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    Verso la GMG /5

    Luis A. Gallo

    (NPG 2011-05-30)


    Alle volte si sente dire da più di un giovane che, se fosse vissuto ai tempi di Gesù, gli sarebbe stato più facile credere in lui e accogliere il suo messaggio. Vedendo tante cose meravigliose che egli andava facendo, tutto gli sarebbe risultato chiaro e indiscutibile. Si dimentica così che la fede è sempre, come dice un testo del Nuovo Testamento, «certezza di quelle cose che non si vedono» (Eb 11,1).

    La certezza di ciò che non si vede

    Anche coloro che sono vissuti gomito a gomito con Gesù e sono stati testimoni oculari di quanto disse e fece, sono dovuti andare oltre a ciò che vedevano con i loro occhi per cogliere ciò che non vedevano. Ne è una chiara dimostrazione l’episodio di Tommaso, a cui fa riferimento Benedetto XVI nel suo Messaggio.
    Nel Vangelo ci viene descritta l’esperienza di fede dell’apostolo Tommaso nell’accogliere il mistero della Croce e Risurrezione di Cristo. Tommaso fa parte dei Dodici apostoli; ha seguito Gesù; è testimone diretto delle sue guarigioni, dei miracoli; ha ascoltato le sue parole; ha vissuto lo smarrimento davanti alla sua morte. La sera di Pasqua il Signore appare ai discepoli, ma Tommaso non è presente, e quando gli viene riferito che Gesù è vivo e si è mostrato, dichiara: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo» (Gv 20,25).
    È vero che più di una volta nei vangeli vengono dichiarati beati coloro che, stando a contatto con Gesù, ascoltano ciò che egli dice e vedono ciò che egli fa. Così, in Lc 10,23, lui stesso dice, rivolgendosi ai suoi discepoli: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Vi dico che molti profeti e re hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, ma non lo videro, e udire ciò che voi udite, e non l’udirono». Si riferisce, naturalmente, all’arrivo del tempo in cui la grande Promessa di Dio di vita e felicità, che aveva attraversato i secoli della storia del popolo d’Israele, trovava finalmente compimento.
    Per secoli, infatti, Israele aveva atteso, con impazienza più o meno contenuta, che quella Promessa si avverasse. L’aveva sentita risuonare nei suoi orecchi Abramo, agli inizi, quando ascoltò la misteriosa voce divina che, mentre gli ingiungeva di tagliare i ponti con il suo presente di sterilità e insicurezza, gli prometteva un futuro di sconfinata benedizione: «In te saranno benedette tutte le nazioni della terra» (Gn 12,3). Ma l’avevano poi anche sentita ripetere i suoi discendenti tante e tante volte lungo i secoli. Specialmente quando, col passare del tempo, si era andata affermando l’idea che Dio sarebbe intervenuto, mediante un suo inviato, ripieno del suo Spirito, per portarla a compimento. «Magari si squarciassero i cieli e tu scendessi!», sospirava il popolo sofferente e sfiduciato per bocca del profeta Isaia (Is 63,19). Ora, con Gesù, tutto questo lungo attendere trovava il suo appagamento. «Il regno di Dio è qui», aveva detto egli inaugurando la sua attività in mezzo alla gente (Mc 1,14). E dicendo «regno di Dio», intendeva dire proprio questo: la realizzazione dei vostri sogni, quelli più profondi e più genuini dei vostri cuori. Perciò egli dichiarava beati coloro che lo accoglievano, perché stavano vedendo con i loro occhi e udendo con i loro orecchi ciò che tanti altri «avevano salutato da lontano», come dice la Lettera agli Ebrei, riferendosi principalmente ai patriarchi (Eb 11,13). Essi stavano toccando con mano l’adempimento della promessa.
    Ma negli stessi vangeli c’è anche un’altra grande parola di beatitudine. Fu pronunciata da Gesù otto giorni dopo la Pasqua, quando apparve per la seconda volta agli apostoli, essendo presente anche Tommaso, che la domenica precedente era stato assente e si era manifestato apertamente incredulo.
    Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente!». Rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!» (Gv 20,26-29).
    Questa parola è detta per noi. Per tutti quelli cioè che, non avendo avuto occasione di vedere Gesù con i propri occhi né di ascoltarlo con i propri orecchi, credono a lui e alla sua parola. Lo diceva già un altro scritto del Nuovo Testamento: «Gesù Cristo voi lo amate, pur senza averlo visto, e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa» (1 Pt 1,8-9).
    Ciò che noi «tocchiamo» oggi, a duemila anni di distanza, è quello che, attraverso una lunga catena di testimoni, arriva a noi circa la persona e la proposta di Gesù. Ma, andando oltre a quello che «tocchiamo», crediamo. Abbiamo la convinzione, più o meno sicura secondo i momenti, che ciò che lui ha vissuto e proposto è vero, è reale, vale la spesa di essere accolto e realizzato. E nella misura in cui lo riteniamo tale e lo viviamo, ci si apre una strada di beatitudine. Lo hanno sperimentato prima di noi tanti e tante altri.
    Quelli che sono stati più coerenti, ossia i santi e le sante di tutti i tempi, sono stati anche quelli che ne hanno goduto di più. Basta pensare a Francesco d’Assisi. Quale gioia riempiva il suo cuore anche in mezzo alle più grosse difficoltà. Gioiva e cantava. «Perfetta letizia», ripeteva. Egli non vedeva il suo amato Signore con i suoi occhi, non lo sentiva con i suoi orecchi, non lo toccava con le sue mani, ma credeva intensamente alla sua presenza e alla sua proposta di fraternità universale. Tanto che fu dichiarato «un altro Cristo». E non è detto che non abbia avuto anche lui, come molti altri, dei momenti di dubbio e di oscurità. Li ha avuti certamente, come ci fanno sapere i suoi biografi, ma ne è emerso vittorioso. E uscendone, la sua gioia e la sua felicità erano ancora più grandi di prima.

    Chi crede diventa «testimone dell’invisibile»

    La fede è arrivata a noi attraverso innumerevoli testimoni, come si diceva, i quali prima di noi sono andati «oltre». Erano convinti che, come scrisse Antoine de Saint-Exupéry nel Piccolo principe, «l’essenziale è invisibile agli occhi». Aveva detto qualcosa di simile molti secoli prima di lui S. Paolo, che dichiarava in una delle sue lettere: «Noi concentriamo la nostra attenzione non su quel che vediamo ma su ciò che non vediamo» (2 Cor 4,18).
    Ci vogliono altri occhi per vedere «ciò che non vediamo», e questi occhi li provvede la fede. Con essi è possibile superare la corteccia del visibile per penetrare nel mondo dell’invisibile, che è «l’essenziale». La fede è, in questo senso, come una grande metafora, nel senso che dava a questo termine il grande filosofo contemporaneo del linguaggio, Paul Ricoeur, e cioè un «errore calcolato»: «errore», in quanto contesta l’evidenza del visibile; «calcolato» in quanto apre consapevolmente a delle realtà che sono al di là del visibile. È un atteggiamento veramente trasgressore, nel senso etimologico della parole: porta «oltre». Un testo evangelico lo dice in maniera limpida, quello del cosiddetto giudizio finale di Mt 25,31-41: gli occhi vedono l’affamato, l’assetato, lo straniero, il nudo, l’ammalato, il carcerato; la fede dice: «avete visto me». In maniera analoga si esprimeva Giovanni Paolo II parlando della preghiera per i defunti: essa è, secondo lui, «quasi un combattimento con la realtà della morte». La morte dei nostri cari defunti è reale, visibile, indiscutibile, «si tocca con mano»; la preghiera della fede afferma: «vivono per Dio» (Lc 20,38).
    I credenti di tutti i tempi, nella misura in cui sono stati tali, sono vissuti così, trasgredendo la realtà che vedevano, combattendo con essa per andare al di là di essa, e in tale modo hanno dato testimonianza di un mondo «altro», quello mostrato da Gesù.
    In realtà, Gesù stesso ha aperto loro questa strada perché egli, come dice di Mosè la Lettera agli Ebrei, visse «come se vedesse l’invisibile» (Eb 11,27). Tutto il suo agire ci fa capire che egli aveva occhi «altri» per vedere la realtà di Dio, degli uomini, del mondo, del presente e del futuro. In questo senso egli adempiva ciò che era stato preannunciato dall’anziano Simeone quando, nella sua presentazione al Tempio, lo accolse tra le braccia e disse alla sua giovane madre: «Egli è qui […] come segno di contraddizione» (Lc 2,35).
    Gesù visse così: controcorrente. Proprio per questo fu accusato di «sovversione» nel processo romano che lo portò alla morte (Lc 23,1). Egli contestava l’assetto della convivenza tra le persone e i gruppi vigente, che creava situazioni mortificanti per tutti, ma particolarmente per i più deboli e indifesi, e si batteva, con le parole e con i fatti, per un altro in cui, come diranno più tardi alcuni scritti neotestamentari, fosse di casa la giustizia (2 Pt 3,13), e di conseguenza non ci fossero più «né lutto né lamento né affanno», perché le cose di prima, quelle che si vedevano chiaramente, sarebbero state spazzate via (Ap 21,4), lasciando il posto alla gioia incontenibile preannunziata dai Profeti per gli ultimi tempi (Is 25, 6-10).
    È questa la proposta e l’augurio di una fede contagiosa che fa il papa ai giovani della Giornata mondiale nel suo Messaggio.
    Dice, infatti, loro:
    «Anche voi, se crederete, se saprete vivere e testimoniare la vostra fede ogni giorno, diventerete strumento per far ritrovare ad altri giovani come voi il senso e la gioia della vita, che nasce dall’incontro con Cristo!».


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