Domenico Sigalini
(NPG 1986-10-25)
A questo punto della ricerca sul problema in questione è necessario arrivare a dei livelli operativi che nascono dalla composizione in unità dei vari interventi.
Per far questo mi può servire uno schema nel quale collocarli, anche se ogni collocazione è una forzatura, e visualizzare il lavoro svolto.
La sequenza è questa: analisi - risposta - domanda - proposta - prospettive.
Analisi è una lettura dei dati del fenomeno, risposta è recensione degli interventi fin qui fatti, domanda è approfondimento antropologico e teologico del significato dei fatti, proposta è la scelta dei contenuti e delle «procedure» capaci di portare a soluzioni calibrate del problema, è già un'opera di sintesi; anzi ogni momento della sequenza reagisce su quello che lo precede.
Prospettive è pensare in termini operativi. La ricerca attuata nei giorni del convegno ha già posto sul tavolo varie prospettive, varie intuizioni nella cui direzione operare; a me ora il compito di cucire le varie prospettive, di farle interagire fra di loro, perché ciascuno le ha fatte dal suo punto di vista, confrontarle con la proposta, farne nascere di nuove e dotarle di una metodologia operativa, cioè sviluppare una certa qual operatività.
Infrangendo qualche sacro testo più serio, ma anche più complicato, tento di tradurre in una sequenza operativa le varie indicazioni emerse.
Ogni sequenza operativa è un tentativo di rispondere alla famosa domanda: come?
Essa serpeggiava già all'inizio dei lavori, ha cominciato a creare le prime delusioni, ha fatto saltare le tappe a qualcuno. Se a quei punti era errato preoccuparsi del come, ora è necessario farlo, altrimenti potremmo essere considerati degli accademici.
Non si tratta di cercare ricette, ma di essere abilitati a operare. Chi desidera, dopo tanto parlare talora frustrante per l'impotenza che si sperimenta di fronte al cumulo di problemi sollevati, mettersi all'opera deve avere la traccia di un cammino sperimentabile.
OBIETTIVO
Il primo elemento da proporre ad ogni azione pastorale è la chiarezza di un obiettivo; bisogna cioè condensare ogni prospettiva metodologica in una linea fondamentale di azione.
Occorre esprimere in termini sintetici e chiari ciò che alla fine diventa il senso, la motivazione di fondo della risposta al problema dei lontani. Se manca chiarezza di obiettivo si rischia l'affanno di molte iniziative, non si può fare un itinerario con un minimo di logica educativa, si va incontro a frustrazioni e colpevolizzazioni.
Se l'obiettivo è: avere tutti i giovani a messa o l'oratorio pieno o il controllo di ogni giovani o un alto indice di gradimento del prete tra i giovani, oltre a non tener conto della sequenza fin qui seguita e aver dato la stura a pensieri finora controllati, determina un certo tipo di attività, di strumenti, di tappe, ecc.
Così esplicitato l'obiettivo è rifiutato da tutti, ma desideri segreti di questo tipo sono sempre in agguato.
Da obiettivi magari diventano criteri di valorizzazione capaci di fare saltare ogni sequenza operativa.
Per noi l'obiettivo è il seguente.
Azione e presenza pastorale con i giovani lontani è: far risuonare nella vita di ciascuno, con i livelli che Dio solo determina, la scoperta che Gesù è il senso dell'esistenza.
Passo ulteriore, perché è criterio esigente di verifica, e caratterizzazione di linea d'azione, non pretesa di censimento oggettivo, è: far amare questa vita, sognare felicità con tutti gli uomini, confessando nella comunità dei credenti che Gesù è il Signore.
Questo obiettivo raccoglie almeno alcune grosse indicazioni:
- valorizza la soggettività, la dimensione e la coscienza personale;
- ci fa ricordare l'iniziativa personalissima di Dio, di fronte a cui proviamo stupore per l'amore che anche oggi riversa sull'uomo;
- centra sul problema del senso;
- è esperienziale;
- esige una azione comunicativa «asimmetrica » dell'adulto: far risuonare è esperienza forte di comunicazione narrativa.
La seconda formulazione oltre a quanto detto sopra esplicita un rapporto con la comunità ecclesiale.
È qui assolutamente bandito ogni proselitismo e si imposta l'azione su una comunicazione irreversibile della esperienza di salvezza da noi fatta in Gesù.
La esplicitazione del riferimento a Gesù di Nazareth nell'obiettivo è necessaria anche solo per motivare globalmente sia la comunità cristiana che l'operatore pastorale, è riaffermare che il problema della lontananza o vicinanza ha come luogo di esplicazione e precisazione la comunità cristiana che ha esperimentato in Gesù la salvezza.
PASSAGGI GRADUALI O TAPPE
Chiarito dove voglio arrivare, o quale servizio mi sembra necessario esprimere sul nostro problema, ora bisogna renderlo operativo attraverso alcune scelte concatenate che permettono di raggiungere l'obiettivo.
È un lavoro di sintesi, filtrata dall'obiettivo e legata ad alcune scelte preferenziali.
Prima tappa
La lettura attenta della domanda di comunicazione, dove soggetti del dialogo sono i giovani e la comunità ecclesiale.
Questo prevede di fare della lettura dei bisogni e manifestazioni giovanili un passo obbligatorio dell'azione pastorale. Non si tratta di una lettura strumentale, ma della ricerca di uno spazio di invocazione, della «codificazione» di un linguaggio comune, dell'assunzione e approfondimento di segni e simboli per lo meno interlocutori.
Non è seguire l'ultima moda per essere giovanilisti, ma dare importanza a ogni richiesta per farla giungere a livelli profondamente coinvolgenti.
Siamo stati abituati ormai alla scaltrezza di non lasciare alla sociologia solamente l'interpretazione delle domande e dei bisogni. Domanda religiosa per un sociologo è qualcosa di verificabile e quantizzabile di un comportamento che segue precise manifestazioni di religiosità; per un operatore di pastorale è qualsiasi domanda di vita non saturabile dalle risposte della sapienza umana.
È una tappa da attuare sia con i giovani che si accostano per la prima volta al di fuori di ogni istituzione educativa, ma deve diventare metodo per ogni unità didattica anche di catechesi. Si dà per scontato qui che l'azione pastorale per i giovani lontani parte e si fa prima e sempre nel modello educativo quotidiano sperimentato e vissuto con i giovani presenti. Spesso la lontananza si consuma nelle catechesi formali, lontane dalle domande di vita. Questo fa chiarezza di tanti cammini di catechesi che sono più scuole di teologia o corsi monografici per addetti a qualche hobby che itinerario di crescita nella fede.
Costringe a non far consistere la pastorale giovanile in una esasperata verbalizzazione che esclude selettivamente il mondo dei giovani lavoratori dalla praticabilità di una proposta cristiana.
Non c'è una pastorale per i lontani e una per i vicini, ma una unica pastorale attenta a diversi itinerari.
L'interlocutore del dialogo è la Chiesa, sacramento di salvezza. Abbiamo assunto la Chiesa di fatto come il punto da cui cominciare a misurare vicinanza e lontananza. È la Chiesa che esiste per la vita, per il regno; la Chiesa non dà la salvezza, ma sollecita le persone ad accogliere il dono di Dio. È la Chiesa che scoprendo i lontani si domanda se l'«orologio», il sacramento che essa è, segna ancora l'ora della salvezza.
Questo significa alcune cose concrete:
- non demandare ad alcune associazioni, gruppi o movimenti la pastorale giovanile con e per i lontani;
- tutte le forze vive d'una comunità diocesana devono essere aiutate a sentire il problema (seminario, corsi di teologia, organismi pastorali...);
- ogni operatività di cui si può far carico qualche gruppo più sensibile deve tendere al coinvolgimento di tutti;
- uno dei primi obiettivi anche dei pochi che si sono sensibilizzati al problema è di renderlo presente alla coscienza comune così da favorire l'esplodere di più forze possibili che si orientino alla sua soluzione. La mentalità che vede la lontananza come una scappatella di gioventù è ancora troppo diffusa, e il criterio del «meglio pochi ma buoni» opera altre selezioni contrarie ad ogni indicazione evangelica.
Esperienze significative a questo riguardo sono:
- la formazione di nuove aggregazioni a partire dalla vita di un bar;
- la preparazione di feste, incontri o sussidi;
- il coinvolgimento di molte diocesi nella formulazione di un progetto di pastorale giovanile;
- la nascita di movimenti anche a «termine» su problemi del territorio;
- la riformulazione dei linguaggi ufficiali di una parrocchia in termini comprensibili alla realtà giovanile.
Seconda tappa
La seconda tappa riguarda il posto della «storia quotidiana e umana» nei circuiti educativi ecclesiali.
Rispetto ai grandi problemi dell'umanità, spesso i nostri discorsi sono di un provincialismo esasperato. Di fronte ai grossi problemi dell'uomo si segue l'impulso della fuga, il bisogno di un tepore materno, che conduce al settarismo, che sotto le apparenze della fedeltà nasconde una profonda ostilità a ciò che di grande pulsa nel messaggio cristiano.
Non esistono spazi sacri da coltivare, alternativi a quelli della storia comune. Oggi non ha più senso per nessuno imprigionare nella sfera di una astratta spiritualità un messaggio di salvezza. Questo messaggio per essere ascoltabile deve riguardare i problemi della sopravvivenza del mondo, della vita del genere umano. Diventano allora passi obbligati, terreno di confronto, luogo di dialogo, di proposta: il problema della pace, il commercio delle armi, il sud dell'universo, i «debiti » del terzo mondo, la vivibilità della terra...
Conseguenze pratiche:
- troppo raramente una diocesi o una parrocchia fa un consiglio pastorale sui problemi di tutti; occorre sapersi immergere nella vita di tutti;
- questo esige di pensare al mondo e non alla Chiesa, mettere al centro l'uomo;
- educare ad essere cittadini dell'universo, a sentire le responsabilità del cristiano nella storia globale del mondo, dei suoi poveri;
- smetterla di ridurre ogni intervento pastorale a preghiera e catechesi, snobbando sport, ricerca culturale, crescita umana.
Esperienze:
- promozioni di dibattiti e coraggiose prese di posizione su questi problemi;
- sviluppo del volontariato internazionale;
- esperienze minime di mobilitazione della opinione pubblica;
- proposta «ecologica » come messaggio della creazione;
- esperienze giovanili di incontri internazionali.
Terza tappa
La terza tappa consiste nel ripensare come comunità e aiutare i giovani a riscrivere e ridire l'esperienza del senso scoperto in Gesù.
È forse l'impegno più arduo, non mai definito e sempre rischioso. Questa è opera non di un avanguardista o di alcune élites, ma di un popolo, di una comunità.
È proporre non norme o valori, ma stili di vita significativa.
È attualizzare l'esperienza della salvezza nei termini percepibili oggi, dal giovane di oggi, nelle situazioni in cui si trova.
Che significa per un giovane militare di leva oggi l'amore per la vita, la gioia di vivere? Come si sperimenta in quella condizione di salvezza?
Che significa per una coppia di fidanzati, per un drogato, per un indifferente?
Una volta percepita e provata questa esperienza come ridirla, ricomunicarla?
Quali simboli, gesti, scelte la trasmettono e traducono? Come rendere parlanti esperienze di autentico incontro con Cristo senza continuamente ricorrere a una agiografia stantia?
La scelta attuata in questi anni dell'animazione come stile di educazione alla fede è capace di dare risposte precise a queste domande.
Esperienze:
- lettere aperte, i messaggi, che i giovani si scrivono;
- le celebrazioni spontanee di passi decisivi della vita (cresima, matrimonio);
- le liturgie di comunità giovanili: alcune celebrazioni anche di massa. Abbiamo di nuovo affittato le liturgie a chi è fuori dal tempo;
- il linguaggio di simboli e gesti di speranza, di impegno, di solidarietà;
- le stesse canzoni inventate dai giovani;
- i sussidi, i grest, i campi-scuola;
- i dialoghi pubblici con i pastori in convegni ecclesiali giovanili;
- la riformulazione di cammini di catechesi;
- la creazione di gruppi di ambiente che rielaborano il messaggio.
STRUMENTI E STRATEGIE
Per realizzare queste tappe si devono mettere in fila alcuni strumenti o modi di organizzarsi e di selezionare le disponibilità (strategie).
La concretezza diventa ancora più palpabile ma anche meno generalizzabile.
Ripensare le problematiche della socializzazione religiosa
Se è così determinante l'esperienza positiva della funzione simbolica delle figure materna e paterna per rendere possibile l'emergere di una sensibilità religiosa, la pastorale giovanile non parte dagli adolescenti, ma dalle giovani coppie.
Questo induce anche un taglio di interventi non strettamente catechistici, ma globalmente educativi e ampi.
Ripensare alla socializzazione religiosa non significa riproporre una civiltà cristiana.
In molte zone d'Italia è ancora alto il grado di socializzazione religiosa, eppure i lontani sono tanti e crescono. Questo significa che nel lavoro di educazione alla fede e di socializzazione religiosa o più ampiamente educativo si opera senza tener conto del mutato contesto, usando ancora linguaggi che per essere comunicativi postulano un tipo di ambiente sacrale che ora non esiste
Ridefinire la pastorale dei preadolescenti
- Dall'inchiesta «L'età negata» è documentata una seria crisi religiosa verso i 12/ 13 anni.
- Gli interventi pastorali sono spesso di contenimento per il fine corsa (= la cresima, che anziché palestra di crescita e di impegno diventa balestra di allontanamento)
piuttosto che di proiezione nel futuro.
- Per reagire bisogna puntare di più sulla metodologia di gruppo che sulla conduzione a classi scolastiche.
A partire da qui si deve curare la ridefinizione della personalità, abbandonando la sicurezza delle appartenenze sociologiche (le classi della scuola media, il facile controllo familiare e sociale, la supposta tranquillità esterna...) per iniziare una nuova consapevolezza cristiana.
L'aggregazione giovanile
L'aggregazione giovanile quale che essa sia è un passo obbligato per aiutare i giovani lontani a un inizio di cammino.
Ogni tipo di aggregazione (incontri di massa, compagnie, gruppi generici, aggregazioni obbligate, organizzazioni, gruppi...) ha valori precisi che vanno esaltati e orientati.
Il gruppo non può essere l'unica aggregazione che si mette a loro disposizione. Resta uno strumento insuperabile, ma non è all'altezza di tutti.
L'appartenenza ad una istituzione «più vasta»
L'appartenenza a una istituzione educativa o alla comunità cristiana deve essere articolata per obiettivi diversificati o modelli di crescita diversi.
Esistono diversi livelli di partecipazione a una istituzione educativa spesso concentrici, talora perennemente paralleli, ma tutti in grado di esprimere una parte di senso.
Questo esige che ogni comunità educativa prenda sul serio tutte le proposte che è capace di fare, non rendendone qualcuna (sport, teatro, servizi caritativi. . . ) strumentale ad altre (catechesi, celebrazioni sacramentali) ma collocandole in un piano educativo in cui ogni momento ha una sua dignità, una sua, per intenderci, capacità di salvezza.
Pure i modelli di crescita devono essere ampi.
Non c'è una taglia di vestito che deve andar bene per tutti. Le associazioni e i movimenti permettono un ampliamento della proposta cristiana e una capacità di annuncio che spesso la stessa comunità educativa non riesce a pensare o attuare.
Nel territorio
Il luogo della azione pastorale è il territorio, in tutti i suoi significati (ambienti, strutture, culture, persone...). Spesso le strutture educative «implodono» anziché esplodere. Da strumenti diventano area di intervento (cf oratori, scuole cattoliche...) o obiettivi.
Il gruppo va impostato come riferimento oltre che come unità di crescita.
Le istituzioni educative si qualificano nella misura in cui sanno fare esperienze di dialogo o di proposta estemporanea, cioè se programmano esplicitamente luoghi di condivisione, spazi di ermeneutica, di elaborazione culturale con tutti.
È necessario però preparare anche animatori della «compagnia», persone, cioè, che per la loro grande capacità di dialogo e di comunicazione sanno appartenere alle varie aggregazioni giovanili del territorio per favorirne le potenzialità educative.
In questa visione il ruolo dei laici è indispensabile, sia per missione specifica, sia perché la comunità cristiana venga proposta nel suo vero volto di Popolo di Dio, declericalizzata, sia per essere fedeli ai doni della missionarietà che lo Spirito distribuisce ad ogni cristiano.