Guido Gatti
(NPG 1984-2/3- 46)
IL CARATTERE SOCIALE DEL PECCATO E DELLA RICONCILIAZIONE
Il farsi dell'uomo nella storia si dà, di fatto, solo all'interno di una polarità morale, oggettiva almeno nel senso di non arbitraria, in base alla quale le scelte libere dei singoli o dei gruppi sono e possono venire dette costruttive o distruttive di umanità.
Chiamiamo peccato le scelte gravemente distruttive dell'uomo e della comunione umana.
Nella misura in cui tali scelte frustrano il progetto di Dio sull'uomo e bloccano il flusso del suo amore creativo che è alla base del farsi dell'uomo, si può dire che il peccato è contro Dio, ha una dimensione teologale.
Anche in questa sua decisiva dimensione teologale, il peccato non cessa di essere una realtà della storia. Anche se consumato nel «privato» dell'interiorità più individuale del singolo uomo, esso subisce condizionamenti sociali, sviluppa effetti di natura interpersonale, ha insomma una sua insopprimibile dimensione sociale naturalmente di segno negativo.
Esso è sempre anche distruttivo del farsi collettivo dell'umanità oltre che del singolo, e quindi disgregativo della convivenza umana: è sempre, almeno indirettamente, menzogna che distorce la comunicazione umana, odio che divide, egoismo contagioso, arroganza che umilia, seme di schiavitù.
La distruttività umana, individuale e collettiva, del peccato non è soltanto posteriore, derivata, accessoria rispetto alla sua dimensione teologale. Normalmente il peccato rifiuta Dio solo indirettamente: colpendolo in ciò che vuole e che ama, la piena autorealizzazione dell'uomo nella fraternità e nell'amore. Il peccato raggiunge Dio, starei quasi per dire, di rimbalzo. Ma più giusto sarebbe dire che le due cose sono simultanee e coestese: l'una dentro l'altra, come l'anima dentro il corpo: forse si dovrebbe davvero parlare di anima e di corpo del peccato.
LA DIMENSIONE ECCLESIALE DELLA RICONCILIAZIONE
E in analogia con questa dimensione sociale del peccato che si può parlare di una sua dimensione ecclesiale.
Ed è in rapporto a questa dimensione ecclesiale del peccato che si può parlare della conversione come di una riconciliazione, in senso naturalmente analogo a ogni riconciliazione umana e ricordando che la riconciliazione è solo un aspetto, sia pure decisivo, e non tutta la realtà della conversione.
La conversione è quella lotta contro il peccato che si inserisce nella vittoria pasquale di Cristo; essa è, in un mondo tutto segnato da una misteriosa presenza del peccato e da una solidarietà storica di peccato collettivo, l'unico modo realistico di operare per la riuscita globale dell'uomo e quindi per il Regno di Dio.
Questa conversione è anche riconciliazione: essa è quindi un continuo riannodare i fili del rapporto interpersonale e un ricostruire quella comunione che il peccato continuamente distrugge o rende impossibile.
In forza della rilevanza teologale del peccato, questa riconciliazione interumana è insieme condizione, luogo concreto, gesto efficace di riconciliazione con Dio; questo naturalmente non per la forza dell'iniziativa umana, ma perché all'origine di ogni riconciliazione c'è l'iniziativa divina di riconciliazione, definitivamente vittoriosa in Cristo.
Questa riconciliazione ha nella chiesa una espressione forte di natura sacramentale, cioè un gesto che, meglio di ogni altro, esprime riconciliazione ed opera riconciliazione, in forza della presenza e dell'azione di Cristo.
In questo momento sacramentale di riconciliazione la chiesa svolge una funzione di mediazione sacramentale in senso stretto. Attraverso il suo intervento Dio riconcilia gli uomini al suo amore e ricrea la comunione distrutta dal peccato.
Non bisogna però credere, come si è troppo spesso portati a pensare, che l'ecclesialità della riconciliazione si esaurisca in questa mediazione unidirezionale della chiesa, impropriamente definita in passato con le espressioni di un potere giuridico, quasi che la chiesa, come plenipotenziario di Dio, rimettesse o ritenesse i debiti verso di Lui.
La dimensione ecclesiale della riconciliazione non si esaurisce nella direzione della chiesa verso il penitente.
La chiesa stessa, pur essendo depositaria privilegiata dei doni della grazia e dello Spirito, è fatta di uomini fragili, esposti al peccato ed è quindi tutta quanta penitente. In essa si attua quindi una conversione collettiva che la impegna tutta quanta, proprio come chiesa, comunità di fede e popolo di Dio.
La chiesa aiuta la conversione del credente, la sostiene e la accoglie con il sigillo della assoluzione sacramentale.
Ma a sua volta è convertita dalla conversione dei singoli; nella conversione dei fedeli, è in gioco, attraverso un sottile ordito di influssi reciproci, la conversione o riconciliazione permanente della chiesa.
Questo perché la chiesa è proprio l'insieme dei credenti e la concreta realtà del loro influsso reciproco, sia pure inteso solo all'interno dell'influsso originante e dominante di Cristo.
Parlare di conversione permanente della chiesa è parlare di un processo storico, di un itinerario in cui si dà la possibilità del progresso ma anche del regresso più o meno grave.
Alla chiesa è assicurata l'indefettibilità nella fede, non l'impeccabilità: non ci sono «arpionismi» che blocchino la possibilità di giri all'indietro, nella sua fedeltà pratica alle esigenze del vangelo.
Il singolo credente porta avanti il suo lungo e magari ancor più tortuoso itinerario di conversione, di lotta contro il peccato «inabitante» e la solidarietà che lo lega al peccato del mondo, solo all'interno dell'itinerario di continua conversione della chiesa, di cui esso è un momento, di cui subisce l'influsso ma su cui a sua volta influisce.
È un itinerario di tutta la vita. Ma spesso ha i suoi momenti cruciali, se non altro perché momenti di crisi, durante l'adolescenza e la giovinezza.
È di questo itinerario che intendiamo parlare per metterne in risalto alcune dinamiche di carattere educativo.
LA RILEVANZA EDUCATIVA DELL'ITINERARIO DI RICONCILIAZIONE
E infatti, il reciproco influsso per cui ognuno nella chiesa è aiutato, oppure ostacolato, nel suo itinerario di riconciliazione, può essere chiamato, almeno in senso largo, influsso educativo.
Nella catechesi e nella pastorale penitenziale, che conduce e prepara al sacramento della riconciliazione, nel sacramento stesso, ma anche in molti altri momenti della vita della chiesa, ogni credente educa ed è educato a una riconciliazione che non potrebbe esistere come fatto solo individuale o religioso, cioè rivolto solo a Dio, nel cuore della propria interiorità.
La solidarietà educativa nella riconciliazione
Siamo legati nella chiesa da una solidarietà di tipo educativo, per cui crediamo, ci convertiamo, preghiamo, facciamo comunione, solo sempre influenzandoci a vicenda.
Naturalmente come ogni altro influsso educativo anche questo è spesso molto di- simmetrico .
I santi, ad esempio, hanno sempre nella chiesa una efficacia educativa privilegiata: essi sono per gli altri credenti come una profezia vivente, un nucleo dinamico di riconciliazione. Anche coloro cui è affidata nella chiesa il ministero di presiedere alla comunione ecclesiale, di certificare l'unità della fede e di annunciare con l'autorità di Cristo il suo messaggio di riconciliazione e di salvezza, hanno responsabilità educative particolari.
Esse vengono esercitate soprattutto nel sacramento della riconciliazione ma segnano di sé tutta la diaconia pastorale nei confronti della comunità ecclesiale.
Accanto alla gerarchia, ogni fedele a cui sono affidati nella chiesa compiti di educatore della fede e di operatore pastorale è anche un educatore privilegiato della riconciliazione.
Tutta la vita della chiesa è conversione e riconciliazione.
Appello alla riconciliazione è l'evangelizzazione: essa ripete ai vicini come ai lontani l'annuncio e l'ammonizione di Cristo: «Il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo. Lasciatevi riconciliare a Dio».
Momenti di riconciliazione e di conversione sono la liturgia e la celebrazione di tutti i sacramenti, in particolare dell'Eucaristia che rinnova il patto dell'Alleanza nel sangue di Cristo e riconcilia i credenti con Dio e nella fraternità ecclesiale attorno alla mensa del corpo e del sangue di Cristo.
Momento di riconciliazione è l'azione caritativa della chiesa che impegna i credenti a superare l'egoismo, causa ultima di ogni peccato, e ad attuare una riconciliazione reale che abbatta l'ingiustizia e l'oppressione e tutte le obiettive contrapposizioni di interessi, di ideologie, di classi e di razza che dividono l'umanità.
Lotta contro il peccato è l'educazione della fede, nella sua dimensione operativa, quindi l'educazione morale con cui la chiesa forma la coscienza dei credenti, favorendo l'interiorizzazione delle norme, l'adesione libera ai valori, la crescita di una giusta autonomia morale, la capacità di vivere con coerenza e in modo personalizzato il progetto cristiano di vita.
Il posto del sacramento della penitenza nell'azione educativa
In questa multiforme e comunitaria azione educativa, il sacramento della riconciliazione e tutta l'azione pastorale che lo prepara e lo inquadra, occupa naturalmente un posto privilegiato. In essa opera, con l'efficacia educativa della grazia, il maestro interiore dell'anima che è lo Spirito Santo.
Non dobbiamo avere paura di vedere nella confessione e nel suo retroterra pastorale una realtà educativa. Questo non significa strumentalizzare i sacramenti: tutti i sacramenti hanno una loro particolare efficacia educativa che specifica e qualifica la grazia sacramentale che essi conferiscono: così il battesimo, con la sua struttura tipica di rito di iniziazione alla fede, educa gli atteggiamenti fondamentali della fede.
Così la cresima, sigla l'educazione della fede, formandone la fortezza e la maturità. L'eucaristia, unendoci intorno a Cristo, parola e pane, educa la fraternità cristiana, fondata sulla comune unione a Cristo e forma il senso religioso cristiano, fondato sull'adorazione del Padre in spirito e verità.
Il sacramento della riconciliazione educa, in modo privilegiato e specifico, il senso della conversione permanente; esso conferisce, insieme alla grazia del perdono, una grazia di educazione morale che è parte integrante della liberazione del peccato, in quanto liberazione reale e non puramente fittizia. Tutta la sua struttura è orientata a questa efficacia educativa.
Quando parlo della dimensione educativa inerente alle strutture del sacramento della confessione, descrivo una situazione di fatto imperfetta e insieme affermo l'esigenza di una coraggiosa riforma, che le renda più efficacemente educative della conversione e della lotta contro il peccato. Ma il sacramento, comunque celebrato, avrà sempre e comunque bisogno di tutta una azione educativa previa, di una adeguata pastorale di iniziazione. Esso sarà tanto più efficace quanto più affonderà le sue radici in una seria e diuturna pedagogia pastorale della riconciliazione.
Di questa pedagogia pastorale vorrei indicare qui alcuni dinamismi tipici, collegati in qualche modo con la stessa realtà teologica della riconciliazione e della conversione, anche se operanti, in modo più generale, a ogni livello dell'educazione e soprattutto dell'educazione morale.
L'APPELLO ALLE ENERGIE DI BENE DELL'EDUCANDO
Il primo dinamismo su cui può e deve puntare ogni educatore che voglia far percorrere all'adolescente o al giovane un itinerario di conversione è quello dell'appello alle interiori energie di bene del soggetto stesso.
Si tratta di partire dalle reali potenzialità di crescita del giovane (ma la cosa vale anche per il fanciullo e per l'adulto), tenendo realisticamente conto dei suoi limiti, almeno per il momento insuperabili, camminando insieme con lui, a quel ritmo che gli è concretamente possibile, proponendogli solo quelle mete che sono veramente alla sua portata.
Il principio della gradualità
Oggi si parla molto del principio di gradualità. E mi pare abbastanza pacificamente accettata l'idea che ogni educazione morale e quindi anche l'educazione della riconciliazione e della conversione permanente debba ubbidire a quella strategia di gradualità e di condiscendenza che secondo la Dei Verbum è la stessa strategia della pedagogia di Dio.
E da tempo, l'applicazione del principio di gradualità rende meno tormentoso per il confessore e meno frustrante per molti penitenti la pratica della confessione, soprattutto per quanto riguarda i settori della morale sessuale e coniugale.
Bisogna però dire con molta chiarezza che la gradualità e la condiscendenza non possono assolutamente diventare un alibi per il disimpegno morale e per la resa incondizionata al peccato. Con-discendere significa scendere al livello dell'educando, solo per farlo salire. L'appello alle energie interiori del soggetto, presuppone un onesto, realistico ma anche ottimistico inventario delle medesime.
E un ottimismo che sa guardare al soggetto con amore, senza prevenzioni, con la fiducia così tipica di D. Bosco che non ci sia giovane, per quanto corrotto, volitivamente denervato, psicologicamente ferito, ideologicamente accecato, in cui non sia restata una qualche forma di aggancio all'appello di Dio.
Ci sono limiti alla libertà umana, probabilmente più tragicamente estesi di quanto abitualmente pensiamo, e che la psicologia ci aiuta a scoprire e quindi a rispettare per non esporre il soggetto alla frustrazione, allo scoraggiamento e magari all'abbandono.
Valorizzare le energie umane reali
Ma ci sono anche preziose energie nascoste, che solo una ricognizione piena di fiducia e di amore è in grado di scoprire allo stesso soggetto. Queste energie si devono mobilitare.
E non parlo qui della grazia, che presuppongo, e che comunque non ritengo categorialmente operante al livello dei dinamismi psicologici di superficie, che la psicologia può inventariare e la pedagogia mettere in azione.
Non è il caso di pensare all'efficacia della grazia come a quella di uno psicofarmaco o di una qualche tecnica di psicoterapia. Parlo qui delle energie umane reali, dotate di una esistenza psicologicamente comprovabile: parlo, ad esempio, del senso dell'onore, della capacità di rispondere con fiducia a chi dà fiducia, delle forme migliori, magari latenti, di affettività, della capacità di ragionare, di ripensarci, di riconoscere i propri errori, di amare la vita e così via all'infinito.
È in queste energie e attraverso queste energie (diverse per ogni soggetto) che opera la grazia. Su queste energie è chiamato a scommettere l'educatore.
È stato detto che la legge della gradualità non deve significare una qualche gradualità della legge.
Questo significa che il carattere progressivo e graduale dell'itinerario personale e collettivo della riconciliazione non mette in questione il carattere oggettivo della polarità bene-male, dentro cui questo itinerario si compie, e da cui esso viene giudicato. Questa polarità è costitutiva della stessa verità dell'uomo, deriva dalla sua creaturalità e non è disponibile da parte dell'uomo. Se l'uomo è un essere progettuale lo è solo a partire da una fattualità che è anche un pre-orientamento, di cui è costituito e con cui deve comunque fare i conti.
Si cammina verso il bene solo lentamente e magari non senza arresti e involuzione, e di questo l'educazione e la pastorale devono essere pienamente consapevoli, ma il bene e il male restano quello che sono dalla loro oggettività siamo giudicati, di essa non siamo padroni.
UN AMORE ACCOGLIENTE E INCONDIZIONATO
Accanto a questo primo elemento fondamentale di ogni strategia educativa, un secondo dinamismo o interazione educativa specifica, a giudizio di molti esperti, svolge un'efficacia decisiva nella strutturazione della personalità, soprattutto in campo morale, e quindi anche nell'educazione alla riconciliazione e alla conversione permanente: si tratta dell'esperienza tempestiva di un amore incondizionatamente accogliente.
È un amore simile a quello di Dio, capace di promuovere la vita, di donare l'essere, oppure modellato su quello dei genitori, decisivo per la formazione di quella fiducia di base che è l'energia portante di tutto l'itinerario morale di una vita.
La fede è per il cristiano appunto una certa esperienza, sia pure ancora aurorale o avvolta nel mistero, dell'amore incondizionato con cui Dio ci ha accolto in Cristo. È solo alla luce di questa esperienza dell'amore incondizionato di Dio che il peccato rivela qualcosa della sua terribilità ignota.
È sull'onda di un simile amore che il credente può passare dal sentimento infantile o adolescenziale di colpa al vero senso cristiano del peccato.
È la nostalgia di questa esperienza a far nascere nel peccatore il desiderio di tornare alla casa del Padre, con la fiducia c non essere respinto.
È al calore di questo amore accogliente che si alimenta la volontà di ricominciare sempre da capo a diventare uomini nuovi.
La chiesa come testimone dell'amore accogliente di Dio
La chiesa è chiamata ad essere annuncio e testimonianza credibile di questo amore in tutta la sua vita e in tutta la sua pedagogia di fede. Il lontano che l'accosta, per la prima volta in assoluto o anche solo dopo una lunga assenza, dovrebbe trovare in lei l'accoglienza di un simile amore.
Amore incondizionato non significa qui un amore indifferente, tollerante e privo di esigenze. L'amore di Dio diventa presto coinvolgente fino alla gelosia, ma non mette condizioni previe per decidersi ad amare; è sempre pronto a ridare tutta la sua fiducia e il suo sostegno.
L'amore incondizionato e accogliente è una versione in termini familiari del concetto teologico di amore preveniente. Tutto il discorso sulla riconciliazione, la sensibilizzazione della coscienza al senso del peccato, l'invito alla conversione, la guida e l'aiuto nell'itinerario del ritorno a Dio e alla verità morale deve partire dall'annuncio e da una qualche esperienza di questo amore.
Esperienza dice percepibilità: non mi nascondo le difficoltà che si incontrano in un simile annuncio quando si può parlare del sacramento dell'amore misericordioso, quasi solo con il linguaggio e le categorie logiche della giurisprudenza forense. È chiaro che la teologia è chiamata qui a uno sforzo di ripensamento e di riformulazione abbastanza radicale.
Le mediazioni dell'amore accogliente
Ma la percepibilità dell'amore di Dio è legata anche alla mediazione dell'amore materno della chiesa. Ci dovrebbe essere posto per una maternità-paternità nella chiesa, che dovrebbe essere il carisma tipico di coloro che gestiscono l'autorità, ma anche di coloro che sono in qualche modo coinvolti nell'azione educativa e pastorale.
Questa maternità-paternità caratterizza tutta la pedagogia dell'accompagnamento che conduce, quando ci riesce, alla celebrazione sacramentale della gioia del ritorno.
Qui tocca al confessore, nel dialogo penitenziale, trasformare il momento della confessione in un momento di gioia e di gratitudine. L'atteggiamento tipico del sacerdote confessore è sempre e comunque quello di un amore accogliente: anche quando dovesse dire dei «no» (o dei «non ancora»), e non sarebbe amore tacerli, anche allora dovrà far vedere che essi sono stati preceduti dal più grande e amorevole sforzo di comprensione, che essi lasciano intatta tutta la stima, il rispetto della persona, che Dio continua ad amare di un amore irrefragabilmente fedele.
Naturalmente ancor più incomprensibili e ingiustificate diventano certe inutili durezze, certe facilità di giudicare, di escludere, di discriminare, che contrassegnano certi modi infelici di fare chiesa e costituiscono a volte le insufficienti retrovie della celebrazione; le responsabilità di certi gruppi e di certi uomini di chiesa nella lontananza dei così detti «lontani» sono almeno oggettivamente gravi.
UNA TESTIMONIANZA LEALE DELLA VERITÀ
Un altro dinamismo educativo da prendere in seria considerazione è la presentazione della verità morale e della verità del peccato e della riconciliazione.
Presentare vuol dire qui testimoniare umilmente ma coraggiosamente ciò in cui si crede, la verità che ci pervade e a cui in qualche modo ci siamo consacrati, come araldi disinteressati e devoti.
Questa verità ci mette di fronte, disarmati, alle esigenze estremamente serie del vangelo; oppone alla continua tentazione di giustificare il compromesso, il no risoluto e impreteribile del comando di Dio; ci addita le mete ideali, della virtù indefinite nella loro direzione positiva, vincolanti nei loro confini negativi.
L'educatore della fede come testimone scomodo
Con questa testimonianza l'educatore della fede sa di accusare prima di tutto se stesso; per questo è una testimonianza umile Essa accusa indistintamente ogni uomo di peccato, sia pure solo per chiamarlo alla grazia della conversione: Dio ha racchiuso tutti nel peccato, per avere misericordia di tutti.
La verità morale, anche quando assume la forma esterna di una legge e viene magari interpretata con le astuzie del casuismo, non può mai essere usata per mettere al riparo dalle esigenze della santità di Dio. Una testimonianza concorde e coraggiosa della verità morale del vangelo è componente essenziale di ogni educazione alla conversione permanente. Nessuno nella chiesa è padrone di questa verità, nessuno la può manipolare a suo uso e consumo, nessuno deve sottometterla alle mode culturali del momento e al conformismo dell'opinione dominante.
Naturalmente si deve anche dire che nessuno ne possiede il monopolio e nessuno è mai esentato dal dubbio, dalla ricerca, dal confronto, dall'ascolto umile e sincero di ogni suggerimento, di ogni forma di sapienza morale anche solo umana. Più di ogni altro l'educatore, e a questo livello lo è sempre anche il teologo e il pastore sia pure in modi e a titoli diversi, deve essere disponibile alla voce dello Spirito, che parla anche attraverso i segni dei tempi, se pure con un linguaggio non così univoco e facile da decifrare come qualcuno vorrebbe far credere.
A questa umile ma coraggiosa testimonianza sono particolarmente tenuti i sacerdoti confessori: le loro contraddizioni, i loro arbìtri, il loro frequente giocare a nascondino con certi aspetti scomodi e impopolari della morale cristiana, o all'opposto, le loro arbitrarie durezze tuzioristiche rappresentano oggi uno scandalo, che contribuisce ad allontanare i fedeli dalla confessione.
L'oggetto della testimonianza
Oggetto di questa testimonianza sono anzitutto gli «eventi fondanti» e significanti dell'impegno morale cristiano; e quindi l'evento Cristo e il suo mistero pasquale.
Per questo si può giustamente dire che la verità morale cristiana deve prima esseri narrata che teorizzata ed espressa in forma dottrinale.
Vengono poi i valori morali e soltanto come necessaria attuazione e difesa dei va lori; vengono alla fine le norme.
Si dice giustamente che c'è una gerarchia di importanza tra i dogmi della fede. Così si deve dire che esiste una gerarchia sia all'interno dei valori che delle norme della morale cristiana. La testimonianza educativa deve rispettare quest'ordine.
L'incontro con la verità morale del cristianesimo può essere autentico, se comincia con la morale sessuale o con i precetti della chiesa? E non è forse proprio queste quanto avviene di solito, anche per la nostra ignoranza dei meccanismi occulti che governano le leggi della comunicazione sociale?
Questo non significa che si deve positivamente nascondere una qualche parte della verità, soprattutto se l'interrogativo su di essa è già emerso, chiaro e pressante, alla coscienza del fedele. Ma fa parte della verità anche la gerarchia della verità. La verità va testimoniata non solo con la gradualità imposta dall'itinerario di ricerca personale del soggetto, ma anche con quella che corrisponde all'ordine oggettivo della sua fondamentalità.
La verità circa il ruolo della coscienza
Tra le verità che non devono essere nascoste vi sono naturalmente quelle che riguardano il ruolo della coscienza e il sue rapporto con la norma morale oggettiva. Si deve dire con coraggio che alla coscienza spetta l'ultima parola, cioè il giudizio ultimo che precede immediatamente la decisione morale; ma si deve anche dire che la coscienza non è per questo legge a se stessa. Essa ha certamente anche dei compiti progettuali, ma la struttura fondamentale del suo funzionamento resta quella del riconoscimento di una verità che la trascende, che essa è tenuta a cercare con assoluta sincerità, perché è sulla base della sincerità di questa ricerca che sarà alla fine giudicata.
La testimonianza della verità morale non è mai violenza alla coscienza. Chi testimonia non impone la sua verità, espone le sue convinzioni con l'intenzione di aiutare e di salvare, non di evincere o di sopraffare; ma rende conto portando le ragioni, che ordinariamente non potranno essere solo di autorità, perché è della natura della verità morale di essere una verità ragionevole, e non una intimazione arbitraria.
Quando non riesce a convincere, non se ne meraviglia, tenuto conto della oggettiva difficoltà intellettuale di certi punti dell'insegnamento morale cristiano, e delle oscurità e lentezza dell'intelligenza umana, in un campo in cui essa sente il peso del peccato; sa rispettare comunque il dissenso, lo presume sincero, perfino quando avrebbe qualche motivo per sospettare il contrario, sa continuare il dialogo, mantenere la stima.
Per quanto preoccupato di trasmettere intatta una verità che crede essere rilevante per la salvezza, l'educatore della fede non ricorre mai all'imbonimento o al plagio, non fa valere la sua superiorità intellettuale, come arma sleale di discussione.
La testimonianza della verità ha come scopo la trasmissione di una dottrina ma non è per questo un indottrinamento.
Essa non ricerca l'accettazione passiva, da parte dell'educando, di nozioni estranee alla sua esperienza e storia di vita, ma l'assimilazione vitale, sia pure molto lenta e graduale, la convinzione autentica e l'adesione sincera.
Ogni pressione psicologica, ogni prevaricazione dialettica, ogni tentativo di persuasione occulta ottiene solo risultati provvisori e illusori.
Quello che l'educatore si propone è una crescita di libertà. Solo una coscienza adulta, perché libera e consapevole, è capace di un senso di colpa maturo e di un atteggiamento di conversione autentico.
Educare alla riconciliazione è sempre anche educare a una maggiore libertà; educare a passare dalla soggezione forzata a una legge, alla libertà e alla spontaneità dell'amore.
IL DIALOGO
È a questo proposito che si deve parlare di un dinamismo educativo strettamente legato alla testimonianza della verità, di cui potrebbe in fondo considerarsi solo una modalità se pure essenziale: il dialogo.
Il senso del dialogo rituale
Faccio notare come nella confessione sacramentale, il dialogo in quanto tale entra a far parte essenziale del segno sacramentale. C'è in tutti i sacramenti un certo dialogo rituale, predeterminato dal copione liturgico, e comunque non costitutivo di ciò che è essenziale nel segno sacramentale. Il dialogo penitenziale invece è un dialogo vero, aperto.
Ciò che dice il penitente non è già scritto da nessuna parte eppure è espressivo e costitutivo di atti (i cosiddetti atti del penitente) che fanno parte dell'essenza del sacramento.
Il sacramento è celebrato insieme dal penitente e dal sacerdote confessore, in un dialogo aperto, riferito alla vita di tutti i giorni e chiaramente contrassegnato da finalità educative. Il confessore è nella chiesa colui che per eccellenza educa le coscienza: e come ogni buon educatore si lascia coinvolgere personalmente nel dialogo educativo fino a venirne educato lui stesso. Quello che vale per la celebrazione sacramentale deve valere a maggior ragione per tutto l'itinerario di riconciliazione, di cui la celebrazione è il momento forte e una tappa privilegiata.
In ogni caso un dialogo fatto di «dare» e «ricevere»
Viviamo in un mondo in cui l'unica forma di testimonianza della verità, che ha una qualche probabilità di essere accolta con attenzione e libertà da pregiudizio, non è quella che viene predicata dai pulpiti, ma quella che viene offerta in un dialogo alla pari, in cui colui che crede di avere qualcosa da insegnare a qualcuno è anche disposto a imparare da lui o almeno a lasciarlo parlare e a prestargli onesta attenzione.
Del resto la verità della cui efficacia educativa abbiamo parlato finora è la verità dell'uomo in Cristo; per quanto dotata di una sua consistenza oggettiva che non deve essere tradita, essa vive dentro l'uomo, dentro ogni singolo uomo in maniera irripetibile ed originale prima che nelle formule o sui manuali. La si impara dal di fuori, attraverso l'annuncio, ma la si verifica dal di dentro attraverso l'esperienza. E questa verifica esperienziale, sempre unica e originale, interagisce con l'annuncio, in un intreccio vitale che dà la forma del dialogo a tutta la nostra crescita nella fede.
Chi annuncia non ripete una lezione, ma confronta un messaggio (che egli sa capace di illuminare ogni esperienza umana) con una esperienza concreta, che non è del tutto identica alla sua personale, che pure si riflette inconsapevolmente nel suo annuncio. L'esperienza dell'educatore e dell'educando (e ognuno dei credenti ricopre tutte e due i ruoli nella chiesa) comunicano tra di loro attraverso il dialogo, comunicando si allargano, si arricchiscono e diventano più autentiche.
È questo il significato più vero dell'accusa dei peccati, troppo spesso erroneamente confusa con un adempimento umiliante, imposto come condizione arbitraria, in forza della sua penosità, come momento di espiazione.
Ma all'interno della comunità ecclesiale ogni rapporto educativo, duale o plurale che sia, il dialogo, in quanto comunicazione tra esperienze di fede, già almeno inizialmente raggiunte dall'amore accogliente di Dio in Cristo, è sempre anche una forma di educazione alla conversione.
Nel dialogo, ognuno scopre se stesso segnato dal peccato e bisognoso della misericordia di Dio e del perdono dei fratelli, ma ognuno scopre anche i motivi che fondano la sua speranza in questa misericordia e in questo perdono.
Un'ultima osservazione dobbiamo fare qui a proposito dei dinamismi educativi che, come la testimonianza della verità e il dialogo, comportano la trasmissione di un messaggio: essi sottostanno alle leggi generali della comunicazione e del linguaggio. Sono leggi che si devono rispettare se non si vuole creare il travisamento e il malinteso.
Non possiamo negare che il linguaggio della teologia morale, e di riflesso quella della direzione spirituale, della pedagogia penitenziale e perfino quello della catechesi sono troppo spesso lontani dal linguaggio corrente della gente ma anche da quello dei dotti e delle cosiddette persone di cultura.
Superare questo distacco semantico, indubbiamente non può essere solo un compito della pastorale e della catechesi, ma anche e forse primariamente della teologia.
UNA DISCIPLINA AMOREVOLE MA FERMA
Il dover fare i conti con la verità morale oggettiva, che ci giudica e che non possiamo padroneggiare, comporta d'altra parte la necessità di una disciplina penitenziale che scandisce le tappe e giudica la serietà e l'autenticità dell'itinerario penitenziale.
Il ruolo educativo della disciplina penitenziale
Sappiamo tutti che la pedagogia e la psicologia sono oggi più diffidenti di qualche anno fa nei confronti di un certo permissivismo educativo e di una certa pedagogia della gratificazione, e tendono a rivalutare il ruolo educativo di una disciplina ragionevole, amorevole ma anche ferma.
Si tratta peraltro di una disciplina che ha la sua efficacia massima solo nei primissimi momenti dell'educazione, e che deve in seguito essere gradualmente personalizzata, facendo ragionare e possibilmente consentire, coloro cui viene ancora domandata. Non è di questa disciplina, pure necessaria per la costruzione di alcune disposizioni premorali, che condizionano tutta la successiva educazione morale, che noi intendiamo qui parlare.
Qui parliamo di una disciplina che è inerente per logica di cose all'itinerario della riconciliazione e che viene imposta, dico imposta, non solo al bambino ma anche al giovane e all'adulto, come condizione della piena riconciliazione sacramentale con la chiesa.
Una disciplina del genere c'è sempre stata nella chiesa ed era in passato anche molto più esigente di quanto non sia oggi. L'itinerario stesso della riconciliazione è stato spesso chiamato con il nome di disciplina penitenziale.
L'espressione più dura di questa disciplina sono le imposizioni anche molto esigenti che il confessore deve rivolgere al penitente come condizione per poter dichiarare con la parola efficace dell'assoluzione sacramentale sostanzialmente concluso l'itinerario della riconciliazione ecclesiale.
E una eventualità non irreale anche se drammatica.
D'altronde non credo che sia segno di responsabilità, da parte di un confessore, il proposito di concedere l'assoluzione a chiunque, comunque e in ogni caso. Egli si trova di fronte a una verità di cui non è padrone e di cui non può disporre a volontà. Notiamo che questa verità non è quella puramente interiore del rapporto tra il penitente e Dio, su cui egli non è chiamato a giudicare. Tanto meno si tratta di concedere o di negare qualcosa che è solo di Dio concedere o negare.
Egli è chiamato a prendere atto di un rapporto oggettivo e constatabile: quello tra una coscienza e l'insegnamento morale del vangelo, quello tra una vita non puramente interiore ma oggettivata in comportamenti e scelte precise da una parte, e un itinerario ugualmente fatto di tappe oggettive e percepibili dall'altra.
E questo rapporto ciò su cui il confessore è chiamato ad applicare il dinamismo educativo della disciplina penitenziale; ed è in base all'oggettività di questo rapporto che egli è costretto in coscienza a dire a volta dei «non ancora».
La disciplina è esigita dalla natura della riconciliazione
Il popolo di Dio, soprattutto i giovani, è facilmente portato a dimenticare la portata educativa di questa disciplina, il suo carattere oggettivo e vincolante per forza di cose, e a vederci qualcosa di arbitrario e perciò inutilmente odioso. Ancora una volta una parte di responsabilità deve essere probabilmente attribuita alle categorie giuridiche con cui essa viene presentata e giustificata.
Il diritto è una componente necessaria della convivenza umana e nel diritto c'è sempre un insuperabile margine di arbitrarietà che ha una sua funzione positiva: rendere precise e perciò attuabili le esigenze più indeterminate dell'equità naturale. Ma il rapporto tra Dio e l'uomo non può essere adeguatamente espresso da categorie giuridiche; in esso non c'è posto per altra arbitrarietà che quella dell'amore gratuito di Dio. Se questo amore impone una disciplina, essa non ha nulla di arbitrario: è la disciplina esigita dalla logica stessa delle cose, in questo caso dalla logica dell'amore.
Se la divisione operata dal peccato fosse soltanto un «malinteso», la riconciliazione potrebbe benissimo ridursi a un generico «non pensiamoci più», che non esige altra condizione che la magnanimità di chi lo pronuncia.
Se le cose stessero così, davvero le condizioni imposte dalla chiesa sarebbero un arbitrio, che contraddirebbe alla magnanimità di Dio.
Ma la divisione operata dal peccato è qualcosa di ontologico; il peccato distrugge settori vitali della realtà umana, il tessuto vivente della comunione interpersonale. Non può essere riaggiustato da un accomodamento di forma.
Per riconciliare chi è diviso dall'ingiustizia, dall'odio, dalla sopraffazione, dall'oppressione, dalla menzogna, occorre realizzare condizioni oggettive di amore, di giustizia, di liberazione, di verità. Non mi riconcilio con chi ho defraudato, derubato, ferito nell'onore, semplicemente dicendogli: vogliamoci bene.
Non si può dire: ti sei convertito, ti sei riconciliato, sei pienamente tornato alla comunione con la chiesa e all'amore del Padre, a chi è ancora per la strada e gli mancano tappe essenziali da percorrere.
Non sarebbe un educare ma un ingannare, un illudere pericolosamente, un invito alla soddisfazione intempestiva e quindi al disarmo.
Certo che la disciplina imposta dalla chiesa per il compimento dell'itinerario penitenziale, deve essere davvero solo quella intrinsecamente esigita dalla natura stessa della riconciliazione e della conversione, cioè dalla verità delle cose, dall'urgenza severa dell'amore geloso del Dio vivente. E questo legame tra la disciplina, che la chiesa afferma e impone al penitente, e la verità della riconciliazione e quindi la logica delle cose, deve in qualche modo poter essere dimostrabile e deve di fatto essere mostrata a colui al quale viene imposta. Qui l'educazione della fede non può permettersi di essere evasiva. Anche se potrà essere molto difficile per il confessore giustificare certe severe esigenze della disciplina penitenziale della chiesa, nei pochi minuti dell'attuale dialogo penitenziale, che non possono certamente sopperire le gravi lacune di quella che dovrebbe essere la normale catechesi della chiesa.
IL DINAMISMO EDUCATIVO DELL'IDENTIFICAZIONE
Un ulteriore dinamismo educativo da prendere in considerazione mi sembra quello della identificazione.
Tutti subiamo l'influsso inconsapevole di modelli viventi, cui ci assimiliamo idealmente, e di cui cerchiamo di riprodurre i tratti nella nostra personalità. Naturalmente la condizione è che il modello sia valido e credibile.
In che senso parliamo di identificazione?
L'influsso dell'identificazione non è quello superficiale ed esteriore di un mimetismo materiale; l'identificazione provoca una vera e profonda assimilazione interiore di valori, di convinzioni, di assetti emotivi, di tratti della personalità e del carattere.
L'identificazione non è quindi lo stampo, in cui si cala il gesso, per fare una brutta copia della statua originale.
Essa opera con i dinamismi tipici dei viventi, costruendo la vita dal di dentro, starei per dire, come il DNA di un embrione, che ha in sé il segreto della costruzione di tutto l'organismo vivente. L'identificazione opera spesso, e magari in forma anche più efficace, in modo inconsapevole, sull'onda dell'affinità o della simpatia, della sintonia emozionale.
Per questo, di tutti i dinamismi educativi, è uno dei più ambigui e facilmente utilizzabili per la manipolazione e il plagio, invece che per la costruzione di una personalità. Ma c'è un momento della vita in cui essa assume il ruolo dinamismo-educativo-guida, ed è l'adolescenza; e comunque essa è sempre in qualche modo operante, all'interno dell'interazione educativa, e con essa bisogna fare i conti.
La chiesa, santa ma anche sempre penitente, comunione che sempre nuovamente si ricrea nella riconciliazione, si propone come modello di identificazione per il peccatore che vi percorre l'itinerario del ritorno a Dio e ai fratelli.
L'educatore e il gruppo educativo come ambiente di riconciliazione
L'efficacia educativa del modello di identificazione chiesa è naturalmente legata alla presenza nella chiesa di quelle persone che la grazia di Dio e la collaborazione libera dell'uomo hanno trasformato in modelli validi e credibili di vita evangelica; ma essa dipende anche dal livello di esemplarità e credibilità globale della chiesa.
Poiché, come abbiamo visto, i membri della chiesa, per quanto raggiunti dalla grazia e trasformati dalla fede, portano ancora in sé i segni e le ferite aperte del peccato, l'esemplarità della chiesa non può essere che una esemplarità di conversione. La stessa cosa vale nella chiesa, per ogni persona o gruppo che voglia esercitare un'azione educativa e proporsi come modello di identificazione.
L'educatore singolo o il gruppo educativo creano l'atmosfera della riconciliazione vivendola in maniera coinvolgente, senza ipocrisie e senza infingimenti, con l'umile consapevolezza del proprio peccato e delle proprie divisioni, con la coscienza sempre vigile e aperta all'autocritica serena, con la fiducia che le proprie colpe non distruggono la nostra comunione se sinceramente combattute, detestate, riparate, per quanto è nelle proprie forze e capacità. Il gruppo educativo coinvolge nella riconciliazione se è un gruppo aperto all'accoglienza, consapevole dei suoi limiti, disposto ad accettare quelli degli altri, teso all'autorinnovamento e all'autocritica, consapevole di non aver il monopolio della purezza della fede e della fedeltà alla Parola. E questo è possibile, se il gruppo sa fare esperienza del suo essere convocato dall'amore misericordioso del Padre, invece che dall'orgogliosa iniziativa dell'uomo.
Del resto è della natura della grazia di operare nella direzione di una progressiva identificazione a Cristo: dalla morte del vecchio uomo, essa fa nascere attraverso il processo della conversione permanente l'uomo nuovo, creato da Dio nella giustizia e nella verità dell'amore.
Anche in questo senso la grazia sacramentale è grazia di educazione; essa è grazia di progressiva identificazione a Cristo.
IL DINAMISMO EDUCATIVO DELLA RESPONSABILIZZAZIONE
Un ultimo dinamismo che mi sembra da dover prendere in considerazione è quello che potremmo chiamare della responsabilizzazione. Non si vuole con questo termine ripetere il discorso già fatto, sul rispetto della coscienza, né quello, altrettanto scontato, sulla necessità di dare fiducia e di concedere libertà.
Concedere libertà non è ancora responsabilizzare, cioè creare il senso della responsabilità morale; si può benissimo dare materialmente fiducia, senza fare nulla perché l'educando senta il bisogno di meritarla. Prima di essere una qualità morale la responsabilità è una realtà oggettiva, che esiste dentro le cose, indipendentemente dalla nostra consapevolezza e dalla nostra volontà: è il fatto che le nostre scelte creano futuro; incidono sulla realtà: su di noi, sugli altri, sul mondo, sul progetto stesso di Dio; e incidono per costruire o distruggere, per creare felicità o dolore, spesso in maniera irreversibile.
Il politico corrotto o il burocrate assenteista sono responsabili non primariamente nel senso che devono rispondere davanti all'elettorato o davanti al superiore gerarchico, ma nel senso che per causa loro qualcuno soffrirà, l'anziano attenderà invano la sua pensione, il cittadino sarà leso nei suoi diritti.
Far prendere coscienza di avere altri a carico
Responsabilizzare e rendere consapevoli e sensibili a questa oggettiva solidarietà di bene e di male, che lega tutti gli uomini tra di loro, che affida la felicità di ognuno alla buona volontà di ogni altro; responsabilizzare è rendere trasparente al soggetto la responsabilità oggettiva, che lo fa causa attiva di felicità o di dolore, costruttore di futuro o divoratore di speranza.
È da questa trasparenza che nascono il senso adulto della colpa e la volontà di una riconciliazione che sia prima di tutto restituzione o riparazione.
Responsabilizzare vuol dire far prendere coscienza che i miei fratelli sono affidati alla mia sollecitudine; farmi prendere carico della loro felicità e della loro riuscita. Per creare questa trasparenza e questa assunzione di responsabilità non basta l'informazione, pure necessaria; occorre l'esperienza, tipica dell'età adulta, dell'affidamento, cioè di quello che nel linguaggio comune si chiama spesso «l'avere famiglia», cioè il sapere e sentire di avere altri a carico.
Affidare a qualcuno altre persone bisognose della sua cura, oppure affidargli il buon esito di un evento o di un processo di importanza sensibile per la felicità di altri, è concedere un ruolo sociale carico di efficacia educativa.
Affidare è l'educare qualcuno, rendendolo a sua volta educatore di altri, la chiave di volta della pedagogia dello scoutismo. Chiaro che si richiede qui un difficile equilibrio di coraggio e di prudenza; nell'ambiente ecclesiale, si tratta di contrastare il senso eccessivo di responsabilità che grava troppe volte sul detentore dell'autorità, e gli impedisce di condividere questa responsabilità ai laici, declericalizzando un poco le strutture della pastorale.
Affidare ai giovani compiti ecclesiali adeguati, anche in campo educativo, favorisce la formazione del senso cristiano della responsabilità e della colpa, e quindi anche della riconciliazione e della conversione permanente.
UNA PAROLA DI SPERANZA
Non posso chiudere senza cercare una risposta all'obiezione di coloro che la lettura dell'inchiesta Garelli-Rosanna e più ancora la loro esperienza personale porta piuttosto allo scoraggiamento e all'inerzia invece che all'ottimismo e alla fiducia. Va bene, si dice, la gradualità; ma quando si deve partire così da lontano, camminare così controcorrente (controcorrente rispetto alla cultura dominante, e controcorrente rispetto alle tendenze soggettive dei giovani) si rischia di restare sempre al punto di partenza, mentre la meta che pure sembra urgente raggiungere rimane lontanissima.
Si rischia di affastellare mille frammenti di riconciliazione parziale, con sè e con gli altri, che non diventano mai un vero atto di riconciliazione con Dio che converte e redime. Qui non bisogna dimenticare quello che abbiamo detto sulla dimensione teologale del peccato, sul suo stare normalmente non accanto, ma dentro la dimensione mondana del peccato, la sua distruttività umana e sociale.
Così, non mi riconcilio con Dio con un atto distinto e indipendente da quello con cui mi riconcilio con me stesso (ma di quella difficile riconciliazione che è la ricomposizione della verità del mio essere) e con gli altri. Le due riconciliazioni sono in realtà una sola; non viaggiano l'una accanto all'altra ma l'una dentro l'altra, come l'anima nel corpo.
La riconciliazione con Dio è il senso ultimo, il dinamismo più profondo della mia riconciliazione con gli altri.
Si parla da tempo di una fede «anonima» o implicita, che può salvare chi senza colpa ignora o non accetta in modo esplicito Cristo; la liturgia ci fa pregare per coloro di cui Dio soltanto conosce la fede.
Ebbene io credo che noi possiamo anche sperare nella conversione di coloro di cui solo Dio ha conosciuto la piena riconciliazione con Lui, una riconciliazione anonima, implicita, nascosta in quei frammenti di riconciliazione umana, che noi a lungo, e magari apparentemente invano abbiamo cercato di condurre alla loro pienezza nell'espressione sacramentale.
Lo sforzo non è stato inutile. Non è mai del tutto inutile la preoccupazione educativa quando è ispirata dall'amore. Anche a causa di questo sforzo educativo, soltanto apparentemente fallimentare, questi penitenti anonimi possono avere incontrato, nella penombra del meno consapevole o del non concettualmente consapevole e del solo esistenzialmente intenzionale, quel Dio che ha mandato il Figlio suo non a giudicare ma a salvare quello che era perduto