Luis A. Gallo
(NPG 1981-5-39)
Questa proposta vorrebbe porsi in continuità con quanto è stato detto nelle relazioni precedenti. Vorrebbe pertanto tenere conto sia della nuova frontiera aperta come orizzonte globale della ricerca, sia della attuale condizione giovanile, sia ancora della risposta globale che orienta verso una comunicazione narrativa.
La proposta ha come oggetto i contenuti, cioè il «che cosa» della fede da comunicare ai giovani nella pastorale, e più precisamente in una pastorale che si vuole all'insegna della credibilità. Non prenderà quindi in considerazione altri aspetti dell'annuncio della fede.
Dato lo scopo della relazione, la proposta sarà molto sintetica e si ridurrà quasi a fare degli enunciati essenziali, con appena qualche commento.
L'annuncio cristiano come narrazione della storia di Gesù il Cristo
Partiamo da una prima costatazione fondamentale: la pastorale della Chiesa nascente, quella che si è manifestata con una forza di credibilità straordinaria e quasi travolgente, annunciava una storia.
Infatti, tanto ai giudei che si affollavano il giorno della Pentecoste per sapere cosa era accaduto (cf Atti 2,6.22-36), quanto ai pagani che nella persona di Cornelio bussavano alla porta della comunità in cerca di salvezza (cf Atti 10,7-8.22.36-40), come pure a coloro che erano già entrati a formar parte della stessa comunità (cf Vangeli), ciò che veniva fondamentalmente comunicato non erano degli enunciati dottrinali o dei precetti morali, ma la storia di Gesù di Nazaret. Una storia che, condensata in poche frasi, diceva di lui che «era passato beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo» (Atti 10,38), che era stato «inchiodato sulla croce per mano di empi e ucciso», ma che poi Dio aveva risuscitato «sciogliendolo dalla angoscia della morte» (Atti 2,23-24), costituendolo così come «Signore e Cristo» (Atti 2,36).
Questa costatazione resta orientata per tutti i tempi. La vicenda di Gesù di Nazaret costituisce quindi il nucleo impreteribile dell'annuncio di ogni pastorale e, allo stesso tempo, quella fonte nella quale e dalla quale verranno attinti tutti i singoli contenuti del medesimo, dando loro unità e senso. Ciò è carico di conseguenze per la nostra ricerca.
Gesù di Nazaret e la causa del Regno di Dio
Come appare dagli scritti neotestamentari, e specialmente dai vangeli, la storia di Gesù di Nazaret è tutta polarizzata attorno ad un punto centrale: il Regno di Dio (cf Mc 1,15).
È questo un punto che alcuni decenni fa non era sufficientemente sottolineato, e che invece oggi si ritiene generalmente di grande importanza. Gesù, infatti, inaugura la sua attività proclamando come buona novella l'imminenza del Regno, e proponendola come una causa, alla quale egli stesso consacra appassionatamente la sua vita personale (cf Mt 13,44-46). Tutto ciò che fa e dice è orientato ad essa (cf Mt 6,33; Giov 4,34).
Non solo, ma anche la convocazione che fa di uomini e donne attorno a sé è chiaramente un invito in ordine a fare propria questa causa (cf Mc 3,13-14; Mt 10,18). Si può così dire con fondamento che Gesù non mette se stesso al centro della decisione dei convocati, ma la causa del Regno di Dio.
Il Regno di Dio è in ciò che Gesù fa e dice
Cosa significhi la formula «Regno di Dio» lo si può scoprire solo vedendo ciò che lo stesso Gesù fa e dice.
Tale significato non lo si può cogliere astrattamente, a partire da un concetto generico di regno umano proiettato analogicamente in Dio; e neppure rifacendosi semplicemente all'Antico Testamento, nel quale la categoria «Regno di Dio» era già stata adoperata ampiamente (cf per esempio il Deuteroisaia). Vale per questa formula neotestamentaria ciò che per i titoli cristologici attribuiti a Gesù: non sono essi a dire chi sia lui, ma è lui che dà loro contenuto e significato. È importante pertanto prendere in esame ciò che Gesù disse e fece.
I vangeli riportano anzitutto delle parole sue sul Regno. Esse non danno ovviamente delle definizioni, ma conformano un linguaggio appropriato per riferirsi a una realtà che trascende ogni umana esperienza. Gesù parla del Regno soprattutto mediante parabole (cf Mt 13,1-50; Lc 10,30-37; ecc.). È dal loro insieme che ci si può formare un'idea del Regno proclamato.
Ma è specialmente con quello che fa che Gesù svela ciò che egli intende per Regno: la sua azione di esorcista, con la quale libera uomini e donne da quelle forze che non permettono loro di essere veramente uomini (cf Mc 5,1-19; 9,14-29; ecc.); le guarigioni corporali, mediante le quali restituisce l'integrità del corpo e anche la possibilità di reinserirsi nella società (cf Mc 1,40-42; 2,312; 3,16; ecc.); il perdono dei peccati, con il quale libera uomini e donne dal peso esistenziale di un mancato rapporto con Dio (cf Lc 7,36-50; 19,1-10; ecc.); e, soprattutto, la ricerca di comunione anche conviviale con i più piccoli, deboli, emarginati o addirittura disprezzati della società del suo tempo (le folle ignoranti del «popolo della terra», i pubblicani, le prostitute: cf Mc 2,15; Mt 9,10-13; Lc 5,19-32; ecc.).
Tutte queste azioni sono da ritenersi non tanto come argomenti apologetici sulla sua missione messianica o sulla sua condizione divina, ma piuttosto come altrettanti simboli o parabole in azione che anticipano parzialmente il Regno proclamato e ne indicano la direzione. Sono come frecce sul cammino.
Il Regno di Dio come «pienezza di Vita» degli uomini
Da questo insieme di parole e di azioni appare quindi che il Regno di Dio equivale per Gesù di Nazaret alla pienezza di Vita degli uomini (cf Giov 10,10), e specialmente dei più «moribondi», di coloro che sia la natura sia soprattutto la libertà degli uomini lascia «semimorti» lungo la strada (cf Lc 10,25-37).
La fedeltà ai dati neotestamentari proibisce di dare a tale pienezza di Vita qualunque senso riduttivo. Infatti, proclamando il Regno di Dio Gesù non solo perdona i peccati, ma anche guarisce i corpi; non solo agisce in favore degli individui, ma prende di mira anche i rapporti interpersonali e sociali; non solo proietta verso il futuro di Dio, ma incide anche già sul presente.
Il Regno, inoltre, come risulta chiaro da questi testi, è una realtà eminentemente teocentrica e allo stesso tempo eminentemente antropocentrica. Ciò che Gesù di Nazaret propone è la causa della Vita piena per gli uomini, e specialmente per i più piccoli e poveri, come causa di Dio stesso.
Gli scritti del Nuovo Testamento hanno espresso in diverse forme questa convinzione. Una di esse è l'attribuzione a Gesù del titolo di «Servo di Jahvé» (cf per es. Lc 4,16-19), annunciato profeticamente dal Deuteroisaia (cf Is 42,14; 49,16; 50,49; 52,13-53,12). Il suo appassionato servizio a Dio si concretizza nel suo appassionato servizio alla causa della vivificazione degli uomini e del mondo.
La conversione come unica strada per il Regno di Dio
Per fare realtà la causa del Regno così concepito Gesù propone, con acuto realismo, un'unica e fondamentale strada: la conversione (cf Mc 1,15: «metanoeite»).
È questa un'altra categoria che deve venir riempita di significato alla luce di quanto lui stesso disse e fece. Altrimenti, rischia di venir depauperata.
Essa suppone, innanzitutto, la realistica percezione della condizione in cui si svolge l'esistenza dell'uomo, singolo e collettivo: forze di Morte si annidano nel cuore umano (cf Mc 7,2122), e da esso si proiettano sui diversi aspetti dell'esistenza. La Morte degli uomini, e specialmente dei più piccoli e poveri, è dovuta in parte alla natura ma soprattutto alla libera decisione degli stessi uomini.
La conversione per il Regno di Dio comporta, di conseguenza, un ribaltamento. Tutto ciò che nel mondo si oppone alla realizzazione della causa della Vita, sia nell'ordine dei rapporti con Dio (cf per es. Mt 6,7-8), sia in quello dei rapporti degli uomini tra di loro (cf per es. Mc 10,41-45), sia in quello dei rapporti degli uomini con le cose (cf per es. Lc 12,13-21), deve venir cambiato. È importante rilevare che tali rapporti non sono solo individuali o interiori, ma acquistano anche realtà oggettiva nelle istituzioni e nelle strutture create dall'uomo. Si può parlare quindi, in questo senso, di una conversione delle strutture, oltre alla conversione dei cuori.
Conversione significa concretamente, da una parte, eliminazione delle forze di Morte che sono nel cuore dell'uomo e delle forme di presenza della Morte che ci sono nel mondo; dall'altra, loro sostituzione con forze e forme vivificanti. È questa la condizione perché «venga il Regno» (Mt 6,10) di Dio, che è «Dio dei viventi, non dei morti» (Mc 12,27).
La conversione proclamata da Gesù, così intesa nel suo senso pieno, non è altro che l'amore. Un amore compreso però non come mero sentimento, o come mero rapporto interpersonale, ma come forza vivificante l'azione concreta nel mondo (cf 1 Giov 4,7-16).
L'annuncio di Gesù come «evangelo» per l'aspirazione a «vivere» di ogni uomo
È importante mettere ancora in evidenza che l'annuncio di Gesù di Nazaret si presenta come un evangelo o buona novella (cf Mc 1,15).
In un primo senso, in quanto esso viene incontro all'aspirazione più profonda e radicale di ogni essere umano, individuale e collettivo, l'aspirazione cioè a vivere, e a vivere in pienezza definitiva (cf Lc 10,25; Atti 16,30). In questo contesto l'annuncio di Gesù viene a dire che tale aspirazione non è né assurda né vana, ma che ha senso e che può avere una risposta positiva di realizzazione. Anzi, che da parte del Dio Vivente c'è una risposta, e una risposta positiva.
In un secondo senso, in quanto esso si presenta come una proposta alla libertà dell'uomo, singolo e collettivo (cf per es. Mt 19,21; ecc.), e non come una imposizione ad essa (un'imposizione non potrebbe mai essere una buona novella!), dandogli così la possibilità d'impegnarsi responsabilmente nella sua realizzazione. D'altronde, la proposta si presenta con una tale ampiezza, che non solo non elimina né menoma la creatività umana, ma bensì la sollecita al massimo. L'obbedienza di Gesù (cf Mc 14,36; Fil 2,8) non è cieca esecuzione o fatale sottomissione, ma intelligente e creatrice comunione con la causa di Dio.
È anche questa caratteristica di «buona novella» che spiega sia la presa straordinaria della proposta di Gesù su uomini e donne (cf per es. Mc 2,14), sia la gioia di coloro che l'accolgono e la fanno propria (cf Atti passim).
Gesù svela definitivamente il vero volto di Dio
Nel fare la proposta della causa del Regno di Dio, Gesù di Nazaret svela anche definitivamente il vero volto di Dio.
Il Nuovo Testamento lo confessa come «la» Parola di Dio (cf Giov 1,1.18 ecc.). Colui che egli chiama «Abbà» (Mc 14,36), e con il quale si mantiene in intimo rapporto personale (cf per esempio Mc 1,35; Mt 11,25-27) si manifesta, attraverso i suoi atteggiamenti, le sue parole e il suo agire, come assoluta volontà di Vita per gli uomini, e specialmente per i più piccoli, deboli, poveri ed emarginati (cf Mt 5,3-10).
Forte di questa esperienza di Dio, nella sua attività per la causa del Regno Gesù smaschera ogni strumentalizzazione di Dio mediante la quale gli si faccia giocare un ruolo mortificante o oppressivo, sia nell'ambito personale che sociale. A questo fine denuncia i capi religiosi del suo popolo che utilizzano Dio come mezzo di dominio e di sfruttamento dei piccoli (cf Mt 23), e lotta contro una concezione legalista dei rapporti con Lui (cf Mc 2,23-28; 7,1-13; ecc.). Per lui, uomo nato e cresciuto sull'humus della fede del suo popolo, Dio è sempre il Dio dell'Esodo, cioè una potenza liberatrice rivolta all'uomo. Non solo, ma anche un Dio-che-prende-partito in favore di coloro che sono oppressi, sfruttati ed emarginati, e si dissocia da coloro che opprimono, sfruttano ed emarginano.
L'affermazione più alta del Nuovo Testamento, in cui Dio viene confessato come «agape» (I lo 4,8.16), non può quindi essere interpretata all'infuori del quadro di riferimento della causa del Regno annunciata e proposta da Gesù.
La croce e la morte di Gesù espressione suprema di vita per il Regno
Tutte le parole e gli avvenimenti della vicenda di Gesù di Nazaret raggiungono il loro apice nell'avvenimento pasquale (cf Atti, passim).
È in tale avvenimento che «la Vita e la Morte si sono confrontate in un duello prodigioso» (sequenza pasquale). La Pasqua è l'apice della dialettica radicale dell'esistenza umana, e la sua risoluzione in chiave positiva.
Riguardo alla morte di Gesù, occorre rilevare che, prima ancora di arrivare alla sua interpretazione teologica, bisogna prenderla sul serio nella sua realtà storica. È importante non perdere di vista le cause che la provocarono. Fu infatti la coerenza con la causa abbracciata e proclamata, vissuta fino in fondo, che lo portò alla croce. Sono stati coloro che si sentivano scalzati dalla loro posizione di privilegio a spese degli altri a portarlo in tribunale (cf Mc 3,6). E l'accusa sotto la quale lo consegnarono alla morte fu quella di sovversione (cf Lc 23,2) e di bestemmia contro il Tempio e contro Dio (cf Mt 26,61-65).
In questo senso, la sua morte fa vedere cosa significhi credere fino in fondo all'amore assoluto di Dio per la Vita degli uomini, specialmente dei più piccoli e indifesi. La croce non è quindi la «canonizzazione» del dolore umano in quanto tale, ma l'espressione massima dell'impegno concreto per la conversione del mondo in ordine all'avvento del Regno. Essa è la parabola-azione che interpreta la parabola-parola: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Giov 12,24). Gesù in croce è veramente l'Agnello di Dio che porta il peccato del mondo (Giov 1,29). E mette così in evidenza uno degli aspetti costitutivi dell'amore trasformatore.
La risurrezione di Gesù è vittoria totale della Vita sulla Morte
Nell'aspetto luminoso e pieno di gloria dell'avvenimento pasquale, cioè nella risurrezione di Gesù, i discepoli ebbero la piena conferma e la chiarificazione definitiva di ciò che è la causa del Regno proposta da lui: la vittoria totale, nell'uomo, e per di più in un uomo emarginato e impotente, della Vita sulla Morte.
Difatti in Gesù di Nazaret «inchiodato per mano di empi» (Atti 2,23), Dio trionfa pienamente per la prima volta sull'«ultimo nemico» dell'uomo (cf 1 Cor 15,26). «Costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione» (Rom 1,4), egli è ormai Vivo (cf Atti 1,3; 25,19); anzi, «il Vivente per i secoli dei secoli» (Apoc 1,18), e con lui «la Morte non ha più niente a vedere» (Rom 6,9).
È nella risurrezione che i discepoli scoprono ancora in forma totale quale sia l'unica grande Volontà di Dio per gli uomini e per il mondo: che ciò che è avvenuto in Gesù nella Pasqua avvenga nell'Uomo (collettivo e singolo). Lui, il Risuscitato, è «il Primogenito dai morti» (Col 1,18), la «primizia» dell'umanità nuova (cf 1 Cor 15,20.23).
La comunità-chiesa di coloro che vivono per la causa di Gesù
La comunità-chiesa radunata dopo la Pasqua attorno ai Dodici è una comunità che si è convertita alla causa di Gesù (cf Atti 2,37-38).
Essa è una comunità di «discepoli», s'incorpora al suo «movimento», si mette alla sua sequela. Esiste per la realizzazione della sua causa come buona novella, e trova in essa la sua ragion d'essere.
Essa cerca di vivere la causa del Regno nello sforzo di essere «un cuore solo e un'anima sola» e di «avere tutto in comune» in modo che non ci sia nel suo seno nessun bisognoso (cf Atti 2,42-45; 4,32-35). Si sforza anche per approfondirla e coglierne tutte le implicazioni (cf Atti 2,32; 4,33; ecc.). Si impegna per realizzarla in mezzo agli uomini (cf Atti 3,1-10; ecc.). Celebra, specialmente nella frazione del pane (cf Atti 2,42; 1 Cor 11,17-32), la sua progressiva realizzazione. Ne attende attivamente il pieno compimento (cf 1 Cor 11,26; ecc.).
Un aspetto ancora da rilevare: la comunità può fare tutto questo perché ha con sé lo Spirito di Gesù (cf Atti 2,1-21; ecc.), quella forza vivificante che proviene dal Padre e che il Risuscitato comunica loro (cf Giov 20,19-23).
Quali segni di salvezza creano oggi il bisogno di raccontare la storia di Gesù?
Abbiamo iniziato con una prima costatazione fondamentale, finiamo con un'altra, non meno fondamentale: la pastorale della Chiesa nascente racconta una storia, la storia di Gesù di Nazaret, ma lo fa come risposta allo choc suscitato dalla presenza di segni concreti di salvezza (cf Atti 2.3; ecc.). Ciò deve portare la pastorale, e in particolare la pastorale giovanile, a porsi una grossa domanda: quali sono (o saranno) oggi i segni di salvezza che creano (o creeranno) il bisogno di spiegarli raccontando la stessa storia?