega il fatto che nella chiesa, segno espressivo ed efficace della pace messianica, la strategia di questo impegno per la pace sia stata spesso assai diversa a seconda delle epoche e delle situazioni storiche e che la coscienza ecclesiale registri tuttora a questo proposito un certo pluralismo di posizioni.
    A dire la verità la riflessione teologico-morale ha trovato attraverso i secoli un certo indirizzo di massima abbastanza costante e incontestato. È la linea che potremmo chiamare del compromesso etico. Esso si esprime nella codificazione di condizioni abbastanza precise che legittimano in determinati casi l'uso della violenza. È un riconoscimento realistico del carattere insopprimibilmente conflittuale della politica, dell'economia e quindi l'accettazione, a condizioni precise e rigorose, della violenza difensiva sia privata (legittima difesa) che pubblica (coazione legale e guerra giusta).
    Il compromesso realistico, che sa chiedere in ogni situazione concreta quella attuazione della giustizia che pare la meno inadeguata, è un aspetto certamente necessario di una morale che voglia rispondere in modo positivo ai problemi concreti e alle contraddizioni etiche dell'homo viator, posto in situazione.
    Non sembra giusto d'altra parte mettere sullo stesso piano i diritti dell'innocente e gli interessi illeciti del colpevole.
    Su questa linea di realismo e di compromesso, ma superando il carattere conservatore ed individualista della casuistica tradizionale, si pone appunto la scelta della violenza rivoluzionaria. Nella situazione . radicalmente nuova in cui ci troviamo non si tratta di scegliere, si dice, tra violenza e non-violenza ma tra la violenza degli oppressi e quella degli oppressori; la violenza è nelle cose, a nulla serve ignorarla se non si agisce efficacemente per spezzarla.
    La violenza non è prospettata come un bene ma come un male ,necessario, il minor male possibile, tollerata per assenza di alternative. Diventa nella situazione concreta una esigenza dell'amore, il realismo dell'amore.
    Questa posizione trova una certa conferma, come è noto, nel n. 36 della Populorum Progressio, che giustifica la rivolta anche violenta nel caso «di una tirannia evidente e prolungata che attentasse gravemente i diritti fondamentali della persona». Questo naturalmente alla condizione che essa sia l'extrema ratio, non vada oltre il segno della stretta necessità e dia speranze fondate di successo. Nonostante questo la chiesa ha costantemente mostrato una grande sfiducia in questo genere di strategia rivoluzionaria, ritornandovi anche recentemente e, credo, senza cadere in contraddizione (Paolo VI al CELAM 24.8.1968).
    In realtà la violenza resta sempre un male non soltanto fisico ma soprattutto morale, qualcosa di non direttamente componibile con la carità. La legittima difesa non può mai equivalere alla legittimazione di mezzi intrinsecamente negativi in forza del fine buono.
    La scelta della strategia rivoluzionaria non può ubbidire unicamente a criteri di efficienza immediata ma deve confrontarsi con istanze etiche imprescindibili. Ci sono del resto buoni motivi per dubitare della stessa efficacia della violenza: quando non si tratta solo di distruggere strozzature strutturali, impersonate in un ristretto gruppo di oppressori ben individuabili ma, come generalmente è oggi, di rovesciare insieme a strutture profondamente radicate nella mentalità collettiva, tutto un modo di pensare e di vivere, quando si tratta di costruire un nuovo tessuto sociale necessariamente fatto di comprensione, di solidarietà e concordia, allora la violenza è impotente. Più che medicina essa si rivela sintomo della stessa malattia che vorrebbe curare, segno del deterioramento del tessuto di solidarietà che forma la base della convivenza umana, distruzione senza via di uscita. Essa non è rottura ma continuità con la logica di violenza del sistema da abbattere. E l'esperienza induce a temere inoltre il troppo facile predominio della componente irrazionale, così difficile da controllare una volta scatenata, la distruttività a lungo periodo dell'odio cui deve alimentarsi, la manipolazione delle masse mobilitate da una propaganda spesso faziosa, insomma tutta una serie di elementi negativi che non possono non durare al di là del momento violento della rivoluzione rendendo intrinsecamente violenta la nuova società che da essa nasce.

    La profezia della non-violenza

    Tutto questo spiega la persistenza nella chiesa del richiamo profetico alla totale non-violenza. Il rifiuto incondizionato a servirsi della violenza come mezzo di lotta per la giustizia e per la pace è stato prevalente nella chiesa per secoli. Ed appare evidente la sua più immediata consonanza con l'insegnamento e l'azione di Cristo e con il comandamento della carità. Ma si può anche dire «che l'azione non-violenta è la più connaturale alle stesse esigenze rivoluzionarie: la rivoluzione infatti intende rompere il sistema vigente, quello appunto della violenza, e offrirgli un'alternativa: non intende offrire un'alternativa nel sistema ma al sistema. A livello dei fini l'opposizione tra violenza e rivoluzione è quindi assoluta».
    Naturalmente scegliere la linea profetica della non-violenza impegna a dare ad essa un contenuto attivo e costruttivo, per mettersi veramente e non solo verbalmente al di fuori della logica della violenza e del sistema, per non andare incontro all'illusione e all'ipocrisia o per non offrire un sostegno indiretto all'oppressione. Solo se condotta fino in fondo con decisione, senza compromessi e complessi di inferiorità, la non-violenza potrà rivelarsi costruttiva e autenticamente rivoluzionaria.
    La strategia della non-violenza resta tuttavia una strategia dei tempi lunghi, insufficiente per la impazienza rivoluzionaria; essa sembra a molti più un gesto enfatico che una forma di prassi storica, più una proclamazione astratta che una concreta rivendicazione della giustizia; la permissione dell'ingiustizia immediata, inevitabile nella strategia non-violenta, sarebbe tutto sommato un male morale non necessariamente inferiore a quello della violenza che intende efficacemente arrestarla. E tutto questo a prescindere dal dubbio legittimo sull'autenticità di una scelta non violenta che correrebbe il rischio di nascondere la viltà del non scegliere o l'occulta complicità con i potenti e le ingiustizie dell'ordine costituito

    Né il compromesso etico né la profezia sono legge

    Le aporie apparentemente insolubili, cui vanno incontro tanto la proclamazione profetica della nonviolenza quanto il realismo etico dell'accettazione della strategia violenta nella lotta rivoluzionaria, sono legate in fondo alla pretesa di normatività assoluta attribuita troppo spesso a ognuna delle due posizioni, normatività assoluta che finisce per passare al di sopra dell'uomo, dei suoi veri interessi umani e della situazione concreta.
    Ma sia la profezia che il compromesso etico non possono arrogarsi il carattere di legge.
    Nella misura della sua crescita nell'età adulta di Cristo, il credente è definitivamente sottratto alla pedagogia della Legge; è emancipato dalla sua servitù, liberato alla spontaneità dell'amore. L'amore resta l'unica vera legge del credente. Le vie concrete della sua attuazione non possono essere predeterminate in assoluto, per ogni persona e per ogni situazione.
    L'amore è indefinitamente creativo, inesauribile nell'inventare sempre nuove forme di espressione, di incarnazione e di adeguamento alle esigenze uniche ed irripetibili della situazione. Naturalmente questo non deve significare il ricorso all'arbitrio, all'irrazionalità; l'amore non resta confinato nel limbo delle buone intenzioni, si misura sempre nuovamente col carattere decisamente obiettivo delle sue responsabilità, pena la sua inautenticità.
    È in questo spazio di oggettiva responsabilità che trovano posto le eventuali indicazioni pastorali della chiesa, normative per la fede qui e ora, anche se non definitive e irreformabili.
    Ma naturalmente c'è spazio anche per un certo legittimo pluralismo di opzioni concrete, purché nella vigile consapevolezza del carattere contingente e relativo di queste opzioni, e quindi nel rispetto delle opzioni diverse. Il tutto naturalmente nella fedeltà all'ispirazione originaria che è quella dell'amore cristiano, un amore che, da qualunque posizione prenda le mosse, sempre si incammina effettivamente verso la pace e la comunione del regno, in un continuo sforzo di riconciliazione.


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