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    Un progetto di animazione culturale per superare la crisi del linguaggio giovanile



    Mario Pollo

    (NPG 1981-10-22)


    IL PROBLEMA

    Il linguaggio dei giovani corre il rischio di non porsi come esplosione di un essere verso un altro essere, come apertura difficile, sofferta ma praticabile, ma viceversa di divenire lo strumento dell'implosione, del collasso dell'essere all'interno di un frammento di spazio-tempo in cui è assoluta padrona la soggettività ed i cui confini sono disegnati dei bisogni, primari ed indotti.
    Questo carattere inquietante del linguaggio non si manifesta solo tra i giovani ma anche, seppure in forma più attenuata, tra gli adulti. Infatti il cosiddetto ritorno al privato, la chiusura della gente all'interno dei mondi vitali quotidiani, la difficoltà della ripresa della transazione tra questi ed il sistema sociale, rappresentano di fatto un modello di comunicazione che tende a restringere la propria significatività in un frammento molto ristretto della realtà sociale.

    Sradicamento culturale e implosione linguistica

    La crisi di identificazione dell'uomo contemporaneo nel sistema sociale può essere letta come una crisi di comunicazione e di linguaggio, come paradosso estremo dell'ipercomunicazione, che mentre dilata la quantità della comunicazione la rende inidonea alla transazione, all'apertura verso l'altro.
    Tuttavia anche se quello della comunicazione come implosione appare un dato caratteristico dell'attuale convivenza sociale, occorre rilevare che tra i giovani esso si manifesta con maggior forza e crudezza. Non potrebbe essere diversamente visto che i giovani sono l'oggetto ed il soggetto privilegiato del disequilibrio evolutivo e/o involutivo del sistema sociale.
    Il massimo di espressione questo carattere lo raggiunge laddove il linguaggio accompagna, costituendola, l'azione nichilista del giovane orientata alla propria distruzione e/o alla distruzione dell'altro. Il terrorismo, la violenza, la droga, ecc., rappresentano i casi concreti ed estremi di questo linguaggio che implode verso il nulla invocato e mai raggiunto. Il collasso, l'implosione linguistica come radicale impossibilità della comunicazione e quindi come affermazione della nientità dell'uomo: ecco l'ultima frontiera del nichilismo contemporaneo vestito di strutturalismo. Infatti l'uomo che implode è l'uomo che attraverso il collasso del linguaggio simbolico, cammina verso la indifferenziazione originaria di una materia in cui l'intelligenza dell'essere e della vita non ha ancora posto il proprio ordine. L'angoscia del nichilismo, dell'alienazione fondamentale che si esprime nel terrorismo, nella violenza gratuita, o nella morte della droga sono l'affermazione disperante e disperata che la vita è niente e che la comunicazione come apertura dell'essere, come radicamento dell'essere al di là dei confini spazio-temporali del biologico, è illusione, è simulacro della solitudine del nulla.
    Al di là di questi estremi angoscianti vi è la constatazione di un linguaggio che con molta difficoltà aiuta a mediare il rapporto con la realtà ed a orientare l'andamento alla complessità del sociale, oltre a non aprire ad orizzonti di senso che siano al di là della soggettività qui-ora. Un linguaggio che sempre meno si inscrive nel tempo della storia e nello spazio dell'universale, ma che con una straordinaria potenza mai sperimentata prima, fornisce un possesso non delegato, primario e diretto sulle cose, i sentimenti, le esperienze. Questa potenza tuttavia si ferma nei confini della soggettività e non riesce ad incanalarsi verso la cultura sociale vista come l'attrazione «oggettiva» di valori, modelli di comportamento, tratti della personalità, strumenti... La crisi del linguaggio giovanile è nello stesso tempo causa ed effetto del mancato radicamento dei giovani nella cultura già fatta, nella memoria della comunità e più in generale in quel vasto insieme culturale che è la tradizione. È effetto in quanto nasce anzitutto dalla crisi dei processi formativi che ha accompagnato gli anni più delicati in cui si è svolta la prima maturazione di questi giovani. È causa in quanto si pone come ostacolo, come barriera ad ogni successiva comunicazione intergenerazionale, ad ogni allargamento significativo dello spazio-tempo dei gruppi e dei singoli. Questa constatazione dovrebbe evitare che si attribuisca la crisi del linguaggio e della identità culturale dei giovani ad una sorta di loro presunta perversità, o simili.

    La scelta dell'animazione per ricercare nuovi linguaggi comunicativi

    Il linguaggio imploso può essere considerato anche il sintomo della involuzione di una cultura che ha privilegiato il dominio rispetto al senso, la struttura rispetto alla funzione, il relativo rispetto all'assoluto ed il nulla rispetto al tutto.
    La scienza e la tecnica, strumenti del dominio e del possesso, sono state privilegiate come l'unica forma vera di conoscenza, a loro unicamente è stata attribuita la possibilità della felicità umana, a loro solo la scelta dei mezzi per incrementare la sopravvivenza dell'uomo e di possedere la conoscenza intorno allo stesso agire umano. In questa cultura, che ormai è trascorsa, il racconto, la conoscenza attraverso i simboli, la poesia e l'arte e la stessa religione sono stati viste solo come antidoto ai traumi prodotti nel tessuto sociale dalle innovazioni tecnologiche e dai mass-media.
    In questo stato di crisi della cultura sono convinto che esiste, forse proprio tra i giovani, la via per uscirne, in modo evolutivo e non regressivo. Questa via, che porterà indubbiamente ad una cultura più equilibrata e ricca di senso e ad un linguaggio più capace di esprimere i nessi esistenziali oltre quelli dell'oggettività sociale, può essere favorita da precise scelte di animazione culturale, che intervenendo nei processi può agevolare il riannodarsi della vita dei giovani con la ricchezza delle esperienze esistenziali delle culture che li hanno preceduti.

    I compiti dell'animazione culturale

    Il problema centrale oggi per chiunque si ponga con finalità educative, è fondamentalmente quello di ridare ai giovani la terra, e cioè identità, memoria e tradizione. Infatti essi, più degli adulti posseggono il cielo, e cioè la capacità di declinare il desiderio, di giocare le strutture di significazione, di rispettare se stessi prima di ogni barbarie del sociale. Se il linguaggio giovanile riconverte la forza dell'implosione verso l'esplosione, può produrre una forte spinta alla creazione di una cultura più rispettosa della natura umana. In altre parole si tratta di operare affinché da questo mondo frammentato, fatto di soggettività lontane dagli orizzonti di senso che non siano quelle del desiderio, si sviluppi, oltre ad un nuovo linguaggio, un nuovo modo di impostare le relazioni umane, e quindi di comunicare, che vincendo l'inerzia, la forza di gravità del soggettivo riconnetta il giovane agli altri.
    Una delle molle di questa spinta evolutiva, verso il futuro, non può che provenire che dall'identità del giovane con il passato. Tuttavia perché sia fonte di evoluzione per il giovane, il passato non può proporsi attraverso la acritica assunzione della tradizione come è oggi, né viceversa nel suo rifiuto pregiudiziale. La via che l'animazione deve proporre è quella della assunzione critica della tradizione, assunzione che può anche sfociare nel suo rifiuto a condizione però che prima essa sia stata assimilata e digerita.

    LA NARRAZIONE COME STRUMENTO DI ANIMAZIONE

    L'uso educativo della narrazione

    Il primo strumento dell'animazione nella direzione dell'evoluzione culturale, è costituito dall'uso educativo della narrazione.
    La narrazione della nostra cultura, dominata tanto dallo scientismo quanto dal razionalismo, è stata ridotta ad un ruolo secondario, di svago, di affinamento di sensibilità, di esercizio estetico, lontano dal cuore dei problemi dell'esistenza materiale e spirituale, sociale ed individuale dell'uomo.
    Oltre a tutto poi, per lungo tempo, si è creduto che nei processi formativi l'importante fosse trasmettere delle informazioni, dei valori, dei modelli di comportamento, ecc., utilizzando metodi razionali, più o meno persuasivi, che si imponessero quindi più che attraverso il fascino di evocazioni sentimentali ed emotive per la loro coerenza e per la loro chiarezza. Il principio di una trasmissione che tenesse lontane le barbare e primordiali emozioni, era ed è comune a molte scuole pedagogiche, siano esse democratiche, autoritarie o permissive, o ancora basate sulla ricerca o sulla trasmissione pura. Il primato della ragione logica sulle altre modalità conoscitive è stato ritenuto indiscutibile, pensando che l'unico modo serio per trasmettere una cultura fosse quello dei dati ben sistemati in un impianto concettuale da far fluire secondo certe sequenze, certi ritmi e certe dosi determinate da un piano preciso e scientificamente fondato. In questa pianificazione scientifica della trasmissione culturale, il racconto, la suggestione della comunicazione di esperienze emotivamente coinvolgenti, non poteva avere che un ruolo marginale di tipo sussidiario, comunque di dignità inferiore.

    La dimensione narrativa nell'attuale contesto culturale

    Ora che il clima culturale è mutato ci si rende conto che non tutta la cultura può essere comunicata attraverso il modulo potente ma freddo della comunicazione scientifica e razionale in genere. Infatti comincia a diventare quasi un luogo comune di dire che laddove non si può teorizzare si deve narrare. Infatti una buona lezione di storia criticamente e metodologicamente ben fondata fa incorporare al giovane informazioni, principi di giudizio, schemi di comprensione, ecc., ma non dilata il suo spazio-tempo come invece farebbe il racconto, partecipato, fortemente vissuto di un protagonista di quelle stesse vicende umane. Io posso studiare la storia e rimanere prigioniero della mia soggettività, restare incapace di andare verso l'altro, di aprirmi alle evocazioni che i segni della storia umana lasciano nella cultura, e quindi disperdere quell'enorme patrimonio di energia psichica che non ha sede nell'intelletto ma che consente ugualmente di perseguire la conoscenza e la verità.
    La narrazione può andare oltre il limite della soggettività perché dilata lo spazio-tempo dell'ascoltatore, consentendogli di incorporare l'esperienza vissuta da un altro essere in un altro frammento di spazio. Questo avviene perché il racconto attraverso la sua particolare struttura linguistica, le risonanza affettivo-emotive, le evocazioni simboliche comunica una esperienza nel modo più vivo, coinvolgente e proiettivo che si possa dare nel livello della comunicazione linguistica.
    Nonostante che la potenza della narrazione a livello di trasmissione di esperienze umane e di orientamenti culturali, sia da tempo stata svelata, essa non è ancora stata sistematicamente inserita come modalità privilegiata del radicamento dei giovani nella tradizione del gruppo sociale.
    È giunto invece il tempo di riproporre la narrazione come una delle modalità efficaci a far sì che le isole della soggettività si ricongiungano al sistema e che l'essere, pur non rinunciando alla sua irriducibile individualità, possa ridirsi in un orizzonte più vasto di quello dei mondi vitali quotidiani, dove il senso possa riandare verso la socialità.
    La narrazione deve essere proposta come apertura della soggettività ad un nuovo modo di concepire l'universalità, e quindi l'oggettività del sistema, come risposta efficace alla solitudine dell'uomo contemporaneo. Infatti la frammentazione data dal sistema sociale, in tanti piccoli e belli mondi vitali, non è che un modo nuovo di declinare la solitudine.

    Verso un nuova soggettività che superi la disintegrazione sociale

    La narrazione può rimandare oltre la solitudine in un nuovo modello di convivenza sociale non più fondato sull'unità nell'uguaglianza, ma sulla vicinanza nella diversità e finanche nel conflitto. Sull'accettazione, cioè, dell'esistenza di altri mondi vitali accanto al proprio, estranei e non facilmente leggibili e comprensibili attraverso il dato oggettivo, ma la cui vicinanza solidale può essere sperimentata attraverso la narrazione, e l'esperienza quotidiana riscoperta attraverso la storia della tradizione.
    La vicinanza è il nuovo collante sociale che sostituisce, almeno per ora, l'integrazione al modello astratto, giuridicamente stabilito dal sistema sociale. Questa nuova soggettività aperta dal linguaggio evocativo, simbolico, dotato di profondi sensi esistenziali, non accetta più la delega della ,conoscenza al sistema e la riconverte a sé attraverso nuovi moduli metodologici e linguistici. L'universalità è riconosciuta nella vicinanza e non nella scultorea univocità dei concetti. La soggettività non più essere ricondotta verso l'universale solo dal linguaggio della teoria, della filosofia e della teologia, che sempre accetta la divisione come lontananza e quindi opera per il suo superamento in una sintesi di livello superiore... Occorre un linguaggio che sappia accettare, senza la violenza del superamento, la divisione, il contrasto e la diversità nell'unità e nella vicinanza dell'amore. E cioè la narrazione attraverso gli antichi e nuovi simboli.
    «Ci si può chiedere se, di fronte all'emergere di una nuova soggettività segnata dalla ricerca di un sapere meno definiente e dentro cui si annuncia prepotente il bisogno di universalità e di individualità al tempo stesso, il linguaggio dialettico sia il modulo più adeguato per accogliere l'altro dentro la propria preoccupazione. (...) Qui mi basti sottolineare come il pensiero dialettico implichi sempre il privilegio della divisione come via obbligata alla riconciliazione. Per ciò stesso la forma dialettica del linguaggio tende ad un tipo di interpellanza dell'altro che è diversa da quella privilegiata dal vangelo. Alla base della riconciliazione cristiana non ci sta il "superamento", ma la vicinanza e l'unità che Dio pone in anticipo, prima di ogni ritorno dell'altro, con colui che è ancora lontano».[1]

    Narrazione come utilizzo di linguaggi simbolici

    L'abbandono del linguaggio dialettico di fatto apre alla narrazione. Ad una narrazione però che si svela e radica ad un livello particolare di profondità: quello del simbolo, e cioè di «quella struttura di significazione in cui un senso diretto, primario, letterale designa per sovrappiù un altro senso, indiretto, secondario, figurato che può essere appreso solo attraverso il primo».[2]
    L'apertura conoscitiva che il simbolo realizza trascende il livello della sistematicità concettuale della ragione sperimentale, del conoscere attraverso il possesso, in quanto rimanda al di là degli abituali limiti della vita secondo ragione chiusi nello spazio-tempo della fisica.
    L'esempio del linguaggio simbolico radicato nella narrazione è dato dalla parabola vista come apertura verso un senso attraverso l'evocazione e non l'obiettivizzazione.
    Tuttavia perché la narrazione raggiunga la sua efficacia è necessario presentare una autentica apertura in cui metamessaggio e messaggio convergono verso l'identico orizzonte di significato. Su questo ritornerò più avanti quando parlerò della comunicazione come «relazione educativa».
    Oltre al contesto relazionale è necessario che la narrazione fornisca uno spazio idoneo al fluire dei significati embricati nei simboli, e che, in qualche modo, sono in grado di riconnettere il giovane con le radici culturali, biologiche e soprannaturali. Non si può dare infatti una profonda identità culturale e umana senza la comprensione, conscia o inconscia, dei significati e dei sensi esistenzialmente rilevanti vincolati dai simboli.

    L'UOMO E I SUOI SIMBOLI

    Il privilegio del linguaggio dialettico, razionalizzante su quello simbolico è uno dei caratteri tipici della cultura sociale del mondo della scienza e della tecnica. L'uomo contemporaneo, abitatore della società della scienza e della tecnica, è plasmato da una razionalità basata sulla separazione del destino umano da quello della natura arcaica e profonda, in cui è ancora, volente o nolente, radicato, e del soprannaturale.
    La separazione dell'uomo dalle proprie radici naturali e dalla trascendenza del divino, si manifesta nell'incapacità dell'uomo moderno di padroneggiare e comprendere la dimensione simbolica che permea tutto il suo agire comunicativo. Questo, tra l'altro, ha come conseguenza il paradosso disperante di un uomo che rifiutando il primordiale non-razionale in nome della volontà di dominio razionale su se stesso, di fatto (grazie a questo rifiuto) si rende inabile anche al dominio.

    Per una riappropriazione dell'uso dei simboli

    L'inconscio, o meglio la memoria delle radici bio-psicologiche dell'individuo, grazie al rifiuto razionale dei simboli, si insinua nella vita quotidiana velando e attenuando la razionalità delle decisioni, rendendole razionalizzazioni di motivi la cui regione non è nella ragione. Jung nel suo ultimo scritto, pochi giorni prima di morire, commentava:
    «L'uomo moderno non si rende conto di quanto il suo razionalismo (che ha distrutto le sue capacità di rispondere ai simboli ed alle idee soprannaturali) lo abbia posto alla mercé del mondo sotterraneo della psiche. Egli si è liberato (o crede di essersi liberato) dalla "superstizione" ma in questo processo egli è venuto perdendo i suoi valori spirituali in misura profondamente pericolosa. La sua tradizione morale e spirituale si è disintegrata, e ora egli paga lo scotto di questo suo naufragio nel disorientamento e nella dissociazione generali».[3]

    Conoscenza razionale e conoscenza simbolica

    Ancora Jung arricchisce queste considerazioni spostandole verso il soprannaturale:
    «Quanto più si è sviluppata la conoscenza scientifica, tanto più il mondo si è disumanizzato. L'uomo si sente isolato nel cosmo, poiché non è più inserito nella natura e ha perduto la sua "identità inconscia" emotiva con i fenomeni naturali. Questi a loro volta hanno perduto a poco a poco le loro implicazioni simboliche. Il tuono non è più la voce di una divinità irata né il fulmine il suo dardo vendicatore. I fiumi non sono più dimora degli spiriti, né gli alberi il principio vitale dell'uomo, né il serpente l'incarnazione della saggezza o l'antro incavato della montagna il ricetto di un grande demonio. Nessuna voce giunge più all'uomo da pietre, piante o animali, né l'uomo si rivolge ad essi sicuro di venire ascoltato. Il suo contatto con la natura è perduto, e con esso è venuta meno quella profonda energia emotiva che questo contatto simbolico sprigionava».[4]
    E in un altro punto:
    «Nello stesso modo ciò che prima era lo spirito ora viene identificato con l'intelletto, cessando così di essere il padre di tutte le cose. Esso è degenerato al rango dei limitati pensieri soggettivi dell'uomo e l'immensa energia emotiva espressa nell'immagine del "padre nostro" è svanita nella sabbia del deserto intellettuale».[5]
    Il simbolo, come radicamento dell'uomo nella natura ma anche come apertura dell'uomo al divino, come luogo in cui può formarsi il senso non contingente delle azioni umane ed in cui possono svilupparsi le evocazioni della più antica storia umana. Il simbolo così come emerge dalla citazione di Jung non è contro la ragione, la conoscenza razionale ma contro la totalizzazione di questo tipo di conoscenza.
    Il linguaggio simbolico attraverso le sue evocazioni vuole porsi come completamento della conoscenza e non come sua riduzione al non razionale ed all'emotivo. La seguente citazione aiuta meglio a chiarire questo aspetto:
    «Non possiamo sapere tutto dei santi, dei savi, dei profeti e di altri uomini pii, ma se essi non sono altro per noi che mere immagini di cui non abbiamo mai sperimentato il carattere numinoso, sarà come se parlassimo in sogno, senza conoscere il significato di ciò che diciamo. Le parole pure e semplici da noi usate saranno vuote e senza valore. Esse prenderanno vita e significato solo se cercheremo di afferrare la loro luminosità, cioè il loro rapporto specifico con l'individuo, vivente».[6]

    Il simbolo come deposito di significati esistenziali

    Questa citazione da Jung spero sia servita per dimostrare come da un approccio al problema dell'identità umana emergano con prepotenza le ragioni del simbolo, della necessità che il nostro linguaggio torni a far posto ad esso.
    Da quanto detto emerge poi, come la riscoperta del simbolo non possa avvenire solo al livello del pensiero, razionale o non, ma debba necessariamente ancorarsi ad un diverso rapporto dell'uomo con se stesso, gli altri, la natura e Dio. Un rapporto che, come ho già detto a proposito della soggettività, deve avere il suo centro nella vicinanza e non nella separazione dialettica, nell'accettazione della diversità e non nel tentativo della sua riduzione all'omogeneità. Una vicinanza profonda dell'uomo con il suo prossimo, con la natura e con Dio è la condizione necessaria anche se non sufficiente al recupero del simbolo come dimensione profonda del senso della vita.
    La lettura del simbolo che Jung propone non esaurisce l'area di definizione del simbolo. Infatti oltre alla funzione di riconnessione dell'uomo con la sua parte più arcaica o con il divino, esso esercita quella più modesta, ma non meno significativa, di deposito di significati esistenziali legati alla esperienza storica di una comunità e anche di singoli individui. In questo ultimo caso il significato latente, simbolico di un segno linguistico dovrebbe essere più facilmente evocato che nei casi precedenti. Tuttavia mai attraverso una lettura superficiale o anche Profonda ma solo razionale del testo. In ogni testo linguistico vi sono quasi sempre più codificazioni di senso compresenti a vari livelli di profondità. I simboli possono giocarsi in tutti i gradi di codificazione del senso.

    Il carattere evocativo dei simboli

    L'evocazione dei significati simbolici di un testo o di una espressione verbale può risultare più o meno facile a seconda di come il testo è strutturato. Infatti un testo costruito secondo rigorosi criteri di razionalità, tutto teso ad evitare le ambiguità e le imprecisioni di significato, quasi certamente giocherà tutto il suo significato a livello linguistico, e quindi convenzionale e manifesto, inibendo nell'utente letture di significato più profonde. Viceversa un testo letterario giocherà i suoi significati, più che a! livello linguistico convenzionale, a quelli del contesto culturale, personale e financo archetipo. La «narrazione» da questo punto di vista dovrebbe essere l'esaltazione delle caratteristiche evocative dei livelli di senso latenti tipiche dei testi letterari. Dovrebbe essere anche il luogo in cui il senso «personale», che dagli studiosi viene ritenuto il più debole essendo il meno comunicabile, può in virtù del contesto evocativo della narrazione sperare di superare le barriere della soggettività e trapassare verso l'altro.
    La narrazione dovrebbe poi, se vuole favorire l'evocazione dei sensi profondi che le sono caratteristici, essere lievemente oscura in quanto l'evocazione è tanto più forte quanto il senso letterale è oscuro o raro. Le parole e le frasi troppo chiare non evocano, ma al massimo definiscono un pensiero con molta puntualità e precisione.
    Un esempio può essere dato dalla poesia dove quanto più si cerca di «capirla», «decodificarla» a livello di comprensione linguistica, tanto meno dispiega le sue potenzialità evocative, le sue suggestioni, i suoi nessi esistenziali. Si potrebbe dire che tanto più si cerca di capire una poesia tanto meno la si comprende. Quando ci si accosta ad una narrazione, ad un racconto bisogna abbandonare la pretesa didascalica della comprensione linguistica per svelare la propria disponibilità a lasciarsi percorrere dalle evocazioni, dai rimandi simbolici, dalle emozioni senza motivo. Solo così la narrazione potrà svelare interamente la propria potenza e la propria specificità. Lo stesso discorso, ribaltato vale per chi narra. A volte è meglio essere oscuri ed evocare che essere chiari e definire solamente.
    L'oscurità di una frase può essere il veicolo che ricongiunge le soggettività individuali a ciò che è comune, ed essere strumento di vicinanza e non di separazione. Il linguaggio chiaro, dialettico, a volte invece può separare e ricondurre l'uomo alla prigione della sua solitudine. Non sempre la chiarezza è apertura dell'essere e non sempre l'oscurità è chiusura dell'essere tra le mura della soggettività.

    LA COMUNICAZIONE COME RELAZIONE EDUCATIVA

    Come ho già accennato nelle pagine precedenti, perché la narrazione sviluppi tutta la sua efficacia è decisivo che si svolga in un particolare contesto relazionale in cui siano coinvolti giovani e adulti, educandi ed educatori, persone ed istituzioni. Che dire dunque della comunicazione nella relazione educativa? Richiamo velocemente alcune leggi di questo settore della pragmatica della comunicazione.

    Gli aspetti costitutivi della comunicazione

    Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto ed uno di relazione, di modo che il secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione.
    Ogni comunicazione umana ha cioè un aspetto di «notizia» o contenuto ed uno di comando o relazione: il primo trasmette i dati della comunicazione ed il secondo il modo in cui tale comunicazione deve essere assunta. Il contesto in cui si svolge la comunicazione serve a precisare ulteriormente la relazione, dando un senso più definito al comando.
    Questo assioma della pragmatica pone l'accento sul fatto che la comunicazione diretta, faccia a faccia, tra le persone non può mai essere ridotta al significato puramente linguistico. Infatti il significato complessivo del messaggio è determinato anche dalla relazione e dal contesto in cui si svolge. Da questo si comprende il motivo per cui viene attribuita una grande importanza nella narrazione, vista come apertura verso la cultura sociale e la tradizione, alla relazione. Molti racconti falliscono, non raggiungono l'effetto del superamento della barriera della soggettività a causa del modo e del contesto relazionale in cui si svolgono. La stessa chiusura implosiva del linguaggio giovanile è forse il risultato della incapacità degli adulti di gestire il livello relazionale della comunicazione all'interno dei processi formativi.

    Importanza del contesto relazionale della comunicazione

    La non capacità di gestire gli aspetti relazionali ha una enorme importanza se si accetta l'ipotesi che ogni comunicazione sia sempre, anche se non solo, una invocazione di relazione ed una richiesta di conferma della propria esistenza da parte del comunicante. La mancata risposta a queste invocazioni può produrre effetti devastanti nella personalità culturale e sociale dell'invocante: quando, ad esempio, si risponde in modo convenzionale, stereotipo, o rituale alla invocazione relazionale del giovane, di fatto si mette in moto nei suoi confronti un processo di disconferma della sua esistenza con tutte le prevedibili conseguenze.
    Il modo permissivo di concepire l'educazione ad esempio, è uno dei modi di avviare la disconferma nei confronti dell'educando o del recettore della comunicazione. Disconferma significa negare alla persona l'oggettività, data dall'incontro-scontro dell'individuo con gli altri, della sua esistenza. Un individuo che nel corso della sua esperienza di comunicazione esperimenti la disconferma, vive la sensazione angosciante che le sue parole, i suoi atti comunicativi in genere, invece di andare verso l'esterno ripieghino drammaticamente e dolorosamente verso l'interno del suo essere, laddove non si ha più certezza ma solo angoscia.
    Oltre alla disconferma è estremamente rilevante, ai fini della relazione educativa, la concordanza tra messaggio e metamessaggio per evitare che il contenuto della comunicazione, la notizia, non sia smentita, in un paradosso distruttivo e paralizzante, dalla qualità della relazione.
    Quante volte con le parole l'adulto educatore invia un certo messaggio e poi con il suo atteggiamento (= metamessaggio) nei confronti dell'educando, di fatto smentisce quello che sta comunicando. È questo un potentissimo modo per svuotare le parole, i segni ed i simboli del linguaggio comune. Infatti se l'educando deve scegliere tra il contenuto e la relazione, per la profonda efficacia emotiva, affettiva e tutto sommato esistenziale, attribuirà la verità alla relazione e la falsità ai segni linguistici. Il logoramento del linguaggio storico naturale contemporaneo ha tra l'altro anche le sue radici nei paradossi relazionali, nelle contraddizioni che avvengono lungo la trama dei rapporti di comunicazione del nostro sistema sociale. Non c'è da stupirsi che l'uso del linguaggio come mascheramento, come allontanamento dalla realtà esistenziale produca poi lo svuotamento di senso del linguaggio.

    Efficacia della comunicazione analogica nella relazione educativa

    Solitamente la metacomunicazione (= l'aspetto relazionale) si manifesta attraverso le forme del modulo analogico, di quella forma di comunicazione che l'uomo condivide con le specie animali. La comunicazione analogica è quella che avviene quando si utilizzano i gesti, le inflessioni della voce, le posizioni del corpo, la mimica facciale ed in genere tutte quelle forme di espressione che fanno da cornice, da contesto alla comunicazione verbale o non. La comunicazione analogica non possiede una sintassi, non ha rimandi a pensieri e referenti, ma ha una efficace semantica relazionale. Non c'è nulla di più efficace del linguaggio analogico per esprimere in modo primario e diretto le emozioni, i propri sentimenti nei confronti dell'altro.
    Uno dei disturbi più comuni che avvengono all'interno tanto delle relazioni educative, quanto di quelle sociali in genere è quello dovuto agli errori che si compiono durante il tentativo di tradurre l'analogico nel linguaggio storico naturale.
    Per le diversità costitutive, su cui non mi soffermo, tale traduzione è pressoché impraticabile e quindi l'errore è d'obbligo. L'unico modo corretto di porsi di fronte alla comunicazione analogica è quello di considerarla non una notizia ma una invocazione di relazione che mentre invoca propone anche le modalità secondo cui la stessa relazione deve svolgersi. Invece di cercare di tradurre la comunicazione analogica è opportuno accettare prima la relazione e subito dopo domandarsi se la si accetta come viene proposta o secondo la sua negazione. La risposta alla comunicazione analogica che si svolga secondo queste modalità non è soggetta ad errori, ed anzi si rivela decisiva per il miglioramento della qualità dei rapporti oltre che per la capacità di potenziare le forme diverse di comunicazione che in modo contestuale i comunicanti utilizzano.[7]

    Conclusione

    Le riflessioni che ho qui sviluppato non sono una risposta sistematica di animazione che la crisi di linguaggio e di memoria storica dei giovani sollecita, ma solo la proposta di due percorsi formativi che con altri appartengono alla animazione culturale. Potranno eventualmente essere evocati gli altri percorsi ed il metodo dell'animazione che sino ad ora ho descritto solo implicitamente. Desidero, a conclusione di questo mio intervento, ricordare che animazione è una qualità, un di più che può intervenire nei processi culturali, educativi e socializzanti in cui si tramanda la vita umana, per fare in modo che essi siano sempre più orientati alla libertà, alla verità ed alla partecipazione.


    NOTE

    [1] G. Ruggieri, Riflessioni teologiche in margine alla crisi della soggettività borghese, in Aa.Vv., Teologia e progetto/uomo in Italia, Cittadella, 1980, p. 84-85.
    [2] P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, Milano, 1977, p. 26.
    [3] C.G. Jung, L'uomo e i suoi simboli, Longanesi, Milano 1980, pp. 75-76.
    [4] C.G. Jung, o.c., p. 77.
    [5] C.G. Jung, o.c., p. 76.
    [6] C.G. Jung, o.c., p. 80.
    [7] Questo discorso può essere applicato alla violenza, vista come estrema forma di comunicazione al livello relazionale. Rimando ad un mio breve articolo: Rispondere alla violenza con la gratuità (NPG 1/80, pp. 19-22).


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