Verso la GMG /4
Luis A. Gallo
(NPG 2011-04-57)
In un brano autobiografico scritto da S. Paolo nelle sue lettere, l’Apostolo esprime la quintessenza della sua esperienza cristiana in questi accorati termini:
«Ritengo che ogni cosa sia un danno di fronte all’eccellenza della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho rinunciato a tutto; io considero queste cose come tanta spazzatura al fine di guadagnare Cristo […]. Tutto questo allo scopo di conoscere Cristo e la potenza della sua risurrezione» (Fil 3,7.10).
Sin dall’inizio del suo Messaggio ai giovani Benedetto XVI esprime il desiderio che essi possano vivere, proprio in occasione della Giornata mondiale, una analoga esperienza:
«Vorrei che tutti i giovani, sia coloro che condividono la nostra fede in Gesù Cristo, sia quanti esitano, sono dubbiosi o non credono in Lui, potessero vivere questa esperienza, che può essere decisiva per la vita: l’esperienza del Signore Gesù risorto e vivo e del suo amore per ciascuno di noi» (n. 1).
E un po’ più avanti, alludendo ai tanti richiami che sollecitano e persino affascinano i giovani d’oggi, ci tiene a ricordare:
«L’apostolo Paolo ricorda la potenza di Cristo morto e risorto. Questo mistero è il fondamento della nostra vita, il centro della fede cristiana» (n. 3).
La Pasqua, il cuore della fede cristiana
Leggendo i testi degli Atti degli Apostoli, che tramandano la vita e l’azione delle prime comunità cristiane, si constata chiaramente che i suoi membri non annunziano delle dottrine religiose ma narrano una storia, la sconvolgente storia di ciò che Dio ha fatto, tramite Gesù di Nazareth e in lui, per la salvezza del mondo. Lo fanno sia quando proclamano l’annuncio a coloro che provengono dal giudaismo (At 2,22-24), sia quando lo proclamano a coloro che provengono dal paganesimo. Ne è un esempio emblematico il discorso di Pietro nella casa del centurione Cornelio, membro della coorte «italica» a Cesarea Marittima:
«Voi sapete quello che è avvenuto in tutta la Giudea, incominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni; vale a dire, la storia di Gesù di Nazareth; come Dio lo ha unto di Spirito Santo e di potenza; e com’egli è andato dappertutto facendo del bene e guarendo tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui. E noi siamo testimoni di tutte le cose da lui compiute nel paese dei Giudei e in Gerusalemme; essi lo uccisero, appendendolo a un legno. Ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno» (At 10,46 …).
Chi accoglie l’annuncio non aderisce quindi a un insieme di verità religiose, ma a un buona notizia che riguarda la sua vita e la sua felicità: Dio si è fatto presente nel mondo in un uomo, Gesù di Nazareth, riempendolo del suo Spirito, che è la sua Potenza vivificante, e in lui è passato facendo del bene e guarendo tutti, ossia sradicando la morte e infondendo la vita. Infatti Gesù, venuto perché gli uomini avessero la vita, e l’avessero in abbondanza (Gv 10,10), durante l’intera sua attività pubblica guarì ammalati, purificò lebbrosi, liberò posseduti da spiriti disumanizzanti, accolse e riconciliò peccatori con Dio, rimosse rapporti mortificanti tra le persone e i gruppi umani e fece sorgere rapporti vivificanti tra di essi, illuminò il giusto modo di relazionarsi con Dio. Tutto questo egli lo chiamò «regno di Dio» (Mc 1,14-15), e per tutto questo egli visse appassionatamente fino a morirne. Lo uccisero, infatti, i potenti della religione e della politica, «appendendolo a un legno», credendo in questo modo di eliminare un «sovversivo» (Lc 23,5); ma, come annunziano gioiosamente i primi discepoli, «Dio lo ha risuscitato il terzo giorno».
La sua risurrezione non è pertanto la semplice rianimazione di un cadavere che torna alla vita di prima, ma il trionfo pieno e definitivo della vita sulla morte, il suo ingresso nella pienezza della Vita di Dio. In questo senso Gesù risorto è, come diceva un antico scrittore cristiano, «il regno di Dio in persona» (Origene). In lui la Potenza divina vivificante, che è il suo Spirito, ebbe la sua massima manifestazione. Così, in uno di noi, della nostra stessa carne e del nostro stesso sangue, trovò per la prima volta piena e totale soddisfazione ciò che costituisce la più profonda aspirazione di ogni essere umano: vivere, e vivere in pienezza, senza ritagli di nessun genere.
Ma se la risurrezione di Gesù di Nazareth è una buona notizia per noi – «la» buona notizia per eccellenza – è perché egli, come ama dire S. Paolo, è la «primizia di coloro che sono morti» (1 Cor 15,20), il «primogenito dai morti» (Col 1,18). Ciò che è avvenuto in lui nella Pasqua è voluto da Dio per tutti e ognuno degli esseri umani. Egli, risorto, è la garanzia che la vittoria della vita sulla morte a cui aspira ogni essere umano non è un’illusione. Si capisce perciò la gioia che accompagnava l’annuncio incontenibile dei primi testimoni.
La potenza della risurrezione passa per la croce
Nel libro dell’Apocalisse, che si apre con la apparizione di Colui che è «il Vivente» dopo aver subito la morte (Ap 1,18), viene descritta ad un certo punto, con un linguaggio carico di simbolismo, una scena impressionante: «Vidi, in mezzo al trono, circondato dai quattro esseri viventi e dagli anziani, un Agnello, in piedi, come immolato» (Ap 5,6). Nei due testi si tratta del Cristo risorto, proclamato Signore della storia. L’immagine dell’Agnello, in piedi ma con i segni dello sgozzamento, sta ad indicare che la sua attuale situazione di Vivente è intimamente legata a ciò che egli ha dovuto passare per arrivarvi: la morte in croce.
Della croce parla anche Benedetto XVI nel suo messaggio in questi termini:
«Cari amici, spesso la Croce ci fa paura, perché sembra essere la negazione della vita. In realtà, è il contrario! Essa è il «sì» di Dio all’uomo, l’espressione massima del suo amore e la sorgente da cui sgorga la vita eterna» (n. 3).
Così come la si è presentata spesso in passato, e come la si presenta a volte ancora oggi, la croce di Gesù non appare certo come «l’espressione massima del suo amore»; anzi, appare come la sua sottomissione in qualche modo fatale al volere di un Dio adirato a causa del peccato dell’uomo, che richiede la riparazione del suo onore offeso mediante il sacrificio del suo Figlio. La sua morte in croce, atto supremo di obbedienza (Fil 2,8), sarebbe stato ciò che ha riconciliato di Dio con l’umanità disubbidiente e peccatrice sin dagli inizi, e di conseguenza della sua rappacificazione. Da un Dio offeso e adirato sarebbe passato a essere un Dio propizio e benevolo. Vista così, la croce sarebbe certamente, come già insinuava Nietzsche, «la negazione della vita».
La diffusa presenza di un simile modo di pensare tra i cristiani crea l’urgenza di recuperare lo spessore storico della morte di Gesù, per cogliere il suo senso genuino. Una lettura attenta dei dati evangelici porta a concludere che egli finì sul patibolo della croce perché quello che annunciava e proponeva urtò contro le prese di posizione di coloro che si resistettero ad accogliere quel «regno di Dio» che egli annunciava con i suoi discorsi e soprattutto con i suoi atti.
Il suo modo di concepire il «regno di Dio» era diverso da quello di tutti gli altri gruppi religiosi del suo popolo. Egli proponeva, infatti, nel nome di tale regno, un ribaltamento radicale di tutto ciò che si opponeva alla possibilità di vita vera e piena per tutti, a cominciare dai più privi di essa, e ciò richiedeva necessariamente un nuovo assetto della convivenza umana, anche a livello strutturale. Per questo egli denunciò e contestò apertamente e con indomabile coraggio gli atteggiamenti, i rapporti e le strutture che si opponevano alla sovranità di Dio.
Contro la religiosità legalista
Denunciò e contestò, anzitutto, il modo legalista di rapportarsi con Dio, largamente diffuso, che faceva dell’uomo uno schiavo della Legge. Furono principalmente i farisei il bersaglio di tale denuncia e contestazione. Nei vangeli, infatti, si riferisce che egli arrivò a chiamarli «sepolcri imbiancati» (Mt 23,27), «ciechi» (Mt 23,19.24.26), «serpenti, razza di vipere» (Mt 23,33). È probabile che queste durissime parole riflettano situazioni posteriori, quando cioè i credenti in lui erano già in contrasto con i farisei, che impersonavano il giudaismo a lui refrattario. Ad ogni modo, sullo sfondo c’è un dato storico indubitabile: Gesù si oppose alla religiosità di tipo legalista. Egli dimostrò di non sopportare che il rapporto con il Dio che pensava e proclamava come Padre tenero e sollecito del bene dei suoi figli, potesse essere vissuto nel timore e nel legalismo. E, soprattutto, che una tale religiosità venisse imposta ad altri, riducendoli alla condizione di schiavi pieni di paura, stanchi e oppressi sotto il giogo della Legge (Mt 11,28-30).
Si individua in questo modo di agire di Gesù una delle cause storiche della sua morte in croce. Coloro ai quali disturbava e persino faceva paura il suo modo di concepire il rapporto con Dio, e la sua critica di tutto il sistema religioso che su di esso poggiava, decisero di eliminarlo. Capirono che se lo lasciavano andare avanti con la sua condotta e il suo annuncio, molte cose avrebbero dovuto cambiare radicalmente. Optarono, quindi, per bloccarlo.
Gesù contestò, inoltre, il sistema di purità legale che spaccava il mondo in due: ciò che era puro e ciò che era impuro. Un’impurità a sfondo religioso, ma che aveva anche dei risvolti sociali molto rilevanti. Da diversi altri racconti evangelici (per es. Mc 7,1-23) si desume che a lui non interessava la legge della purità rituale quando c’era di mezzo il bene e la felicità delle persone. E ciò non poteva non scatenare le ire di coloro che a tale legge erano scrupolosamente attaccati. Anche da questo punto di vista se la sua condotta arrivava a diffondersi, molte cose avrebbero dovute cambiare nella convivenza del suo popolo. E non solo nella convivenza interna, bensì anche nei rapporti con coloro che non appartenevano ad esso. Gesù sembra aver passato al di sopra anche di una simile discriminazione. Nei racconti dei vangeli lo si vede, infatti, non solo entrare a contatto con alcuni pagani, come nel caso della donna cananea o siro-fenicia la figlia guarisce (Mt 15,21-28; 7,25-30), ma più di una volta lo si sente anche lodare la loro fede, contrapponendola perfino alla mancanza di essa nel suo popolo (Mt 15,28; 8,10; 13,58).
Un terzo ambito in cui egli esercitò una forte contestazione fu quello dei conflitti globali che attraversavano l’intera società d’Israele: tra giusti e peccatori, tra ricchi e poveri, tra uomini e donne, tra adulti e bambini. Egli impugnò, tanto con le parole quanto soprattutto con i suoi atti, tutte le forme di emarginazione da essi derivate. Le sue opzioni davanti a detti conflitti lasciavano intravedere chiaramente, a chi le guardava con un minimo d’intelligenza, che egli proponeva una convivenza collettiva organizzata in modo esattamente contrario a quello in cui era allora ordinata. I deboli e piccoli non dovevano venir fatti oggetto di esclusione e di emarginazione dai forti e potenti, ma viceversa oggetto di attenzione preferenziale.
Ora, ciò comportava necessariamente per «i vincenti» nei differenti conflitti una perdita della situazione di privilegio di cui godevano. Essi, se volevano accogliere la sua proposta, dovevano rinunciare ai loro ingiusti vantaggi e convertirsi ad una reale fraternità, come fece Zaccheo (Lc 19,7-8). Ma, da quel che si legge nei vangeli, pochi di essi erano disposti a farlo. Piuttosto si indurirono nella difesa dei loro interessi, e decisero di togliere di mezzo, mediante la condanna alla croce e alla morte, colui che «sovvertiva la gente» (Lc 23,2).
Il tempio di Gerusalemme
Un’ultima situazione contraria al «regno di Dio» denunciata e contestata da Gesù fu quella del tempio di Gerusalemme. Il tempio costruito da Salomone, prolungamento della tenda nella quale Dio aveva voluto farsi presente quando il popolo peregrinò per quarant’anni nel deserto, era stato per secoli il cuore pulsante della sua vita. Distrutto più di una volta lungo la sua storia, era stato ricostruito con tenacia dallo zelo dei credenti. In esso si manifestava la gloriosa presenza del Dio che li aveva strappato dalla schiavitù d’Egitto, e li aveva portato ad abitare nella terra della promessa. Ai tempi di Gesù, a costituire il centro religioso d’Israele era il tempio ricostruito ed abbellito da Erode il Grande. Ad esso affluivano tre volte l’anno i fedeli da tutte le regioni per celebrare i grandi riti comandati dalla Legge. Lo amministravano le famiglie dei sommi sacerdoti, che l’avevano convertito in uno strumento di sfruttamento del popolo, esigendo da esso le decime e altre tasse. Inoltre, nel suo cortile grande si sviluppava un rumoroso commercio di animali destinati ai diversi sacrifici prescritti dalla Legge stessa.
Così, la casa del Dio che si era rivelato inizialmente al popolo in una straordinaria gesta di liberazione dalla schiavitù e dallo sfruttamento, col passare del tempo si era convertita in un «covo di briganti» (Mc 11,17). Il luogo dove si andava ad adorare il Dio della libertà si era trasformato in uno strumento di asservimento, soprattutto dei più poveri e deboli, come la vedova ricordata nei vangeli (Lc 21,1-4; Mc 12,42-44). Si può spiegare così l’infuocata reazione di sdegno che gli evangelisti attribuiscono a Gesù. Tutti e quattro, infatti, riportano l’episodio del suo intervento (Mt 21,12-16; Mc 11,15-18; Lc 19,45-46; Gv 2,13-16). Secondo essi, in tale occasione egli contestò apertamente il sistema imperante, che costituiva una reale bestemmia contro il Dio del regno. Lo strumentalizzava, infatti, facendogli svolgere una funzione esattamente opposta a quella che Egli voleva svolgere. Lo faceva apparire anziché come un Dio di libertà e di vita, come un dio di oppressione e di morte. Gesù, dice il quarto vangelo, «fece una frusta di cordicelle, e scacciò tutti dal tempio» (Gv 2,15). Fu «lo zelo per la casa di suo Padre» che lo spinse a una tale azione (Gv 2,17). Questo intervento gli attirò immancabilmente le ire dei capi religiosi del popolo» (Mc 11,18). Lo ritenevano pericoloso, dunque, perché con le sue critiche al sistema religioso istaurato nel tempio poteva produrre un ribaltamento della situazione. Tanto più che la folla lo ammirava (Mc 11,19). Si rendeva necessaria, quindi, la sua eliminazione. E fu decisa.
La croce, culmine di un’esistenza vissuta per il Regno di Dio
Sono questi i principali motivi storici che portarono Gesù al patibolo della croce. Infatti, secondo le testimonianze dei vangeli, il primo capo d’accusa che gli venne imputato durante il processo giudiziale davanti al Sinedrio fu quello di aver parlato contro il tempio (Mt 26,60-61; Mc 14,58); il secondo, invece, davanti al tribunale romano, quello poco sopra ricordato di «sovvertitore del popolo» (Lc 23,2). Sono motivi strettamente legati alla sua attività per il «regno di Dio». Egli portò tanto avanti la sua dedizione al suo annuncio, che non dubitò di affrontare anche la morte per esso.
La croce di Gesù non è, quindi, l’espressione di un fatale volere di Dio geloso del suo onore. Non è neppure qualcosa che non abbia un legame con tutto ciò che la precedette.
È invece il culmine di una esistenza vissuta per il «regno di Dio». Perciò è anche la massima espressione del suo amore verso il Padre, e allo stesso tempo la massima espressione del suo amore verso i suoi fratelli. In questo senso è la manifestazione culminante della sua maturità, della sua fecondità e della sua gloria (Gv 12,23-25). È, come dice il papa nel suo Messaggio, «l’espressione massima del suo amore», e la strada attraverso la quale egli arrivò alla risurrezione. Nella sua massima debolezza si manifestò la massima potenza divina dello Spirito.
Fare la Pasqua nella vita
Come è stato ricordato sopra, iniziando il suo Messaggio ai giovani il papa esprime il desiderio che essi possano vivere, nella Giornata mondiale, la «esperienza di Cristo morto e risorto». Si tratta, in realtà, dell’esperienza che ogni cristiano è chiamato a fare: l’esperienza, come diceva S. Paolo, della «potenza delle risurrezione», ossia del trionfo della Vita sulla Morte. Un trionfo a cui occorre fare il maggiore spazio possibile nella propria vita personale, ma anche nella vita degli altri, in cui si annidano tante forme di Morte. In fondo, ogni cristiano è chiamato a «pasqualizzare l’esistenza». Non tanto nel senso popolare ancora diffuso che intende «far Pasqua» in chiave cultuale, e cioè come un «confessarsi e comunicarsi» almeno in occasione della festa pasquale, ma nel senso vitale di impegnarsi a «fare la risurrezione dei morti».
La potenza vivificante che Dio, mediante il suo Spirito, ha dispiegato nella Pasqua risuscitando Gesù di Nazareth e vincendo in lui la Morte, continua a dispiegarla nella storia. E lo fa attraverso l’azione umana. È molto espressivo ciò che dice un antico Padre della Chiesa ai cristiani che si sono accostati al battesimo: «Tutto è stato fatto perché voi diveniate come altrettanti soli, cioè forza vivificante per gli altri uomini» (S. Gregorio Nazianzeno).
Ne è un esempio l’episodio narrato dagli Atti degli Apostoli sull’intervento di Pietro nel giorno della Pentecoste: dallo storpio che aveva le gambe morte sin dalla nascita, con le conseguenze psichiche, sociali e religiose che ne derivavano, l’Apostolo, nel nome di Gesù morto e risorto, ossia con la sua potenza vivificante, strappa la morte e lo riempie di vita:
«Lo prese per la mano destra e lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e, balzato in piedi, si mise a camminare; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio» (At 3,7-8).
Potrebbe essere un luminoso emblema della meravigliosa vocazione di ogni credente e, più in là ancora, di ogni uomo.