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    Le quattro costituzioni del Vaticano II


    Identità, struttura, portata

    Luis A. Gallo

    (NPG 1987-09-04)


    Rileggere presuppone, ovviamen­te, aver prima letto. Se si tratta, come nel nostro caso, di una ri­lettura del Vaticano II a partire dalle nuove situazioni storico-culturali che si sono create dopo vent’anni, risulta indi­spensabile far ritorno al testo originale per scoprire in esso la “sostanza viva” che si vuole sottoporre a un processo di attualizzazione. È questo appunto lo scopo di questo mio intervento. Presen­terò quindi in forma “esegetica” le quat­tro costituzioni elaborate dal Concilio, affinché possa venir fatto poi un lavoro di comprensione attuale di esse. Trala­scio di dichiarare espressamente i criteri con cui lavorerò. Essi appariranno impli­citamente dallo stesso modo in cui il la­voro verrà fatto.
    Come ebbe occasione di mettere bene in rilievo l’ultimo Sinodo dei Vescovi, convocato appunto per commemorare il ventesimo del Concilio, tra i sedici docu­menti approvati quelli che fanno da linea portante sono le quattro costituzioni dedicate rispettivamente alla liturgia (Sa­crosanctum Concilium = SC), alla divi­na rivelazione (Dei Verbum = DV), alla Chiesa in se stessa (Lumen Gentium = LG) e alla Chiesa nel mondo attuale (Gaudium et Spes = GS). Tra di esse, due sono considerate dallo stesso Vatica­no II come “dogmatiche” (quelle sulla ri­velazione e sulla Chiesa in se stessa), una è detta semplicemente costituzione su “la sacra liturgia”, e l’ultima è intitolata “pastorale”.
    È innegabile l’influsso esercitato dalla costituzione dogmatica sulla Chiesa sul­l’intero corpo dei documenti. In certo qual modo tutto quanto il loro contenuto si può articolare attorno ad essa come at­torno ad un asse centrale. Ciò è chiaro anche per la costituzione sulla liturgia che, pur approvata prima per motivi sto­rici facilmente comprensibili (il movi­mento liturgico arrivò molto maturo al Concilio), si può considerare sostanzial­mente appartenente alla costellazione della LG. E, come avremo occasione di vedere, anche la costituzione pastorale, malgrado la sua grossa novità ecclesiolo­gica, non si potrebbe capire senza un ri­ferimento a tale costituzione.
    Dette queste cose di indole piuttosto generale, passeremo ora a rivisitare tali costituzioni, cercando di cogliere ciò che in esse è più sostanziale. Dopo la presen­tazione dei singoli documenti, metteremo in evidenza il rapporto che c’è tra di essi.

    LA COSTITUZIONE SULLA SACRA LITURGIA “SACROSANCTUM CONCILIUM”

    Quando si radunò il Vaticano II per iniziare i suoi lavori (anno 1962), il movi­mento liturgico poteva contare su un lungo cammino già percorso. Era nato dalla sensibilità degli ambienti monastici e si era poi diffuso in ampi strati della comunità ecclesiale, non senza difficoltà e opposizioni di diversa indole. A poco a poco si erano andati facendo dei passi notevoli di rinnovamento nell’ambito delle celebrazioni sacramentali e liturgi­che, e dalle basi il movimento era arriva­to anche alle supreme istanze della Chie­sa, fino ad avere una approvazione so­lenne e ufficiale con l’enciclica Mediator Dei di Pio XII (anno 1947). Ciò spiega, come si è già detto, la relativa facilità con cui la costituzione sulla sacra liturgia si fece strada nel Concilio e con cui fu ap­provato il 4 dicembre 1963 con 2147 voti positivi e solo 4 negativi.
    Questa costituzione costituì certamen­te un contributo notevole al cambiamen­to di mentalità non solo nell’ambito li­turgico come tale, ma anche nell’intera impostazione ecclesiologica e, più in là ancora, nel modo di concepire e di vivere la fede in genere. Esplicitiamo a conti­nuazione alcuni dei principali contributi specifici in questo senso.

    Inquadramento della liturgia nella vita della Chiesa

    Con il movimento liturgico si era an­data smuovendo una concezione abba­stanza radicata tra i cristiani, secondo la quale i riti, le celebrazioni, le espressioni culturali erano ritenuti come degli orna­menti accessori, delle “cerimonie” ag­giunte a ciò che è veramente sostanziale nella vita di fede. Ora, la SC ha ufficia­lizzato tale spostamento di ottica. Anzitutto ha sostenuto che la liturgia è tutta imperniata sul sacrificio eucaristico e sui sacramenti (cf n. 6), e che per mezzo di essa si attua l’opera della salvezza (cf cap. I). Quindi, non un qualcosa di so­vrapposto e di posticcio, di semplice­mente ornamentale, ma di veramente so­stanziale per la vita della Chiesa. Essa è “un’opera grande” (cf n. 7a), con la qua­le viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati (cf n. 7b), e il cui protagonista principale è Cristo, sempre presente alla sua Chiesa (cf n. 7a) associata a questo scopo da lui quale sposa amatissima (cf n. 7b).
    La costituzione non solo ha riscattato la liturgia da una concezione che in realtà la svuotava dalla sua genuina densità, ma le ha attribuito inoltre un posto cen­trale nella vita della comunità dei creden­ti. Ha sostenuto infatti che, malgrado non esaurisca tutta l’azione della Chiesa (cf n. 9a), essa “è il culmine verso cui tende - tale azione - e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua forza” (cf n. 10a).
    Tale centralità è affermata, come si vede, nella prospettiva di una vita cristia­na che germoglia e si sviluppa nella con­versione della fede, e che si esprime poi nella testimonianza di un impegno modellato sull’insegnamento evangelico (cf n. 9 a.b).

    Liturgia o vita cristiana in dimensione comunitaria

    Per chi conosce pur superficialmente la storia della vita della Chiesa, risulta innegabile il fatto che durante i secoli si era andata infiltrando e rafforzando tra i cristiani una concezione accentuatamente individuale e addirittura individualista delle celebrazioni liturgiche e, in genere, dell’intera vita di fede.
    Basterebbe esaminare la maniera in cui fu vissuta l’eucaristia, il principale dei sacramenti, per convincersene facilmen­te. A cominciare dal segno centrale, quello del pane consacrato ridotto a poco a poco a delle sottili ostie già ritagliate in antecedenza alla celebrazione, tutta una serie di espressioni corporali, vocali, spaziali, ecc. riflettevano una imposta­zione imperniata molto più sui singoli in­dividui che sulla comunità in quanto ta­le. A questo si aggiungeva un modo di gestire le cose in cui il vero soggetto delle celebrazioni erano i ministri, mentre il resto - “il popolo” - se ne stava a sentire o a vedere passivamente ciò che essi face­vano - per di più in una lingua ormai in genere sconosciuta -, malgrado “occu­pato utilmente” in altre espressioni cul­tuali parallele.
    Che questa situazione riflettesse una mentalità più generalizzata, secondo la quale la stessa fede finiva per essere vis­suta in maniera fortemente individualista, è anche facile da constatare. Ne è una dimostrazione la così popolarmente diffusa frase “salva l’anima tua”, che in qualche modo condensava sia l’imposta­zione pastorale sia la tendenza generaliz­zata dei cristiani.
    Uno dei pregi del movimento liturgico, che ebbe la sua “canonizzazione” nella costituzione conciliare, è quello di aver risvegliato il senso comunitario della li­turgia e, per mezzo di essa, di tutta la vita ecclesiale. Al n. 26 troviamo enun­ciato un criterio veramente fondamenta­le: “Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è ‘sacramento di unità’ (...); perciò tali azioni appartengono all’intero Cor­po della Chiesa, lo manifestano e lo im­plicano”. Non c’è quindi spazio per l’in­dividualismo liturgico, tutto è intrinsecamente comunitario e come tale deve an­che manifestarsi. Il vero soggetto delle celebrazioni è l’intera comunità e non so­lo alcuni, che agirebbero “per” gli altri, considerati come meri destinatari della loro azione.
    In realtà, ogni celebrazione è, secondo questa impostazione, una con-celebra­zione e, da questo punto di vista, la sua autenticità è data dalla partecipazione attiva di tutti i suoi membri.
    Si intravedono così le implicanze che questa istanza ha per l’intera vita della Chiesa. Essa è “sacramento di unità”, un “corpo” che non è la semplice somma degli individui, ma che implica anche i loro rapporti vicendevoli e perciò la loro partecipazione attiva e corresponsabile.
    All’interno di questa prima afferma­zione, ce n’è un’altra che non va trascu­rata: nelle azioni liturgiche “i singoli membri (del Corpo della Chiesa) vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, uffici e dell’attuale partecipazione” (cf n. 26b; cf anche n. 28). Comunitarietà non significa indi­stinzione e uniformità. Appunto perché si tratta dell’attività di una comunità va­riegata, nel seno della quale al fatto pri­mo dell’uguaglianza fraterna segue, sen­za sopprimerlo, il fatto secondo della di­versità di condizione per differenti ragio­ni. È così che la celebrazione risulta una “sinfonia” nella quale ognuno contribui­sce con la sua propria partecipazione, una partecipazione che è appunto “sua”, e cioè segnata dalla sua originalità. Tale originalità è data qui dalla diversa ma­niera con cui ognuno è chiamato a vivere la fede comune all’interno dell’unica comunione ecclesiale. Una di esse, di non trascurabile importanza, è certamente quella di chi presiede (vescovo: cf n. 42; presbitero: cf n. 42) e porta sulle spalle l’ultima responsabilità dell’intera cele­brazione. Ma, secondo il pensiero della costituzione, ultima responsabilità non significa unica responsabilità. Anzi, si dovrebbe dire che la responsabilità dei ministri è precisamente quella di suscita­re, animare e armonizzare la correspon­sabilità di tutti e ognuno dei partecipan­ti.
    Trasferito all’intero ambito della vita ecclesiale questo principio è carico di conseguenze.

    Il principio dell’adattamento

    La SC, anticipandosi in questo a quando verrà fatto oggetto di speciale at­tenzione nel Sinodo dei Vescovi del 1974, ha enunciato nitidamente quello che og­gi, dopo quel Sinodo, si è soliti chiamare “il principio dell’inculturazione”.
    Non è un mistero a nessuno che sia an­che minimamente informato il fatto che, soprattutto a partire dal Concilio di Trento e come mezzo per arginare il gra­ve rischio di sgretolamento della Chiesa, s’instaurò in essa un regime fortemente centralizzato. La portata di questo regi­me travalica l’ambito liturgico certamen­te, ma trova in esso un terreno di speciale attuazione.
    Questa costituzione proclamò una profonda innovazione in tale ambito: “La Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene comune generale, non intende imporre, neppure nella liturgia, una rigida uniformità; anzi rispetta e fa­vorisce le qualità e le doti di animo delle varie razze e dei vari popoli” (cf anche nn. 65, 118, 119). Una delle applicazioni più chiare e più immediate di tale enun­ciato si ebbe nella decisione sulla lingua. Dopo secoli di impiego di una lingua uni­ca in tutte le parti del mondo - il latino -, il Concilio decise di aprire le porte all’u­tilizzazione delle lingue cosiddette “vol­gari” (cf nn. 36, 54, 63), e cioè quelle parlate comunemente dalla gente. Sa­pendo l’importanza che la lingua ha nel­l’insieme dei simboli di una comunità umana, si capisce la portata di una deci­sione del genere.
    Procedendo in questo modo, la SC ha anticipato implicitamente la dinamica che porterà poi la LG a ripristinare la teo­logia della Chiesa particolare, sulla quale avremo occasione di ritornare più avanti.

    LA COSTITUZIONE DOGMATICA “LUMEN GENTIUM”

    Che il Vaticano II sia stato un concilio eminentemente ecclesiologico e, in certo senso, perfino ecclesiocentrico è cosa fa­cile da costatare. È sufficiente leggere i suoi documenti per convincersene. Ma aiuta anche a capirlo la conoscenza, sia pur molto succinta, di quanto è avvenuto nel suo primo periodo di celebrazione (anno 1962), nel quale, per diversi motivi che non è qui il caso di ricordare, al di là dell’entusiasmo quasi carismatico re­gnante, si verificò anche una situazione di preoccupante smarrimento nei con­fronti della marcia del Concilio stesso.
    Una serie di fattori avevano preparato gli animi dei partecipanti al Concilio a subire una profonda metamorfosi eccle­siologica. Alcuni nell’ambito della Chie­sa, altri in quello della società umana di­venuta, soprattutto in questo ultimo se­colo, sempre più autonoma nei confronti della Chiesa stessa e della fede cristiana in generale.
    Tra i primi vanno menzionati i diversi movimenti sorti e cresciuti un po’ dap­pertutto tra i cristiani. Sono, concreta­mente, il movimento di ritorno alle fonti bibliche e patristiche, il movimento litur­gico, il movimento ecumenico, quello missionario e i diversi movimenti laicali. Ognuno di essi contribuì in maggior o minor misura a smuovere concezioni e comportamenti secolari e a creare delle sensibilità nuove. Tra i secondi vanno annoverati il fenomeno della personaliz­zazione, che si espresse anche in diverse correnti filosofiche, e il fenomeno della crescente socializzazione. Le loro matrici sono certamente umane, storiche, ma la loro incidenza all’interno della Chiesa non poteva non essere rilevante.
    Effetto globale di questo insieme di fattori fu lo spostamento dell’ottica ec­clesiale che permeò l’intero andamento del Concilio e di conseguenza anche l’e­laborazione dei suoi documenti. Concre­tamente, si passò da un modello di Chie­sa di tipo prevalentemente istituzionale e giuridico a un modello di Chiesa-comu­nione.

    L’idea centrale

    Raccogliamo molto sinteticamente i principali contenuti della costituzione dogmatica. Lumen Gentium, supponen­do sufficientemente conosciuta la sua struttura che comprende i sette capitoli propriamente ecclesiologici e un ottavo sulla Madonna.
    L’idea centrale è senz’altro quella che abbiamo già anticipato precedentemen­te, secondo la quale la Chiesa è un miste­ro di comunione. Il capitolo primo del documento porta infatti come titolo Il mistero della Chiesa, e quale piattaforma di tutto ciò che seguirà in esso, afferma che questa realtà umana che chiamiamo Chiesa è frutto di una decisione eterna di Dio Uno e Trino, risultato del suo agire nella storia umana, e vocazione a far tra­sparente in mezzo al mondo il suo stesso essere di comunione di diversi nell’amo­re. Il numero 4b di questo primo capito­lo, con cui si conclude, con la citazione di un testo di S. Cipriano, la descrizione dell’agire del Padre, del Figlio Gesù Cri­sto e dello Spirito Santo nella storia della salvezza, costituisce una delle espressioni più dense e allo stesso tempo più pro­grammatiche di tutta la nuova imposta­zione ecclesiologica assunta.
    Essa viene a dire in definitiva che c’è Chiesa dove c’è comunione vera tra le persone e con Dio, una comunione che affonda le sue radici nella fede di Cristo e si modella a partire da essa. Orbene, questa Chiesa così costituita è chiamata ad essere in Cristo come un sa­cramento di salvezza per il mondo inte­ro. Ciò vuol dire che essa è chiamata ad essere, anzitutto, un segno luminoso del­la salvezza di tutti, un segno che, per non essere vuoto, deve contenere in se stesso la salvezza che segnala agli altri. E, vuol dire, inoltre, che di tale salvezza la Chie­sa deve essere anche strumento. Signifi­carla e produrla, quindi. Ma, di quale salvezza? Ecco un’altra novità proposta dal documento che analizziamo, effetto indub­biamente dei fattori a cui abbiamo accennato anteriormente. La costituzione abbandona una concezione “tradiziona­le” di salvezza, frutto dell’inculturazione della fede in un orizzonte di cultura di tipo ellenico e che la pensava come un “andare in cielo” con tutte le caratteristi­che di accentuazione dualista, individua­le, spirituale e ultramondana che com­porta, per abbracciarne un’altra che esprime come “intima unione con Dio e unità di tutto il genere umano” (n. 1).
    Sarà anche questa rinnovata concezione soteriologica che le permetterà di ricono­scere e accettare la presenza della salvez­za non solo tra gli altri cristiani e tra gli altri credenti in Dio, ma addirittura tra gli atei di buona volontà (cf n. 16).
    Ancora un terzo aspetto va messo in luce all’interno di questa idea centrale del documento in questione: la Chiesa mistero di comunione e sacramento di salvezza esiste nel mondo come popolo di Dio. Ciò la mette in rapporto con la storia e le conferisce un carattere emi­nentemente dinamico. La ricollega, in­fatti, con la vicenda storica dell’antico popolo d’Israele, ma anche con la sua vocazione messianica da realizzare dietro le orme di Colui che questa vocazione visse fino alle ultime conseguenze la­sciandola come eredità ai suoi discepoli (cf n. 9). Radica qui, in ultima istanza, la vocazione della Chiesa all’universalità o cattolicità (cf nn. 13-17), e anche il suo carattere escatologico (cap. VII).

    Un nuovo rapporto tra Chiesa e Regno di Dio

    Insieme a quest’idea centrale, già di per sé molto pregnante, e in omogeneità con essa, ce ne sono altre non meno cari­che di conseguenze nella stessa costitu­zione. Esse hanno a che vedere con una serie di rapporti che, all’interno della Chiesa, costituiscono come la sua spina dorsale.
    In primo luogo, si deve registrare un innovazione nell’ambito del rapporto tra la Chiesa e il Regno di Dio.
    Nella anteriore ecclesiologia tale rap­porto era visto in termini di identifica­zione. La Chiesa era il Regno di Dio (o di Cristo) sulla terra; lavorare per il Regno di Dio significava lavorare per impianta­re, far crescere, estendere la Chiesa nel mondo, in vista del regno definitivo dei cieli. Con tutte le conseguenze che ciò comportava nei confronti della verità e della santità. Essere Regno di Dio equivaleva a possedere tutta la verità e tutta la santità, e a ritenere ciò che non era Chiesa, ossia tutto il resto del mondo, come regno del peccato, della menzogna e del male. Una spartizione, quindi, si­mile a quella che il popolo dell’antica al­leanza aveva concepito quando conside­rò se stesso come “popolo santo” di Dio e gli altri popoli come “impuri”, e cioè esclusi dalla benedizione e dalla promes­sa di Dio.
    Le ripercussioni che questa concezione aveva su certi atteggiamenti trionfalistici non sono difficili da scorgere. Ce ne so­no delle tracce anche nell’arte pittorica e scultorica, e anche in quella architettoni­ca.
    La LG ha ridimensionato questo rap­porto, concependolo in un modo diver­so. Essa ha pensato la Chiesa come un germe (cf n. 5c), e per di più imperfetto (cf nn. 8c, 48c) del Regno. Ha perciò ri­conosciuto la reale sproporzione che c’è tra la prima grandezza che esprime il progetto di Dio e di Cristo per tutto il mondo, e questa seconda grandezza che è la Chiesa reale.
    La Chiesa è sì santa, perché in essa c e la presenza del Dio Uno e Trino, perché ha la Parola della rivelazione, perché possiede i sacramenti segni della grazia, perché ci sono stati e ci sono in essa degli uomini e delle donne sante, a cominciare dalla Madre del Salvatore (cf cap. VIII), ma è pure anche costantemente bisogno­sa di purificazione, sia nell’ordine della verità che nell’ordine della santità. Essa porta in sé i segni dell’appartenenza a questo mondo di peccato, benché chia­mata ad essere totalmente santa. D’al­tronde, essa non può pretendere di avere il monopolio né della verità né della san­tità, perché lo Spirito di Dio che le pro­duce agisce nel mondo intero, anche nei cuori di coloro che, pur non essendo ar­rivati a riconoscere Dio, si sforzano di condurre una vita giusta (cf n. 16c). Nes­sun trionfalismo è quindi consentito, ma solo un senso di modestia e di responsa­bilità.

    Un nuovo rapporto tra i membri della Chiesa

    Una seconda innovazione da registrare si trova nell’ambito del rapporto tra i membri della Chiesa. Abbiamo già fatto rilevare che l’anteriore ecclesiologia comportava una strutturazione fondamentalmente piramidale della Chiesa stessa. A poco a poco e quasi insensibil­mente essa si era andata modellando sul­la struttura della società politica, quella imperiale prima, quella feudale o monar­chica poi, la quale si reggeva su una concezione gerarchica del potere e della di­gnità. Così il vertice - nel caso concreto il papa quale vescovo di Roma - aveva fi­nito per condensare in sé il massimo di potere e di dignità, e le basi, ossia i cri­stiani laici o secolari, avevano finito per esserne in pratica completamente spo­gliati.
    Con una duplice conseguenza: prima, quella di finire per spaccare la Chiesa in due, ritenendo gli ultimi, i laici, quali cri­stiani “di seconda” nei confronti dei membri della gerarchia (e anche dei reli­giosi), tanto che spesso non venivano considerati capaci di raggiungere la “per­fezione evangelica” ma solo di praticare i comandamenti; seconda, quella di far pensare che in realtà la vera Chiesa è costituita dai pastori (tutt’al più anche dai religiosi e dalle religiose), mentre gli altri, i “semplici fedeli”, costituiscono in­vece quella massa informe chiamata ge­nericamente “popolo di Dio”.
    Ciò si rifletteva sia nell’ambito liturgi­co, dove i laici venivano considerati o si autoconsideravano quale “clienti” dei ministri ordinati, sia in quello profetico, dove i semplici fedeli erano pensati e si autoritenevano come una “Chiesa-che-impara” nei confronti della “Chiesa-che-insegna” costituita da coloro che confor­mavano il “magistero”, sia ancora in quello regale o pastorale, dove i laici era­no chiamati a sottostare docilmente alla conduzione dei pastori costituiti in autorità.
    La LG, imperniata sul fondamentale principio di comunione, modificò pro­fondamente questo modo di concepire i rapporti tra i membri della Chiesa. Un primo passo decisivo in questa direzione lo costituisce l’articolazione stessa del documento. Contrariamente a come era stato organizzato negli schemi previ e per esplicita richiesta di numerosi Padri con­ciliari, il capitolo sul popolo di Dio fu collocato immediatamente dopo quello sul mistero della Chiesa, e fu fatto prece­dere a quello sulla costituzione gerarchica della Chiesa. Ciò non costituisce un sem­plice fatto redazionale, ma rende visibile un profondo cambio di ottica. Precisa­mente quel cambio per il quale si ritiene quale dato ecclesiologico primo l’appar­tenenza di tutti i battezzati, con parità di diritto e di dignità, alla comunione di vita e di missione della Chiesa, e solo quale dato secondo quello della diversità di vo­cazioni all’interno di tale parità. Ciò si­gnifica abbattere la piramide e innalzare al suo posto il principio dell’uguaglianza radicale di tutti i membri della comunità ecclesiale, in modo tale che in essa “nes­suno sia al di sopra di nessuno” in digni­tà (cf n. 32). Solo dopo che è stata affer­mata questa uguaglianza, e senza intac­carla minimamente, va enunciato l’altro principio: nella Chiesa c’è una diversità, che è però diversità di servizio fraterno in ordine al bene di tutto l’organismo (cf nn. 12, 18, 32, ecc.).

    Il sacerdozio comune o dei fedeli

    Insieme a questo dato redazionale (ma molto più che redazionale), ce ne sono altri tre di singolare importanza.
    Il primo è la ripresa di un tema antico quanto gli stessi scritti del Nuovo Testa­mento, ma che per circostanze storiche era andato quasi perduto nella coscienza della Chiesa. È quello del sacerdozio co­mune o dei fedeli. Lutero ne aveva fatto in qualche modo il suo cavallo di batta­glia, e ciò spiega la reazione della Chiesa postridentina nei suoi confronti. Ma ora, dissipate le polemiche, il Concilio lo ri­prende e lo ripropone con decisione e senza mezzi termini. La Chiesa non è una comunità di sacerdoti consacrati che ge­stiscono dei riti per dei profeti; essa è tut­ta intera una comunità sacerdotale, nella quale il sacerdozio fondamentale è quel­lo della comunità - un sacerdozio d’al­tronde “spirituale” (cf nn. 10, 11, 34a), che si esprime in tutti gli atti della vita e poi nella loro celebrazione nei riti -, al cui servizio si colloca un sacerdozio mi­nisteriale che svolge il ruolo di presiden­za.

    Il senso profetico dei fedeli

    Il secondo dato è quello segnalato nel n. 12a della costituzione, e si riferisce alla dimensione profetica dell’intera Chie­sa, al suo rapporto con la verità salvifica rivelata da Dio mediante il Vangelo. In quel paragrafo si parla del “senso dei fedeli”, e cioè della capacità che l’intera comunità dei credenti ha, quale dono dello Spirito Santo, di essere portatrice e annunciatrice fedele della Parola di sal­vezza.
    Benché non venga detto esplicitamen­te, ciò significa il superamento radicale di quel dualismo tra “ecclesia docens” ed “ecclesia discens” di cui si è parlato so­pra. Tutta la Chiesa, attraverso tutti i suoi membri, è chiamata ad insegnare e tutta la Chiesa, attraverso tutti i suoi membri, è chiamata a imparare la Parola del Vangelo di Cristo. Nessuno ha quindi il monopolio assoluto della verità rivela­ta. E questo è il fatto primo, incontesta­bile. Solo dopo, e senza nulla togliere ad esso, viene il fatto secondo, e cioè la di­versità di servizi all’interno del ministero profetico, per via della quale alcuni sono chiamati a presiedere la comunità in que­sta linea (cf n. 25). Essere costituiti nel “magistero” della Chiesa, dice implicita­mente questo paragrafo, non significa diventare degli “speditori di verità” a de­gli interamente sprovvisti da essa, ma vi­ceversa animare l’intera comunità profe­tica nella ricerca della verità stessa.

    I carismi distribuiti a tutti

    Il terzo dato lo si trova germinalmente nel n. 12b, e poi esplicitamente sviluppa­to nei capitoli III, IV e VI della costitu­zione. Si tratta dei carismi che lo Spirito distribuisce alla comunità.
    Il testo si ispira chiaramente alla dot­trina di S. Paolo. Ora, dall’esame di que­sta tematica nei suoi scritti appare che per lui il carisma, contrariamente a ciò che si era soliti a pensare, non costituisce né un qualcosa di straordinario e miraco­loso, né un retaggio di solo alcuni nella Chiesa. Esso è un fatto di per sé comune e universale al suo interno, perché consi­ste nella chiamata e capacitazione date dallo Spirito in ordine al servizio dei fra­telli. “Nessuno tutti e tutti qualcuno” potrebbe essere la frase che esprime il re­gime dei carismi della Chiesa. Questa ri­sulta essere, quindi, un insieme di servizi reciproci suscitati e sorretti dallo Spirito Santo in ordine alla sua propria edifica­zione. Una ulteriore ragione di ugua­glianza radicale nella comunità ecclesia­le. Solo dopo questa affermazione di ca­rismaticità universale e senza intaccarla minimamente, si può passare a conside­rare la diversità e l’ordinamento dei carismi.
    Si può dire che i tre capitoli sopra ac­cennati corrispondono a tre blocchi di carismi accomunati da caratteristiche proprie: il capitolo IV al carisma dei laici o secolari; il capitolo VI al carisma dei religiosi.
    Quasi a ribadire la globalità di questo superamento della piramidalità e della separazione tra chierici e laici nella Chie­sa, la costituzione ha voluto dedicare un capitolo alla vocazione universale alla santità (capitolo V). La storia di tale ca­pitolo è stata molto travagliata. Ma la sua stessa attuale collocazione, frutto di ripetute discussioni, sta ad indicare an­cora una volta l’intenzione fondamentale del Concilio. Esso sta a dire, a grandi ca­ratteri, che la condizione di tutti e ognu­no dei membri della comunità è sostan­zialmente uguale, chiamati come sono da Dio a vivere in pienezza la proposta evangelica fatta da Gesù Cristo. La di­versità dei modi con cui va raggiunta tale pienezza non diminuisce in nulla tale uguaglianza.

    Un nuovo rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari

    Una terza innovazione la troviamo nell’ambito del rapporto tra Chiesa uni­versale e Chiese particolari. Specialmen­te dopo il Concilio di Trento e come mezzo per arginare il rischio di disgrega­zione che la minacciava, la Chiesa catto­lica rinforzò la sua già presente tendenza al monolitismo e alla uniformità, che comportava pure una forte tendenza alla centralizzazione.
    È probabile che ciò abbia contribuito a superare tale rischio. Le confessioni nate dalla Riforma sono andate infatti a finire in una frantumazione irrefrenabile che è ancora oggi in corso. La Chiesa cattolica invece si mantenne compattamente unita attorno al centro di comunione costituito dalla sede romana.
    Non però senza conseguenze anche ne­gative.
    L’idea di una Chiesa universale che poi si suddivide in amministrazioni mi­nori - diocesi, parrocchie - fortemente vincolate e anche subordinate all’ammi­nistrazione centrale, si diffuse ampia­mente. E, con essa, l’istanza all’unifor­mità nelle espressioni della fede, del cul­to, dell’organizzazione. I vescovi, alme­no in Occidente, finirono per essere pen­sati come vicari del papa, messi a capo di una parte della Chiesa per governarla in suo nome e con l’autorità da lui conferi­ta. Una Chiesa, in definitiva, nella quale tutto viene stabilito sostanzialmente dal­l’alto, da chi è a capo della piramide del potere, e dove non c’è reale spazio per la propria originalità particolare.
    La costituzione LG, sempre ispirata all’idea-guida della comunione, segnalò strade nuove in questo ambito. Non che abbia rifiutato l’idea di una Chiesa uni­versale; ma, ritornando ai primi momenti della Chiesa e accogliendo anche la trad­izione viva della ecclesiologia eucaristi­ca orientale, propose un modello comunionale di relazioni anche nei confronti delle Chiese particolari (cf nn. 13, 26).
    Concretamente, pensò la genesi dinami­ca della Chiesa a partire dal piccolo nu­cleo familiare visto come Chiesa dome­stica (cf n. 11d), passando per il gruppo (anche ridotto) di fedeli che si radunano attorno all’altare per celebrare l’Eucari­stia (cf n. 26a), e per la Chiesa particola­re presieduta da un vescovo (cf nn. 13d, 23a, 27a), fino alla Chiesa universale che risulta dalla comunione di tutte le Chiese particolari e che è presieduta dal Vescovo di Roma (cf n. 23a).
    Il monolitismo uniformizzante è quin­di eliminato; al suo posto c’è ora il prin­cipio della comunione nella diversità, che fa leva sulle due componenti di radice trinitaria: comunione fra diversi, diversi in comunione.
    Questo modo di vedere le cose ha il vantaggio di permettere ad ogni Chiesa particolare - con questo termine si inten­de oggi in genere la diocesi, ma lo si può allargare - di vivere il suo proprio ecclesiale secondo i suoi propri ritmi di cresci­ta, secondo le condizioni della sua ubicazione culturale e secondo i problemi reali che tutto ciò comporta. E di viverli a sua volta non da sola, ma in rapporto frater­no con le altre Chiese sorelle, ricevendo e dando in uno scambio veramente arricchente. Non più, quindi, un vedere le di­versità come minaccia, ma come poten­ziali ricchezze.
    Ha inoltre il vantaggio di far entrare in funzionamento il principio di sussidiarie­tà che è l’opposto del centralismo, e per il quale non si deve ricorrere ad una istanza superiore o più ampia prima di aver fatto ricorso all’istanza più vicina. Non si nega il bisogno di un centro, in questo caso la Chiesa di Roma che fin dall’antichità ha svolto tale ruolo, ma lo si ridimensiona in modo tale che permet­ta la giusta autonomia delle Chiese loca­li.
    All’interno di questa prospettiva la LG ha messo in luce una componente eccle­siale di grande importanza per la vita di comunione dell’intera Chiesa, il Collegio episcopale (cf nn. 19, 22, 23). Fondata su ragioni bibliche e di tradizione, ha di­chiarato che il ministero di presidenza delle Chiese locali, affidato ai vescovi, è un ministero regolato dal principio di co­munione. I vescovi presiedono le loro ri­spettive Chiese in comunione con gli altri fratelli, al cui capo c’è il Vescovo di Ro­ma, e tutti insieme, con lui, presiedono la Chiesa universale. Così, la costituzione comunionale della Chiesa si esprime an­che attraverso il modo di rapportarsi di coloro che ne hanno l’ultima responsabi­lità quale carisma dato dallo Spirito (cf n. 21).

    Un nuovo rapporto tra Chiesa cattolica e gli altri cristiani

    Una quarta innovazione apportata dalla costituzione in questione riguarda l’ambito del rapporto della Chiesa catto­lica con gli altri cristiani.
    Una lunga storia aveva portato a crea­re una situazione abbastanza evangelicamente contraddittoria in questo conte­sto. La rottura tra la Chiesa occidentale e orientale consumata nel secolo XI e quel­la con i Riformatori nel secolo XVI, av­venute tutte e due in contesti fortemente polemici, avevano creato atteggiamenti di forte ostilità reciproca tra le diverse confessioni cristiane. La Chiesa cattolica gestiva la situazione all’insegna del prin­cipio integrista del “tutto o nulla”, e di conseguenza considerava solo se stessa quale vera e unica Chiesa di Cristo e rite­neva le altre come non-chiese, eretiche o almeno scismatiche. Le manifestazioni concrete di una simile presa di posizione sono ben conosciute.
    Il Concilio, raccogliendo i positivi ri­sultati di decenni di sforzi fatti all’inter­no del movimento ecumenico, decise di impostare le cose diversamente. Ancora una volta il principio di comunione si re­se fecondo. Anzitutto, riconobbe che la Chiesa cattolica, pur essendo vera Chiesa di Cristo, non esaurisce tutta l’ecclesiali­tà, dal momento che ci sono al di fuori del suo organismo parecchi elementi di santificazione e di verità che sono doni propri della Chiesa di Cristo (cf n. 7b). E poi, dichiarò apertamente che questa Chiesa cattolica sa di essere per più ra­gioni congiunta con coloro che, battez­zati, sono insigniti del nome cristiano benché non professino integralmente la fede o non conservino l’unità di comu­nione sotto il successore di Pietro (cf n. 15). Così la LG pose le basi per l’ulterio­re documento Unitatis Redintegratio sul­l’ecumenismo, nel quale il principio con­duttore non sarà già quello dell’integri­smo, ma quello della gradualità della co­munione. Si aprono in questo modo delle nuove strade nel rapporto con gli altri cristiani, imperniati su criteri più oggetti­vamente evangelici. Ancora una volta viene deposto ogni atteggiamento trion­falista e lo si sostituisce con un atteggia­mento di modestia che sa riconoscere i propri limiti pur senza misconoscere le proprie ricchezze.

    Un nuovo rapporto fra Chiesa e mondo

    Un ambito di questi rapporti che costi­tuiscono come la spina dorsale della Chiesa resta da considerare, quello del rapporto Chiesa-mondo.
    La LG, come avremo occasione di rile­vare dopo, quando affronteremo la GS, non ha dedicato molta attenzione ad es­so. Si è concentrata prevalentemente su tematiche intra-ecclesiali, preoccupata di autodefinirsi come comunione e di trarne le conclusioni nei diversi ambiti del suo essere, del suo organizzarsi e del suo fun­zionare internamente. Abbiamo fatto già notare precedentemente come il rapporto col mondo sia stato vissuto, nella Chiesa-istituzione, in una chiave piuttosto teo­cratica.
    Ciò vuol dire che la coscienza cristiana non si era accorta dell’autonomia delle realtà mondane, e le considerava solo quali mezzi per raggiungere la sua finali­tà “spirituale”, “eterna”. Ciò spiega cer­ti atteggiamenti storici clamorosi, in cer­te tappe della storia ecclesiale, quali la manipolazione sacrale e clericale del po­tere politico, della cultura, ecc. Il mondo non veniva in realtà riconosciuto nella sua consistenza propria, e lo si conside­rava al massimo quale un’occasione per la costruzione del Regno di Dio.
    È nel capitolo IV, dedicato - per la prima volta nella storia dei concili - ai laici, dove si possono trovare alcuni ac­cenni germinali al tema.
    Già al n. 31b, cercando di identificare la specificità della vocazione laicale, la costituzione la ripone nella “indole seco­lare” della loro esistenza.
    Secolare dice rapporto al “secolo”, al “mondo”. Lì sono chiamati questi cri­stiani a svolgere il loro ruolo prevalente­mente con gli altri membri della comuni­tà credente. E sono chiamati a diventare fermento della santificazione del mondo.
    Poi, al n. 36, parlando della partecipa­zione di questi cristiani-laici alla funzio­ne regale di Cristo, la ripone appunto in questo impegno di trasfigurare il mondo con la luce di Cristo, affinché corrispon­da al disegno del Creatore.
    Queste affermazioni, benché ancora germinali, fanno già intravedere un at­teggiamento nuovo nei confronti del mondo. Non più dominio e asservimen­to, ma rispetto e collaborazione. Non so­lo, si insiste sull’idea che coloro che ope­rano nel mondo, tra le realtà “secolari” - e sono principalmente, benché non esclu­sivamente, i laici - debbano tener presen­te che tali realtà sono rette da principi propri che vanno rispettati adeguata­mente.
    Così, attraverso la considerazione del carisma laicale, il mondo entra nell’oriz­zonte della Chiesa, ed entra con la sua consistenza propria, benché orientata al compimento del piano di salvezza.

    COSTITUZIONE SULLA DIVINA RIVELAZIONE “DEI VERBUM”

    La genesi di questa costituzione fu una delle più travagliate tra tutte al Vaticano II. E, probabilmente, il luogo dove il Concilio ebbe occasione più decisiva per prendere una strada di rinnovamento. Il documento iniziale era stato preparato, infatti, con una sensibilità notevolmente anacronistica. Il suo stesso titolo “De fontibus revelationis”, che rifletteva una problematica d’indole piuttosto specula­tiva ereditata dal Concilio di Trento, sta a denunciarlo chiaramente. Fu lo stesso papa Giovanni XXIII a decidere, in mancanza di sufficienti voti, il ritiro del­lo schema e a creare una commissione mista, nella quale furono inclusi dei Pa­dri conciliari dotati di una sensibilità più consona alla maggioranza dei parteci­panti al Concilio, per una nuova elabo­razione. Dopo diverse successive reda­zioni, sempre sottoposte alle discussioni conciliari, il documento fu promulgato il 18 novembre 1965, avendo ricevuto nel­l’ultima votazione 2344 voti favorevoli e 6 contrari.
    La DV si fa eco, indubbiamente, di un mutato clima ecclesiale, che si esprime tra l’altro nel nuovo rapporto tra fede vissuta e Parola rivelata, soprattutto quella trasmessa dalla Bibbia. Uno degli effetti collaterali negativi delle decisioni del Concilio di Trento nel suo tentativo di arginare rischi creati dalla Riforma protestante, è stato appunto quello di al­lontanare sempre più sensibilmente i fe­deli, soprattutto i fedeli laici, dal contat­to diretto con il testo sacro. Si era arriva­ti ad una situazione paradossale nella quale, mentre i protestanti si vantavano di una dimestichezza e di una conoscenza approfondita della Bibbia, i cattolici avevano quasi paura di tenerla fra le ma­ni. Ne ascoltavano solo ordinariamente la lettura - e per di più in una lingua non propria - nelle celebrazioni liturgiche.
    Non pochi gruppi ecclesiali avevano cominciato a reagire al riguardo. Una ventata di fervore biblico aveva invaso la Chiesa nei decenni che precedettero im­mediatamente il Vaticano II. Tale fervo­re sfociò anche nella costituzione sulla divina rivelazione, che più di una volta invita i credenti in genere, e le diverse ca­tegorie ecclesiali, a riprendere in mano la Bibbia. “È necessario che i fedeli abbia­no largo accesso alla Sacra Scrittura”, dice al n. 22. E, nello stesso numero, in­troducendo l’invito a curare la sua tradu­zione, ribadisce ancora: “La Parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo”.

    Nuova impostazione di fondo

    La più grossa novità di questa costitu­zione non è tanto in verità nella linea dei contenuti, sui quali parleremo pure in se­guito, bensì nella linea dell’impostazione fondante dell’intero discorso. E ciò si co­glie nel primo capitolo, nel quale viene affrontato il tema della rivelazione e del­la fede.
    La novità consiste nella sensibilità cul­turale a partire dalla quale viene impo­stato il discorso. Non più quella classica, di taglio prevalentemente speculativo, ma quella esistenziale-personalista, nella quale si muove la teologia rinnovata di questi ultimi decenni. Il documento, infatti, riprende le affermazioni che al ri­guardo aveva fatto il Vaticano I in un contesto storico-culturale molto diverso, e con alcuni lievi ritocchi riesce a farle slittare verso questo nuovo orizzonte di cultura.
    Due brevi riferimenti saranno suffi­cienti per confermare ciò che è stato det­to. Anzitutto, sul modo in cui la costitu­zione parla della natura della rivelazione divina. Essa apre il suo primo capitolo affermando che tale rivelazione ha la sua radice nella decisione di Dio di rivelare “se stesso e il mistero della sua volontà” (n. 2). Come si vede, soprattutto se si tie­ne conto che questo “mistero” cui si fa riferimento attraverso una frase di S. Paolo nella lettera agli Efesini (1, 19) è il progetto salvifico di Dio, il fenomeno della rivelazione è pensato in una chiave eminentemente personalista. Non è già un mero comunicare, da parte di Dio, dei “misteri”, ossia delle “verità” che supe­rano la capacità dell’intelligenza umana, come veniva concepita comunemente nell’impostazione anteriore, ma come un aprire, da parte di Dio, la propria inte­riorità divina, il proprio segreto persona­le più intimo, per libera e amorevole de­cisione, all’uomo per offrirgli la possibi­lità di una comunione nell’amicizia. “Nel suo grande amore Dio parla agli uomini come ad amici, e si intrattiene con essi per invitali e ammetterli alla comunione in sé”. Questa frase, costruita sulla base di diversi testi biblici (Es 33, 11; Gv 15, 14-15; Bar 3, 38), esprime palesemente la nuova ottica con la quale si rilegge que­sta componente dell’economia cristiana che è la rivelazione.
    L’altro riferimento riguarda il modo con cui la costituzione parla della fede quale risposta alla rivelazione divina (n. 5). È qui ancora più evidente lo sposta­mento culturale nei confronti della costi­tuzione sulla fede del Vaticano I. Infatti, vengono riprese espressioni letterali di tale costituzione, ma all’interno di un impianto nuovo, che le conferiscono una portata nuova. Ecco come si esprime la DV: “A Dio che rivela è dovuta ‘l’obbe­dienza della fede' (Rom 16, 26; cf Rom 1, 5; 2 Cor 10, 5-6), con la quale l’uomo si abbandona a Dio tutt’intero liberamente”, e non già semplice­mente l’intelligenza, e la sua risposta fondamentale è quella dell’abbandono fiducioso al Dio che si rivela personal­mente. Tutte puntualizzazioni che confe­riscono al credere una caratterizzazione apertamente personalista.
    Oltre a questa novità di fondo, la DV ha significato un grosso contributo attra­verso diverse tematiche affrontate in mo­do rinnovato, segno dell’accoglienza del­le istanze rinnovatrici presenti nel Conci­lio. Ci riferiamo alle principali.

    Il senso teologico della storia

    Nel già citato primo capitolo della co­stituzione troviamo un primo apporto carico di conseguenze per la vita di fede della Chiesa. Si tratta del rapporto tra ri­velazione e storia.
    Ad una concezione accentuatamente “intellettualizzante” della fede aveva corrisposto, soprattutto nella teologia cattolica, quella concezione di rivelazio­ne che faceva leva prevalentemente sulle parole in quanto tali. I fatti storici, gli avvenimenti del popolo credente erano visti piuttosto come una conferma o un chiarimento di esse.
    La DV, accogliendo una istanza che si era venuta affermando per via dell’ac­cresciuta sensibilità storica contempora­nea nella Chiesa e nella teologia, ha ca­povolto questo modo di concepire le co­se. Ha sì affermato che il progetto della rivelazione si realizza “mediante eventi e parole intimamente connessi” (n. 2), ma già l’ordine in cui ha nominato queste componenti di tale progetto è un indizio di come lo pensa. Vi è però di più. Rife­rendosi a continuazione specificamente agli avvenimenti, sostiene che “le parole portano alla luce il mistero in essi conte­nuto”. Questa frase è molto importante. Essa sta a dire della densità divina degli avvenimenti storici. Infatti, se “mistero” significa il piano divino di salvezza per gli uomini (cf n. 1), qui si dice che tale mistero è “contenuto” negli eventi. Essi sono, di conseguenza, abitati dal mistero prima ancora che le parole lo dicano. Hanno uno spessore divino di salvezza che le parole non fanno che svelare. Pa­rola di Dio non è quindi solo né princi­palmente la parola pronunciata, ma la storia stessa del popolo credente. Le con­seguenze di una tale concezione saranno tratte nella GS, al n. 11a, dove essa verrà dilatata fino ad abbracciare non solo la storia del popolo credente, bensì quella dell’umanità in quanto tale.

    Protagonismo dei fedeli

    Un secondo apporto lo troviamo nel­l’ambito del capitolo secondo, dedicato al tema della trasmissione della divina ri­velazione. Parlando lì della Tradizione, che insieme con la Scrittura costituisce come un unico specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio (cf n. 7b), ne mette in rilievo il carattere eminentemente dinamico. Sostiene, in­fatti, che essa “progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo” (cf n. 8b). È poi interessante notare che, tra i fattori di questo progresso, la costituzio­ne enumeri come primi la riflessione e la dedicazione dei credenti e l’esperienza spirituale dei medesimi, e solo dopo la predicazione di coloro che con la succes­sione apostolica hanno ricevuto un cari­sma sicuro di verità. Dopo secoli di una visione che attribuiva prevalentemente - e alle volte quasi esclusivamente - al ma­gistero autoritativo il servizio della Parola, ora viene riconosciuta la funzione in­tralasciabile della totalità dei credenti in tale servizio. È innegabile l’influsso eser­citato su questa asserzione dalla nuova impostazione ecclesiologica della LG pri­ma analizzata.

    Funzione del Magistero

    Ancora in questo contesto facciamo rilevare un terzo contributo, quello ri­guardante il rapporto tra Magistero della Chiesa e Parola rivelata. Abbiamo fatto riferimento poco prima ad una situazio­ne ecclesiale vissuta per non poco tempo. L’influsso del modello di Chiesa istitu­zionale aveva portato a poco a poco a concepire le cose in moto tale che si era finito per pensare praticamente il magi­stero della Chiesa al di sopra della stessa Parola rivelata. Ora il rinnovamento ec­clesiologico, pur senza tralasciare l’im­portanza di tale ufficio nell’insieme dei servizi ecclesiali, ha portato a ridimen­sionare adeguatamente le cose. La costi­tuzione afferma, al riguardo: “L’ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale magistero però non è su­periore alla Parola di Dio ma ad essa ser­ve, insegnando solo ciò che è stato trasmesso (...)” (n. l0a). Non quindi padrone, ma servo: della Parola e della comu­nità che l’accoglie nella fede.

    Criteri rinnovati di interpretazione

    Nel contesto della Parola scritta, di quella cioè che è contenuta nei libri della Sacra Scrittura (cf n. 11a) e che la Chiesa ha sempre venerato come ha fatto con il Corpo stesso di Cristo (cf n. 21a), la DV ha affrontato anche il tema riguardante la sua interpretazione. Ha voluto farsi eco dei progressi ingenti realizzati in que­sto ambito, da qualche decennio in qua, grazie allo sforzo di non pochi studiosi non sempre inizialmente ben visti per via di un’inerzia di secoli che portava a lettu­re di altro genere del testo biblico. Non si può ignorare, al riguardo, l’influsso no­tevole esercitato dagli studiosi protestan­ti.
    In concreto, partendo dall’affermazi­one agostiniana secondo la quale nella Scrittura Dio ha palato per mezzo di uo­mini e alla maniera umana (cf n. 12a), ha enunciato il principio fondamentale secondo il quale per capire ciò che Dio ha voluto comunicare attraverso gli scritti, bisogna ricercare con attenzione che cosa gli scrittori stessi abbiano inteso signifi­care. E ha ancora specificato che, per co­gliere ciò che gli agiografi hanno voluto significare, occorre tener conto, tra l’al­tro, dei “generi letterari” da loro adope­rati. Il “tra l’altro” del testo lascia aperta la porta per tanti altri accorgimenti che, nelle ricerche degli ultimi decenni, sono stati rilevati dai competenti.

    LA COSTITUZIONE PASTORALE “GAUDIUM ET SPES”

    Si è già anticipata l’informazione sulla novità di questo documento all’interno della produzione del Concilio. Esso in­fatti non era in programma all’inizio del­la sua celebrazione. Fu l’accentuata sensibilità di non pochi Padri conciliari e dei loro assistenti-esperti a dargli origine. Ne fu un anticipo il messaggio iniziale, indirizzato dai membri del Concilio a tutti gli uomini di buona volontà - fatto inimma­ginabile in concili precedenti per via della situazione storica in cui venivano cele­brati -, e sollecitato inizialmente da alcu­ni dei teologi più sensibili ai mutamenti storici avvenuti e ai grossi problemi da essi posti all’umanità intera. Ma, in realtà, nessuno degli schemi preparati per l’assemblea conciliare aveva come tema­tica centrale tali problemi, benché ci fos­sero qua e là degli accenni ad essi. Ad un certo momento però si sentì il bisogno di (“aprire le finestre” e guardare queste realtà in faccia. È così che sorse l’idea di fare un nuovo documento, chiamato ini­zialmente “Schema XVII” e poi successi­vamente “Schema XIII” e Costituzione pastorale “Gaudium et Spes”.
    Esaminata in profondità, essa non è altro che lo sviluppo e l’esplicitazione del già ricordato messaggio iniziale. Anche lessicalmente si assomigliano. L’iter del­la sua elaborazione fu uno dei più trava­gliati e difficili, e il risultato - bisogna riconoscerlo - è solo relativamente sod­disfacente. Non si può nascondere che si tratta di un documento immaturo, im­perfetto, in cui ad una prima parte omo­genea e compatta, fa seguito una secon­da fatta da sviluppi tematici non sempre in perfetta sintonia con quelli della pri­ma. La presenza di diverse mani nella sua elaborazione è palese. Fu approvato, con 2111 voti favorevoli, 251 contrari e 11 nulli, il 7 dicembre 1965, vigilia della conclusione del Concilio.

    Una novità: il metodo prevalentemente induttivo

    Una prima caratteristica di questa co­stituzione nei confronti degli altri docu­menti è la novità del metodo con cui pro­cede. In tutti gli altri il metodo è quello classico della deduzione. Posti dei princi­pi, presi naturalmente dalla rivelazione, se ne traggono le logiche conclusioni.
    Qui, invece, il metodo è prevalente­mente induttivo. Soprattutto nell’esposi­zione introduttiva, che apre l’intero do­cumento, e nella prima parte che, come si disse, è quella più caratterizzante. L’e­sposizione introduttiva è nient’altro che una descrizione approfondita della situa­zione storica in cui si trova l’umanità at­tuale, segnata dal fatto di una profonda metamorfosi sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche nella vita religiosa (cf n. 4b).
    È questa situazione quella che crea i più grossi problemi che interessano l’u­manità intera, e che costituisce il punto di partenza della riflessione della costitu­zione.
    Nella prima parte, poi, i tre primi ca­pitoli riguardanti la dignità della persona umana, la comunità degli uomini, e l’at­tività umana nell’universo, hanno un an­damento identico: partono dalla situa­zione umana in quanto tale e dopo, alla fine, ricorrono al dato rivelato per tro­varvi l’illuminazione definitiva. A sua volta questi tre capitoli costituiscono co­me la piattaforma del quarto, nel quale il tema è la missione della Chiesa nel mon­do contemporaneo, e che situa tale mis­sione in risposta ai suaccennati problemi. La seconda parte della costituzione, ben­ché non così linearmente, imposta le cose in modo simile, affrontando “alcuni aspetti più urgenti” della situazione sto­rica attuale (matrimonio e famiglia, cul­tura, vita economico-sociale, vita della comunità politica, promozione della pa­ce e comunità dei popoli).

    L’ecclesiologia di fondo

    L’impostazione ecclesiologica di fon­do della GS non è esattamente quella della LG, benché non la contraddica.
    Essa è stata magistralmente espressa da Paolo VI nella sua omelia del 7 di­cembre 1965, in cui questo papa tentò di fare un primo bilancio, a caldo ancora, dei lavori conciliari in fase di chiusura. Ad un certo momento affermò, quasi a modo di proclama: “La Chiesa si dichia­ra quale serva dell’umanità”. Queste pa­role, lette sullo sfondo della costituzione pastorale appena approvata dal Conci­lio, traducono il nuovo orientamento ec­clesiologico assunto. E implicano un au­tentico “giro copernicano”.
    Per secoli la Chiesa era vissuta nella convinzione di essere il centro del mon­do, di essere una realtà dell’ordine dei fi­ni. La concezione del suo rapporto con il Regno di Dio in chiave di identità o coin­cidenza aveva contribuito in buona mi­sura a questo. Ciò la portava a quell’ec­clesiocentrismo che neppure la svolta provocata dalla LG era riuscita a smuo­vere. La comunionalità della costituzio­ne dogmatica è ancora, infatti, una co­munionalità ripiegata su se stessa, che vede il mondo come qualcosa da conqui­stare e da, almeno in qualche modo, “ecclesializzare” affinché arrivi ad essere quel Regno di Dio sognato e cercato. L’ordine delle domande che la Chiesa si pone è ancora quello ricordato sopra, nel quale quella riguardante la natura prece­de quella della missione, e può in realtà essere risposta senza questa. La Chiesa prima è, e poi agisce. Il suo essere è defi­nito senza un riferimento intrinseco al suo fare.

    La Chiesa è nel mondo e per il mondo

    Nella GS le cose cambiano profonda­mente. La Chiesa non si pensa più come un fine, ma come un mezzo, come uno strumento. Il fine unico è il Regno di Dio. Si traggono così le conseguenze ulti­me di quel rinnovato modo di concepire il rapporto Chiesa-Regno cui abbiamo accennato precedentemente.
    Già durante l’intervallo tra il primo periodo conciliare e il secondo (anno 1962-1963) l’allora card. Montini aveva affermato, cercando di sintetizzare il senso della ricerca ecclesiologica conci­liare in corso: “La Chiesa va in cerca del mondo per autodefinirsi”. Il che vuol di­re che, in questa rinnovata coscienza ec­clesiale, il mondo entra nella definizione stessa della Chiesa; essa non può definire il suo essere senza tener conto del suo rapporto con il mondo. Ora qui, nella GS, si viene a proclamare a voce alta questa convinzione: la Chiesa è nel mon­do e per il mondo. È nel mondo, anzitut­to, e non al di fuori di esso - sia sopra, sia accanto, sia, ancora meno, contro di esso -, come è capitato in altri momenti storici. Ed essendo nel mondo, è per il mondo, è a suo servizio (cf n. 3d). Quin­di, tutto ciò che essa è, ha e fa, tutto deve essere ordinato a questo servizio. Come in ogni strumento, il suo essere interno viene definito da questo scopo per il qua­le esiste. Si può perciò dire che il suo “da fare” nel mondo definisce il suo “esse­re”.
    Ma quale servizio? Ecco le parole let­terali di risposta della costituzione stessa: mettere “a disposizione degli uomini le energie di salvezza che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, riceve dal suo Fondatore. Si tratta di salvare la persona umana, si tratta di edificare l’umana so­cietà” (n. 3b). Un servizio di salvezza, dunque; ma di una salvezza concepita in forma rinnovata.
    Le due caratteristiche menzionate nel testo ne danno il senso fondamentale: in­tegrale, sociale. Si tratta di una salvezza che prende di mira l’uomo in tutte le sue dimensioni, senza escludere - anzi inclu­dendole - quelle sociali. Poco più avanti, al n. 4, il testo mette fortemente in evi­denza un’altra dimensione, quella stori­ca, che è presa fortemente in considera­zione nell’intera costituzione. Si tratta, quindi, di una concezione della salvezza che supera i dualismi che la contrasse­gnavano in altri momenti culturali: anima-corpo, individuo-società, terra-cielo. Salvare significa portare a pienezza l’uomo intero, singolo e collettivo.

    Una ecclesiologia “transecclesiale”

    Se si volesse condensare in una sola parola la caratterizzazione fondamentale di questa ecclesiologia della GS, lo si po­trebbe fare mediante la parola “transec­clesialità”.
    Essa sta ad indicare, appunto, che la Chiesa è tutta protesa a cogliere e a cer­care di dar soluzioni ai problemi che in­teressano gli uomini in quanto tali. Una Chiesa che in certo qual modo dimentica se stessa, i suoi propri problemi interni, per accudire a quelli dell’umanità nella quale è inserita e che, di conseguenza, toccano anche i suoi membri. O, se si vuole dire forse in forma più severa, una Chiesa che, pur senza tralasciare i suoi problemi di indole intraecclesiale, con­centra prevalentemente la sua attenzione su quelli transecclesiali e ridimensiona i primi alla luce di questi secondi.
    Torniamo a ribadirlo: non è che que­sta impostazione ecclesiologica della GS ignori o sopprima le ricchezze straordi­narie di quella della LG. Le riconosce e le accoglie, ma per aprirle in una nuova di­rezione, quella del servizio all’umanità. È per questo che essa dà per scontata l’accettazione di tutte le novità apportate intraecclesialmente dal Concilio, e che non discute minimamente.

    Altre accentuazioni fondamentali

    Attorno alla transecclesialità appaiono nella GS una serie di altre caratteristiche che vengono ad esplicitarla e a renderla più evidente. Ne prendiamo in conside­razione le principali.

    L’attenzione ai “segni dei tempi”

    Anzitutto, la presa in considerazione dei “segni dei tempi”. Appunto perché la costituzione è tutta permeata da uno spiccato senso storico, eco della diffusa sensibilità contemporanea, ha sentito il bisogno di fare attenzione a questa tema­tica. I segni dei tempi, sociologicamente parlando, sono quegli avvenimenti, fu­gaci o durevoli, che puntano verso una situazione nuova dell’umanità, quindi verso il futuro, anticipandola già parzial­mente e imperfettamente nel presente. Ovviamente, l’agente operatore di tali segni è la libertà collettiva degli uomini, in stretta vincolazione con la natura. Ora, seguendo una linea teologica che si era andata affermando in questi ultimi decenni, il Concilio ha voluto evidenzia­re la valenza teologale di tali segni. E la costituzione pastorale è il luogo dove ciò è avvenuto in forma palese (cf nn. 4a, 11a). Essa sottintende che questi segni sono il materiale privilegiato del servizio ecclesiale, appunto perché è in essi che si gioca prevalentemente il futuro dell’u­manità e, in esso, la realizzazione del progetto di Dio.

    L’accentuazione della dimensione profetica

    In secondo luogo, e in stretto collega­mento con quanto è stato appena detto, si deve registrare l’accentuazione della dimensione profetica della comunità ec­clesiale. Due testi lo ribadiscono chiara­mente. Il n. 4a, che sostiene che per svol­gere il suo servizio di salvezza è dovere permanente della Chiesa di scrutare i se­gni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, e il n. 11a che, concretiz­zando ancora maggiormente le cose, dice che il popolo di Dio deve cercare di di­scernere negli avvenimenti, nelle ricerche e nelle aspirazioni cui prende parte insie­me con gli altri uomini del suo tempo, i segni veri della presenza o del piano di Dio. Questi due testi traducono, in for­ma attuale e comprensibile, ciò che fu la funzione profetica già nell’antico popolo d’Israele e anche nelle comunità neote­stamentarie, ma inquadrandola sullo sfondo di quella apertura transecclesiale che caratterizza il modello ecclesiologico della GS. Si viene così a dire che, per una Chiesa impegnata prevalentemente sul fronte dei grossi problemi storici dell’u­manità, il discernimento profetico risulta indispensabile. Non solo, ma che esso dà la tonalità propria a tutta l’attività eccle­siale, anche a quella culturale.

    La centralità del dialogo

    In terzo luogo è da rilevare l’insistenza con cui la costituzione parla di uno dei modi concreti in cui la Chiesa deve rea­lizzare il suo servizio al mondo, e cioè il dialogo (cf n. 3b, 4a). Già la LG aveva superato quella concezione secondo la quale la realtà veniva spaccata in due, ri­ponendo nella Chiesa la totalità della ve­rità e nel resto l’errore e l’inganno. Ma lo aveva fatto nell’ambito ecumenico dei rapporti tra le diverse confessioni cristia­ne. Qui il superamento è molto più largo, poiché viene fatto nell’ambito dei rap­porti della Chiesa con il mondo. Dialo­gare significa ricercare insieme la verità. E ricercare la verità suppone che si abbia coscienza di non possederla, o almeno di non possederla pienamente. Il mondo, e cioè la storia umana in quanto tale, non è unicamente una congerie di errori e di menzogne; c’è molto di verità in esso, nelle sue ricerche, nei suoi tentativi di miglioramenti in umanità. Il fatto di ave­re in mano il Vangelo, verità ultima sul­l’uomo, non dispensa la Chiesa dallo sforzo di cercare la sua realizzazione sto­rica. E in questo tentativo può ricevere molto dalla storia e dallo sviluppo del ge­nere umano (cf n. 44a). Ecco la ragione ultima del dialogo. Non più quindi un at­teggiamento di semplice magistero, ma atteggiamento di condivisione nella ri­cerca, sempre guidata dalla luce che alla Chiesa viene dal Vangelo di Gesù Cristo. Tutto ciò finalizzato, come dice la stessa costituzione, ad un unico e supremo sco­po: “che venga il Regno di Dio e si realiz­zi la salvezza dell’intera umanità” (n. 45a).

    L’autonomia delle realtà terrene

    Un’ultima istanza è da rilevare nell’ec­clesiologia di servizio all’umanità propo­sto dalla GS, e cioè l’importanza del ri­conoscimento dell’autonomia delle real­tà terrene. Parlando del rapporto Chie­sa-mondo nella LG ne abbiamo fatto un cenno, sostenendo che le cose erano lì appena abbozzate. Ora sono apertamen­te affermate, soprattutto nel n. 36 del ca­pitolo dedicato all’attività umana nel mondo: “Le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e or­dinare”. Quest’autonomia sottrae le realtà del mondo da quella tutela teocra­tica e sacrale alla quale sono state sotto­poste per secoli, in altri progetti ecclesiologici. Un caso emblematico, al quale fa un velato riferimento la stessa costituzio­ne, è quello di Galileo, nel quale in nome della fede si è voluto imporre delle prese di posizione scientifiche.
    Nel suo servizio al mondo la Chiesa non può non tenerne conto, anzi dovrà procedere con grande modestia e discre­zione, sapendo che non per il fatto di avere la luce della fede possiede anche la conoscenza delle leggi che reggono le at­tività mondane.

    ARTICOLAZIONE DELLE COSTITUZIONI ALL’INTERNO DELLA PRODUZIONE CONCILIARE

    Come ho avuto occasione di dire pre­cedentemente, la LG costituisce una co­lonna portante dell’intero edificio del Concilio. Essa ha in certo senso polariz­zato attorno a sé tutti gli altri documenti e ha dato loro ispirazione e organicità. Questa affermazione comporta però il ri­schio di concepire piattamente il Conci­lio stesso, come se esso non avesse costi­tuito un vero e reale processo di crescita e maturazione dell’autocoscienza ecclesia­le.
    Se il Vaticano II viene visto invece in questo ultimo modo, allora tale afferma­zione va ridimensionata.
    La costituzione dogmatica sulla Chie­sa ha certamente un peso molto grande in esso e ne costituisce una tappa fonda­mentale, ma non l’ultima. Secondo quanto è apparso dalla presentazione della GS, bisogna concludere che l’ulti­mo passo dato in Concilio, la vera tappa ultima della sua maturità (sempre relati­va) è costituita da essa, soprattutto con la sua rinnovata impostazione ecclesiolo­gica. La costituzione pastorale, come si è già rilevato più di una volta, non ha né ignorato né rinnegato le ricchezze inno­vatrici della LG; le ha recepite tutte supe­randole però in quella nuova prospettiva transecclesiale che la caratterizza fonda­mentalmente.
    Stando le cose così, bisogna trarne le conclusioni. E la principale è che nell’ar­ticolazione di queste quattro costituzioni conciliari la Gaudium et Spes dovrebbe svolgere un ruolo egemonico. Non solo, ma va anche aggiunto che si dovrebbe fa­re una rilettura di tutte e tre le altre alla luce di essa. Il Concilio non ha potuto farlo, ovviamente, per mancanza di tem­po, ma anche forse per mancanza di suf­ficiente distanza. Non ebbe l’opportuni­tà di riflettere sull’intero suo operato. Ora però, passato il tempo e con la possi­bilità di avere una sufficiente prospetti­va, occorre farlo. Una rilettura del Vati­cano II che voglia essergli fedele non può assolutamente dimenticarlo, a rischio di travisare radicalmente il suo messaggio.


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