Identità, struttura, portata
Luis A. Gallo
(NPG 1987-09-04)
Rileggere presuppone, ovviamente, aver prima letto. Se si tratta, come nel nostro caso, di una rilettura del Vaticano II a partire dalle nuove situazioni storico-culturali che si sono create dopo vent’anni, risulta indispensabile far ritorno al testo originale per scoprire in esso la “sostanza viva” che si vuole sottoporre a un processo di attualizzazione. È questo appunto lo scopo di questo mio intervento. Presenterò quindi in forma “esegetica” le quattro costituzioni elaborate dal Concilio, affinché possa venir fatto poi un lavoro di comprensione attuale di esse. Tralascio di dichiarare espressamente i criteri con cui lavorerò. Essi appariranno implicitamente dallo stesso modo in cui il lavoro verrà fatto.
Come ebbe occasione di mettere bene in rilievo l’ultimo Sinodo dei Vescovi, convocato appunto per commemorare il ventesimo del Concilio, tra i sedici documenti approvati quelli che fanno da linea portante sono le quattro costituzioni dedicate rispettivamente alla liturgia (Sacrosanctum Concilium = SC), alla divina rivelazione (Dei Verbum = DV), alla Chiesa in se stessa (Lumen Gentium = LG) e alla Chiesa nel mondo attuale (Gaudium et Spes = GS). Tra di esse, due sono considerate dallo stesso Vaticano II come “dogmatiche” (quelle sulla rivelazione e sulla Chiesa in se stessa), una è detta semplicemente costituzione su “la sacra liturgia”, e l’ultima è intitolata “pastorale”.
È innegabile l’influsso esercitato dalla costituzione dogmatica sulla Chiesa sull’intero corpo dei documenti. In certo qual modo tutto quanto il loro contenuto si può articolare attorno ad essa come attorno ad un asse centrale. Ciò è chiaro anche per la costituzione sulla liturgia che, pur approvata prima per motivi storici facilmente comprensibili (il movimento liturgico arrivò molto maturo al Concilio), si può considerare sostanzialmente appartenente alla costellazione della LG. E, come avremo occasione di vedere, anche la costituzione pastorale, malgrado la sua grossa novità ecclesiologica, non si potrebbe capire senza un riferimento a tale costituzione.
Dette queste cose di indole piuttosto generale, passeremo ora a rivisitare tali costituzioni, cercando di cogliere ciò che in esse è più sostanziale. Dopo la presentazione dei singoli documenti, metteremo in evidenza il rapporto che c’è tra di essi.
LA COSTITUZIONE SULLA SACRA LITURGIA “SACROSANCTUM CONCILIUM”
Quando si radunò il Vaticano II per iniziare i suoi lavori (anno 1962), il movimento liturgico poteva contare su un lungo cammino già percorso. Era nato dalla sensibilità degli ambienti monastici e si era poi diffuso in ampi strati della comunità ecclesiale, non senza difficoltà e opposizioni di diversa indole. A poco a poco si erano andati facendo dei passi notevoli di rinnovamento nell’ambito delle celebrazioni sacramentali e liturgiche, e dalle basi il movimento era arrivato anche alle supreme istanze della Chiesa, fino ad avere una approvazione solenne e ufficiale con l’enciclica Mediator Dei di Pio XII (anno 1947). Ciò spiega, come si è già detto, la relativa facilità con cui la costituzione sulla sacra liturgia si fece strada nel Concilio e con cui fu approvato il 4 dicembre 1963 con 2147 voti positivi e solo 4 negativi.
Questa costituzione costituì certamente un contributo notevole al cambiamento di mentalità non solo nell’ambito liturgico come tale, ma anche nell’intera impostazione ecclesiologica e, più in là ancora, nel modo di concepire e di vivere la fede in genere. Esplicitiamo a continuazione alcuni dei principali contributi specifici in questo senso.
Inquadramento della liturgia nella vita della Chiesa
Con il movimento liturgico si era andata smuovendo una concezione abbastanza radicata tra i cristiani, secondo la quale i riti, le celebrazioni, le espressioni culturali erano ritenuti come degli ornamenti accessori, delle “cerimonie” aggiunte a ciò che è veramente sostanziale nella vita di fede. Ora, la SC ha ufficializzato tale spostamento di ottica. Anzitutto ha sostenuto che la liturgia è tutta imperniata sul sacrificio eucaristico e sui sacramenti (cf n. 6), e che per mezzo di essa si attua l’opera della salvezza (cf cap. I). Quindi, non un qualcosa di sovrapposto e di posticcio, di semplicemente ornamentale, ma di veramente sostanziale per la vita della Chiesa. Essa è “un’opera grande” (cf n. 7a), con la quale viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati (cf n. 7b), e il cui protagonista principale è Cristo, sempre presente alla sua Chiesa (cf n. 7a) associata a questo scopo da lui quale sposa amatissima (cf n. 7b).
La costituzione non solo ha riscattato la liturgia da una concezione che in realtà la svuotava dalla sua genuina densità, ma le ha attribuito inoltre un posto centrale nella vita della comunità dei credenti. Ha sostenuto infatti che, malgrado non esaurisca tutta l’azione della Chiesa (cf n. 9a), essa “è il culmine verso cui tende - tale azione - e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua forza” (cf n. 10a).
Tale centralità è affermata, come si vede, nella prospettiva di una vita cristiana che germoglia e si sviluppa nella conversione della fede, e che si esprime poi nella testimonianza di un impegno modellato sull’insegnamento evangelico (cf n. 9 a.b).
Liturgia o vita cristiana in dimensione comunitaria
Per chi conosce pur superficialmente la storia della vita della Chiesa, risulta innegabile il fatto che durante i secoli si era andata infiltrando e rafforzando tra i cristiani una concezione accentuatamente individuale e addirittura individualista delle celebrazioni liturgiche e, in genere, dell’intera vita di fede.
Basterebbe esaminare la maniera in cui fu vissuta l’eucaristia, il principale dei sacramenti, per convincersene facilmente. A cominciare dal segno centrale, quello del pane consacrato ridotto a poco a poco a delle sottili ostie già ritagliate in antecedenza alla celebrazione, tutta una serie di espressioni corporali, vocali, spaziali, ecc. riflettevano una impostazione imperniata molto più sui singoli individui che sulla comunità in quanto tale. A questo si aggiungeva un modo di gestire le cose in cui il vero soggetto delle celebrazioni erano i ministri, mentre il resto - “il popolo” - se ne stava a sentire o a vedere passivamente ciò che essi facevano - per di più in una lingua ormai in genere sconosciuta -, malgrado “occupato utilmente” in altre espressioni cultuali parallele.
Che questa situazione riflettesse una mentalità più generalizzata, secondo la quale la stessa fede finiva per essere vissuta in maniera fortemente individualista, è anche facile da constatare. Ne è una dimostrazione la così popolarmente diffusa frase “salva l’anima tua”, che in qualche modo condensava sia l’impostazione pastorale sia la tendenza generalizzata dei cristiani.
Uno dei pregi del movimento liturgico, che ebbe la sua “canonizzazione” nella costituzione conciliare, è quello di aver risvegliato il senso comunitario della liturgia e, per mezzo di essa, di tutta la vita ecclesiale. Al n. 26 troviamo enunciato un criterio veramente fondamentale: “Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che è ‘sacramento di unità’ (...); perciò tali azioni appartengono all’intero Corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano”. Non c’è quindi spazio per l’individualismo liturgico, tutto è intrinsecamente comunitario e come tale deve anche manifestarsi. Il vero soggetto delle celebrazioni è l’intera comunità e non solo alcuni, che agirebbero “per” gli altri, considerati come meri destinatari della loro azione.
In realtà, ogni celebrazione è, secondo questa impostazione, una con-celebrazione e, da questo punto di vista, la sua autenticità è data dalla partecipazione attiva di tutti i suoi membri.
Si intravedono così le implicanze che questa istanza ha per l’intera vita della Chiesa. Essa è “sacramento di unità”, un “corpo” che non è la semplice somma degli individui, ma che implica anche i loro rapporti vicendevoli e perciò la loro partecipazione attiva e corresponsabile.
All’interno di questa prima affermazione, ce n’è un’altra che non va trascurata: nelle azioni liturgiche “i singoli membri (del Corpo della Chiesa) vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, uffici e dell’attuale partecipazione” (cf n. 26b; cf anche n. 28). Comunitarietà non significa indistinzione e uniformità. Appunto perché si tratta dell’attività di una comunità variegata, nel seno della quale al fatto primo dell’uguaglianza fraterna segue, senza sopprimerlo, il fatto secondo della diversità di condizione per differenti ragioni. È così che la celebrazione risulta una “sinfonia” nella quale ognuno contribuisce con la sua propria partecipazione, una partecipazione che è appunto “sua”, e cioè segnata dalla sua originalità. Tale originalità è data qui dalla diversa maniera con cui ognuno è chiamato a vivere la fede comune all’interno dell’unica comunione ecclesiale. Una di esse, di non trascurabile importanza, è certamente quella di chi presiede (vescovo: cf n. 42; presbitero: cf n. 42) e porta sulle spalle l’ultima responsabilità dell’intera celebrazione. Ma, secondo il pensiero della costituzione, ultima responsabilità non significa unica responsabilità. Anzi, si dovrebbe dire che la responsabilità dei ministri è precisamente quella di suscitare, animare e armonizzare la corresponsabilità di tutti e ognuno dei partecipanti.
Trasferito all’intero ambito della vita ecclesiale questo principio è carico di conseguenze.
Il principio dell’adattamento
La SC, anticipandosi in questo a quando verrà fatto oggetto di speciale attenzione nel Sinodo dei Vescovi del 1974, ha enunciato nitidamente quello che oggi, dopo quel Sinodo, si è soliti chiamare “il principio dell’inculturazione”.
Non è un mistero a nessuno che sia anche minimamente informato il fatto che, soprattutto a partire dal Concilio di Trento e come mezzo per arginare il grave rischio di sgretolamento della Chiesa, s’instaurò in essa un regime fortemente centralizzato. La portata di questo regime travalica l’ambito liturgico certamente, ma trova in esso un terreno di speciale attuazione.
Questa costituzione proclamò una profonda innovazione in tale ambito: “La Chiesa, quando non è in questione la fede o il bene comune generale, non intende imporre, neppure nella liturgia, una rigida uniformità; anzi rispetta e favorisce le qualità e le doti di animo delle varie razze e dei vari popoli” (cf anche nn. 65, 118, 119). Una delle applicazioni più chiare e più immediate di tale enunciato si ebbe nella decisione sulla lingua. Dopo secoli di impiego di una lingua unica in tutte le parti del mondo - il latino -, il Concilio decise di aprire le porte all’utilizzazione delle lingue cosiddette “volgari” (cf nn. 36, 54, 63), e cioè quelle parlate comunemente dalla gente. Sapendo l’importanza che la lingua ha nell’insieme dei simboli di una comunità umana, si capisce la portata di una decisione del genere.
Procedendo in questo modo, la SC ha anticipato implicitamente la dinamica che porterà poi la LG a ripristinare la teologia della Chiesa particolare, sulla quale avremo occasione di ritornare più avanti.
LA COSTITUZIONE DOGMATICA “LUMEN GENTIUM”
Che il Vaticano II sia stato un concilio eminentemente ecclesiologico e, in certo senso, perfino ecclesiocentrico è cosa facile da costatare. È sufficiente leggere i suoi documenti per convincersene. Ma aiuta anche a capirlo la conoscenza, sia pur molto succinta, di quanto è avvenuto nel suo primo periodo di celebrazione (anno 1962), nel quale, per diversi motivi che non è qui il caso di ricordare, al di là dell’entusiasmo quasi carismatico regnante, si verificò anche una situazione di preoccupante smarrimento nei confronti della marcia del Concilio stesso.
Una serie di fattori avevano preparato gli animi dei partecipanti al Concilio a subire una profonda metamorfosi ecclesiologica. Alcuni nell’ambito della Chiesa, altri in quello della società umana divenuta, soprattutto in questo ultimo secolo, sempre più autonoma nei confronti della Chiesa stessa e della fede cristiana in generale.
Tra i primi vanno menzionati i diversi movimenti sorti e cresciuti un po’ dappertutto tra i cristiani. Sono, concretamente, il movimento di ritorno alle fonti bibliche e patristiche, il movimento liturgico, il movimento ecumenico, quello missionario e i diversi movimenti laicali. Ognuno di essi contribuì in maggior o minor misura a smuovere concezioni e comportamenti secolari e a creare delle sensibilità nuove. Tra i secondi vanno annoverati il fenomeno della personalizzazione, che si espresse anche in diverse correnti filosofiche, e il fenomeno della crescente socializzazione. Le loro matrici sono certamente umane, storiche, ma la loro incidenza all’interno della Chiesa non poteva non essere rilevante.
Effetto globale di questo insieme di fattori fu lo spostamento dell’ottica ecclesiale che permeò l’intero andamento del Concilio e di conseguenza anche l’elaborazione dei suoi documenti. Concretamente, si passò da un modello di Chiesa di tipo prevalentemente istituzionale e giuridico a un modello di Chiesa-comunione.
L’idea centrale
Raccogliamo molto sinteticamente i principali contenuti della costituzione dogmatica. Lumen Gentium, supponendo sufficientemente conosciuta la sua struttura che comprende i sette capitoli propriamente ecclesiologici e un ottavo sulla Madonna.
L’idea centrale è senz’altro quella che abbiamo già anticipato precedentemente, secondo la quale la Chiesa è un mistero di comunione. Il capitolo primo del documento porta infatti come titolo Il mistero della Chiesa, e quale piattaforma di tutto ciò che seguirà in esso, afferma che questa realtà umana che chiamiamo Chiesa è frutto di una decisione eterna di Dio Uno e Trino, risultato del suo agire nella storia umana, e vocazione a far trasparente in mezzo al mondo il suo stesso essere di comunione di diversi nell’amore. Il numero 4b di questo primo capitolo, con cui si conclude, con la citazione di un testo di S. Cipriano, la descrizione dell’agire del Padre, del Figlio Gesù Cristo e dello Spirito Santo nella storia della salvezza, costituisce una delle espressioni più dense e allo stesso tempo più programmatiche di tutta la nuova impostazione ecclesiologica assunta.
Essa viene a dire in definitiva che c’è Chiesa dove c’è comunione vera tra le persone e con Dio, una comunione che affonda le sue radici nella fede di Cristo e si modella a partire da essa. Orbene, questa Chiesa così costituita è chiamata ad essere in Cristo come un sacramento di salvezza per il mondo intero. Ciò vuol dire che essa è chiamata ad essere, anzitutto, un segno luminoso della salvezza di tutti, un segno che, per non essere vuoto, deve contenere in se stesso la salvezza che segnala agli altri. E, vuol dire, inoltre, che di tale salvezza la Chiesa deve essere anche strumento. Significarla e produrla, quindi. Ma, di quale salvezza? Ecco un’altra novità proposta dal documento che analizziamo, effetto indubbiamente dei fattori a cui abbiamo accennato anteriormente. La costituzione abbandona una concezione “tradizionale” di salvezza, frutto dell’inculturazione della fede in un orizzonte di cultura di tipo ellenico e che la pensava come un “andare in cielo” con tutte le caratteristiche di accentuazione dualista, individuale, spirituale e ultramondana che comporta, per abbracciarne un’altra che esprime come “intima unione con Dio e unità di tutto il genere umano” (n. 1).
Sarà anche questa rinnovata concezione soteriologica che le permetterà di riconoscere e accettare la presenza della salvezza non solo tra gli altri cristiani e tra gli altri credenti in Dio, ma addirittura tra gli atei di buona volontà (cf n. 16).
Ancora un terzo aspetto va messo in luce all’interno di questa idea centrale del documento in questione: la Chiesa mistero di comunione e sacramento di salvezza esiste nel mondo come popolo di Dio. Ciò la mette in rapporto con la storia e le conferisce un carattere eminentemente dinamico. La ricollega, infatti, con la vicenda storica dell’antico popolo d’Israele, ma anche con la sua vocazione messianica da realizzare dietro le orme di Colui che questa vocazione visse fino alle ultime conseguenze lasciandola come eredità ai suoi discepoli (cf n. 9). Radica qui, in ultima istanza, la vocazione della Chiesa all’universalità o cattolicità (cf nn. 13-17), e anche il suo carattere escatologico (cap. VII).
Un nuovo rapporto tra Chiesa e Regno di Dio
Insieme a quest’idea centrale, già di per sé molto pregnante, e in omogeneità con essa, ce ne sono altre non meno cariche di conseguenze nella stessa costituzione. Esse hanno a che vedere con una serie di rapporti che, all’interno della Chiesa, costituiscono come la sua spina dorsale.
In primo luogo, si deve registrare un innovazione nell’ambito del rapporto tra la Chiesa e il Regno di Dio.
Nella anteriore ecclesiologia tale rapporto era visto in termini di identificazione. La Chiesa era il Regno di Dio (o di Cristo) sulla terra; lavorare per il Regno di Dio significava lavorare per impiantare, far crescere, estendere la Chiesa nel mondo, in vista del regno definitivo dei cieli. Con tutte le conseguenze che ciò comportava nei confronti della verità e della santità. Essere Regno di Dio equivaleva a possedere tutta la verità e tutta la santità, e a ritenere ciò che non era Chiesa, ossia tutto il resto del mondo, come regno del peccato, della menzogna e del male. Una spartizione, quindi, simile a quella che il popolo dell’antica alleanza aveva concepito quando considerò se stesso come “popolo santo” di Dio e gli altri popoli come “impuri”, e cioè esclusi dalla benedizione e dalla promessa di Dio.
Le ripercussioni che questa concezione aveva su certi atteggiamenti trionfalistici non sono difficili da scorgere. Ce ne sono delle tracce anche nell’arte pittorica e scultorica, e anche in quella architettonica.
La LG ha ridimensionato questo rapporto, concependolo in un modo diverso. Essa ha pensato la Chiesa come un germe (cf n. 5c), e per di più imperfetto (cf nn. 8c, 48c) del Regno. Ha perciò riconosciuto la reale sproporzione che c’è tra la prima grandezza che esprime il progetto di Dio e di Cristo per tutto il mondo, e questa seconda grandezza che è la Chiesa reale.
La Chiesa è sì santa, perché in essa c e la presenza del Dio Uno e Trino, perché ha la Parola della rivelazione, perché possiede i sacramenti segni della grazia, perché ci sono stati e ci sono in essa degli uomini e delle donne sante, a cominciare dalla Madre del Salvatore (cf cap. VIII), ma è pure anche costantemente bisognosa di purificazione, sia nell’ordine della verità che nell’ordine della santità. Essa porta in sé i segni dell’appartenenza a questo mondo di peccato, benché chiamata ad essere totalmente santa. D’altronde, essa non può pretendere di avere il monopolio né della verità né della santità, perché lo Spirito di Dio che le produce agisce nel mondo intero, anche nei cuori di coloro che, pur non essendo arrivati a riconoscere Dio, si sforzano di condurre una vita giusta (cf n. 16c). Nessun trionfalismo è quindi consentito, ma solo un senso di modestia e di responsabilità.
Un nuovo rapporto tra i membri della Chiesa
Una seconda innovazione da registrare si trova nell’ambito del rapporto tra i membri della Chiesa. Abbiamo già fatto rilevare che l’anteriore ecclesiologia comportava una strutturazione fondamentalmente piramidale della Chiesa stessa. A poco a poco e quasi insensibilmente essa si era andata modellando sulla struttura della società politica, quella imperiale prima, quella feudale o monarchica poi, la quale si reggeva su una concezione gerarchica del potere e della dignità. Così il vertice - nel caso concreto il papa quale vescovo di Roma - aveva finito per condensare in sé il massimo di potere e di dignità, e le basi, ossia i cristiani laici o secolari, avevano finito per esserne in pratica completamente spogliati.
Con una duplice conseguenza: prima, quella di finire per spaccare la Chiesa in due, ritenendo gli ultimi, i laici, quali cristiani “di seconda” nei confronti dei membri della gerarchia (e anche dei religiosi), tanto che spesso non venivano considerati capaci di raggiungere la “perfezione evangelica” ma solo di praticare i comandamenti; seconda, quella di far pensare che in realtà la vera Chiesa è costituita dai pastori (tutt’al più anche dai religiosi e dalle religiose), mentre gli altri, i “semplici fedeli”, costituiscono invece quella massa informe chiamata genericamente “popolo di Dio”.
Ciò si rifletteva sia nell’ambito liturgico, dove i laici venivano considerati o si autoconsideravano quale “clienti” dei ministri ordinati, sia in quello profetico, dove i semplici fedeli erano pensati e si autoritenevano come una “Chiesa-che-impara” nei confronti della “Chiesa-che-insegna” costituita da coloro che conformavano il “magistero”, sia ancora in quello regale o pastorale, dove i laici erano chiamati a sottostare docilmente alla conduzione dei pastori costituiti in autorità.
La LG, imperniata sul fondamentale principio di comunione, modificò profondamente questo modo di concepire i rapporti tra i membri della Chiesa. Un primo passo decisivo in questa direzione lo costituisce l’articolazione stessa del documento. Contrariamente a come era stato organizzato negli schemi previ e per esplicita richiesta di numerosi Padri conciliari, il capitolo sul popolo di Dio fu collocato immediatamente dopo quello sul mistero della Chiesa, e fu fatto precedere a quello sulla costituzione gerarchica della Chiesa. Ciò non costituisce un semplice fatto redazionale, ma rende visibile un profondo cambio di ottica. Precisamente quel cambio per il quale si ritiene quale dato ecclesiologico primo l’appartenenza di tutti i battezzati, con parità di diritto e di dignità, alla comunione di vita e di missione della Chiesa, e solo quale dato secondo quello della diversità di vocazioni all’interno di tale parità. Ciò significa abbattere la piramide e innalzare al suo posto il principio dell’uguaglianza radicale di tutti i membri della comunità ecclesiale, in modo tale che in essa “nessuno sia al di sopra di nessuno” in dignità (cf n. 32). Solo dopo che è stata affermata questa uguaglianza, e senza intaccarla minimamente, va enunciato l’altro principio: nella Chiesa c’è una diversità, che è però diversità di servizio fraterno in ordine al bene di tutto l’organismo (cf nn. 12, 18, 32, ecc.).
Il sacerdozio comune o dei fedeli
Insieme a questo dato redazionale (ma molto più che redazionale), ce ne sono altri tre di singolare importanza.
Il primo è la ripresa di un tema antico quanto gli stessi scritti del Nuovo Testamento, ma che per circostanze storiche era andato quasi perduto nella coscienza della Chiesa. È quello del sacerdozio comune o dei fedeli. Lutero ne aveva fatto in qualche modo il suo cavallo di battaglia, e ciò spiega la reazione della Chiesa postridentina nei suoi confronti. Ma ora, dissipate le polemiche, il Concilio lo riprende e lo ripropone con decisione e senza mezzi termini. La Chiesa non è una comunità di sacerdoti consacrati che gestiscono dei riti per dei profeti; essa è tutta intera una comunità sacerdotale, nella quale il sacerdozio fondamentale è quello della comunità - un sacerdozio d’altronde “spirituale” (cf nn. 10, 11, 34a), che si esprime in tutti gli atti della vita e poi nella loro celebrazione nei riti -, al cui servizio si colloca un sacerdozio ministeriale che svolge il ruolo di presidenza.
Il senso profetico dei fedeli
Il secondo dato è quello segnalato nel n. 12a della costituzione, e si riferisce alla dimensione profetica dell’intera Chiesa, al suo rapporto con la verità salvifica rivelata da Dio mediante il Vangelo. In quel paragrafo si parla del “senso dei fedeli”, e cioè della capacità che l’intera comunità dei credenti ha, quale dono dello Spirito Santo, di essere portatrice e annunciatrice fedele della Parola di salvezza.
Benché non venga detto esplicitamente, ciò significa il superamento radicale di quel dualismo tra “ecclesia docens” ed “ecclesia discens” di cui si è parlato sopra. Tutta la Chiesa, attraverso tutti i suoi membri, è chiamata ad insegnare e tutta la Chiesa, attraverso tutti i suoi membri, è chiamata a imparare la Parola del Vangelo di Cristo. Nessuno ha quindi il monopolio assoluto della verità rivelata. E questo è il fatto primo, incontestabile. Solo dopo, e senza nulla togliere ad esso, viene il fatto secondo, e cioè la diversità di servizi all’interno del ministero profetico, per via della quale alcuni sono chiamati a presiedere la comunità in questa linea (cf n. 25). Essere costituiti nel “magistero” della Chiesa, dice implicitamente questo paragrafo, non significa diventare degli “speditori di verità” a degli interamente sprovvisti da essa, ma viceversa animare l’intera comunità profetica nella ricerca della verità stessa.
I carismi distribuiti a tutti
Il terzo dato lo si trova germinalmente nel n. 12b, e poi esplicitamente sviluppato nei capitoli III, IV e VI della costituzione. Si tratta dei carismi che lo Spirito distribuisce alla comunità.
Il testo si ispira chiaramente alla dottrina di S. Paolo. Ora, dall’esame di questa tematica nei suoi scritti appare che per lui il carisma, contrariamente a ciò che si era soliti a pensare, non costituisce né un qualcosa di straordinario e miracoloso, né un retaggio di solo alcuni nella Chiesa. Esso è un fatto di per sé comune e universale al suo interno, perché consiste nella chiamata e capacitazione date dallo Spirito in ordine al servizio dei fratelli. “Nessuno tutti e tutti qualcuno” potrebbe essere la frase che esprime il regime dei carismi della Chiesa. Questa risulta essere, quindi, un insieme di servizi reciproci suscitati e sorretti dallo Spirito Santo in ordine alla sua propria edificazione. Una ulteriore ragione di uguaglianza radicale nella comunità ecclesiale. Solo dopo questa affermazione di carismaticità universale e senza intaccarla minimamente, si può passare a considerare la diversità e l’ordinamento dei carismi.
Si può dire che i tre capitoli sopra accennati corrispondono a tre blocchi di carismi accomunati da caratteristiche proprie: il capitolo IV al carisma dei laici o secolari; il capitolo VI al carisma dei religiosi.
Quasi a ribadire la globalità di questo superamento della piramidalità e della separazione tra chierici e laici nella Chiesa, la costituzione ha voluto dedicare un capitolo alla vocazione universale alla santità (capitolo V). La storia di tale capitolo è stata molto travagliata. Ma la sua stessa attuale collocazione, frutto di ripetute discussioni, sta ad indicare ancora una volta l’intenzione fondamentale del Concilio. Esso sta a dire, a grandi caratteri, che la condizione di tutti e ognuno dei membri della comunità è sostanzialmente uguale, chiamati come sono da Dio a vivere in pienezza la proposta evangelica fatta da Gesù Cristo. La diversità dei modi con cui va raggiunta tale pienezza non diminuisce in nulla tale uguaglianza.
Un nuovo rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari
Una terza innovazione la troviamo nell’ambito del rapporto tra Chiesa universale e Chiese particolari. Specialmente dopo il Concilio di Trento e come mezzo per arginare il rischio di disgregazione che la minacciava, la Chiesa cattolica rinforzò la sua già presente tendenza al monolitismo e alla uniformità, che comportava pure una forte tendenza alla centralizzazione.
È probabile che ciò abbia contribuito a superare tale rischio. Le confessioni nate dalla Riforma sono andate infatti a finire in una frantumazione irrefrenabile che è ancora oggi in corso. La Chiesa cattolica invece si mantenne compattamente unita attorno al centro di comunione costituito dalla sede romana.
Non però senza conseguenze anche negative.
L’idea di una Chiesa universale che poi si suddivide in amministrazioni minori - diocesi, parrocchie - fortemente vincolate e anche subordinate all’amministrazione centrale, si diffuse ampiamente. E, con essa, l’istanza all’uniformità nelle espressioni della fede, del culto, dell’organizzazione. I vescovi, almeno in Occidente, finirono per essere pensati come vicari del papa, messi a capo di una parte della Chiesa per governarla in suo nome e con l’autorità da lui conferita. Una Chiesa, in definitiva, nella quale tutto viene stabilito sostanzialmente dall’alto, da chi è a capo della piramide del potere, e dove non c’è reale spazio per la propria originalità particolare.
La costituzione LG, sempre ispirata all’idea-guida della comunione, segnalò strade nuove in questo ambito. Non che abbia rifiutato l’idea di una Chiesa universale; ma, ritornando ai primi momenti della Chiesa e accogliendo anche la tradizione viva della ecclesiologia eucaristica orientale, propose un modello comunionale di relazioni anche nei confronti delle Chiese particolari (cf nn. 13, 26).
Concretamente, pensò la genesi dinamica della Chiesa a partire dal piccolo nucleo familiare visto come Chiesa domestica (cf n. 11d), passando per il gruppo (anche ridotto) di fedeli che si radunano attorno all’altare per celebrare l’Eucaristia (cf n. 26a), e per la Chiesa particolare presieduta da un vescovo (cf nn. 13d, 23a, 27a), fino alla Chiesa universale che risulta dalla comunione di tutte le Chiese particolari e che è presieduta dal Vescovo di Roma (cf n. 23a).
Il monolitismo uniformizzante è quindi eliminato; al suo posto c’è ora il principio della comunione nella diversità, che fa leva sulle due componenti di radice trinitaria: comunione fra diversi, diversi in comunione.
Questo modo di vedere le cose ha il vantaggio di permettere ad ogni Chiesa particolare - con questo termine si intende oggi in genere la diocesi, ma lo si può allargare - di vivere il suo proprio ecclesiale secondo i suoi propri ritmi di crescita, secondo le condizioni della sua ubicazione culturale e secondo i problemi reali che tutto ciò comporta. E di viverli a sua volta non da sola, ma in rapporto fraterno con le altre Chiese sorelle, ricevendo e dando in uno scambio veramente arricchente. Non più, quindi, un vedere le diversità come minaccia, ma come potenziali ricchezze.
Ha inoltre il vantaggio di far entrare in funzionamento il principio di sussidiarietà che è l’opposto del centralismo, e per il quale non si deve ricorrere ad una istanza superiore o più ampia prima di aver fatto ricorso all’istanza più vicina. Non si nega il bisogno di un centro, in questo caso la Chiesa di Roma che fin dall’antichità ha svolto tale ruolo, ma lo si ridimensiona in modo tale che permetta la giusta autonomia delle Chiese locali.
All’interno di questa prospettiva la LG ha messo in luce una componente ecclesiale di grande importanza per la vita di comunione dell’intera Chiesa, il Collegio episcopale (cf nn. 19, 22, 23). Fondata su ragioni bibliche e di tradizione, ha dichiarato che il ministero di presidenza delle Chiese locali, affidato ai vescovi, è un ministero regolato dal principio di comunione. I vescovi presiedono le loro rispettive Chiese in comunione con gli altri fratelli, al cui capo c’è il Vescovo di Roma, e tutti insieme, con lui, presiedono la Chiesa universale. Così, la costituzione comunionale della Chiesa si esprime anche attraverso il modo di rapportarsi di coloro che ne hanno l’ultima responsabilità quale carisma dato dallo Spirito (cf n. 21).
Un nuovo rapporto tra Chiesa cattolica e gli altri cristiani
Una quarta innovazione apportata dalla costituzione in questione riguarda l’ambito del rapporto della Chiesa cattolica con gli altri cristiani.
Una lunga storia aveva portato a creare una situazione abbastanza evangelicamente contraddittoria in questo contesto. La rottura tra la Chiesa occidentale e orientale consumata nel secolo XI e quella con i Riformatori nel secolo XVI, avvenute tutte e due in contesti fortemente polemici, avevano creato atteggiamenti di forte ostilità reciproca tra le diverse confessioni cristiane. La Chiesa cattolica gestiva la situazione all’insegna del principio integrista del “tutto o nulla”, e di conseguenza considerava solo se stessa quale vera e unica Chiesa di Cristo e riteneva le altre come non-chiese, eretiche o almeno scismatiche. Le manifestazioni concrete di una simile presa di posizione sono ben conosciute.
Il Concilio, raccogliendo i positivi risultati di decenni di sforzi fatti all’interno del movimento ecumenico, decise di impostare le cose diversamente. Ancora una volta il principio di comunione si rese fecondo. Anzitutto, riconobbe che la Chiesa cattolica, pur essendo vera Chiesa di Cristo, non esaurisce tutta l’ecclesialità, dal momento che ci sono al di fuori del suo organismo parecchi elementi di santificazione e di verità che sono doni propri della Chiesa di Cristo (cf n. 7b). E poi, dichiarò apertamente che questa Chiesa cattolica sa di essere per più ragioni congiunta con coloro che, battezzati, sono insigniti del nome cristiano benché non professino integralmente la fede o non conservino l’unità di comunione sotto il successore di Pietro (cf n. 15). Così la LG pose le basi per l’ulteriore documento Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, nel quale il principio conduttore non sarà già quello dell’integrismo, ma quello della gradualità della comunione. Si aprono in questo modo delle nuove strade nel rapporto con gli altri cristiani, imperniati su criteri più oggettivamente evangelici. Ancora una volta viene deposto ogni atteggiamento trionfalista e lo si sostituisce con un atteggiamento di modestia che sa riconoscere i propri limiti pur senza misconoscere le proprie ricchezze.
Un nuovo rapporto fra Chiesa e mondo
Un ambito di questi rapporti che costituiscono come la spina dorsale della Chiesa resta da considerare, quello del rapporto Chiesa-mondo.
La LG, come avremo occasione di rilevare dopo, quando affronteremo la GS, non ha dedicato molta attenzione ad esso. Si è concentrata prevalentemente su tematiche intra-ecclesiali, preoccupata di autodefinirsi come comunione e di trarne le conclusioni nei diversi ambiti del suo essere, del suo organizzarsi e del suo funzionare internamente. Abbiamo fatto già notare precedentemente come il rapporto col mondo sia stato vissuto, nella Chiesa-istituzione, in una chiave piuttosto teocratica.
Ciò vuol dire che la coscienza cristiana non si era accorta dell’autonomia delle realtà mondane, e le considerava solo quali mezzi per raggiungere la sua finalità “spirituale”, “eterna”. Ciò spiega certi atteggiamenti storici clamorosi, in certe tappe della storia ecclesiale, quali la manipolazione sacrale e clericale del potere politico, della cultura, ecc. Il mondo non veniva in realtà riconosciuto nella sua consistenza propria, e lo si considerava al massimo quale un’occasione per la costruzione del Regno di Dio.
È nel capitolo IV, dedicato - per la prima volta nella storia dei concili - ai laici, dove si possono trovare alcuni accenni germinali al tema.
Già al n. 31b, cercando di identificare la specificità della vocazione laicale, la costituzione la ripone nella “indole secolare” della loro esistenza.
Secolare dice rapporto al “secolo”, al “mondo”. Lì sono chiamati questi cristiani a svolgere il loro ruolo prevalentemente con gli altri membri della comunità credente. E sono chiamati a diventare fermento della santificazione del mondo.
Poi, al n. 36, parlando della partecipazione di questi cristiani-laici alla funzione regale di Cristo, la ripone appunto in questo impegno di trasfigurare il mondo con la luce di Cristo, affinché corrisponda al disegno del Creatore.
Queste affermazioni, benché ancora germinali, fanno già intravedere un atteggiamento nuovo nei confronti del mondo. Non più dominio e asservimento, ma rispetto e collaborazione. Non solo, si insiste sull’idea che coloro che operano nel mondo, tra le realtà “secolari” - e sono principalmente, benché non esclusivamente, i laici - debbano tener presente che tali realtà sono rette da principi propri che vanno rispettati adeguatamente.
Così, attraverso la considerazione del carisma laicale, il mondo entra nell’orizzonte della Chiesa, ed entra con la sua consistenza propria, benché orientata al compimento del piano di salvezza.
COSTITUZIONE SULLA DIVINA RIVELAZIONE “DEI VERBUM”
La genesi di questa costituzione fu una delle più travagliate tra tutte al Vaticano II. E, probabilmente, il luogo dove il Concilio ebbe occasione più decisiva per prendere una strada di rinnovamento. Il documento iniziale era stato preparato, infatti, con una sensibilità notevolmente anacronistica. Il suo stesso titolo “De fontibus revelationis”, che rifletteva una problematica d’indole piuttosto speculativa ereditata dal Concilio di Trento, sta a denunciarlo chiaramente. Fu lo stesso papa Giovanni XXIII a decidere, in mancanza di sufficienti voti, il ritiro dello schema e a creare una commissione mista, nella quale furono inclusi dei Padri conciliari dotati di una sensibilità più consona alla maggioranza dei partecipanti al Concilio, per una nuova elaborazione. Dopo diverse successive redazioni, sempre sottoposte alle discussioni conciliari, il documento fu promulgato il 18 novembre 1965, avendo ricevuto nell’ultima votazione 2344 voti favorevoli e 6 contrari.
La DV si fa eco, indubbiamente, di un mutato clima ecclesiale, che si esprime tra l’altro nel nuovo rapporto tra fede vissuta e Parola rivelata, soprattutto quella trasmessa dalla Bibbia. Uno degli effetti collaterali negativi delle decisioni del Concilio di Trento nel suo tentativo di arginare rischi creati dalla Riforma protestante, è stato appunto quello di allontanare sempre più sensibilmente i fedeli, soprattutto i fedeli laici, dal contatto diretto con il testo sacro. Si era arrivati ad una situazione paradossale nella quale, mentre i protestanti si vantavano di una dimestichezza e di una conoscenza approfondita della Bibbia, i cattolici avevano quasi paura di tenerla fra le mani. Ne ascoltavano solo ordinariamente la lettura - e per di più in una lingua non propria - nelle celebrazioni liturgiche.
Non pochi gruppi ecclesiali avevano cominciato a reagire al riguardo. Una ventata di fervore biblico aveva invaso la Chiesa nei decenni che precedettero immediatamente il Vaticano II. Tale fervore sfociò anche nella costituzione sulla divina rivelazione, che più di una volta invita i credenti in genere, e le diverse categorie ecclesiali, a riprendere in mano la Bibbia. “È necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura”, dice al n. 22. E, nello stesso numero, introducendo l’invito a curare la sua traduzione, ribadisce ancora: “La Parola di Dio deve essere a disposizione di tutti in ogni tempo”.
Nuova impostazione di fondo
La più grossa novità di questa costituzione non è tanto in verità nella linea dei contenuti, sui quali parleremo pure in seguito, bensì nella linea dell’impostazione fondante dell’intero discorso. E ciò si coglie nel primo capitolo, nel quale viene affrontato il tema della rivelazione e della fede.
La novità consiste nella sensibilità culturale a partire dalla quale viene impostato il discorso. Non più quella classica, di taglio prevalentemente speculativo, ma quella esistenziale-personalista, nella quale si muove la teologia rinnovata di questi ultimi decenni. Il documento, infatti, riprende le affermazioni che al riguardo aveva fatto il Vaticano I in un contesto storico-culturale molto diverso, e con alcuni lievi ritocchi riesce a farle slittare verso questo nuovo orizzonte di cultura.
Due brevi riferimenti saranno sufficienti per confermare ciò che è stato detto. Anzitutto, sul modo in cui la costituzione parla della natura della rivelazione divina. Essa apre il suo primo capitolo affermando che tale rivelazione ha la sua radice nella decisione di Dio di rivelare “se stesso e il mistero della sua volontà” (n. 2). Come si vede, soprattutto se si tiene conto che questo “mistero” cui si fa riferimento attraverso una frase di S. Paolo nella lettera agli Efesini (1, 19) è il progetto salvifico di Dio, il fenomeno della rivelazione è pensato in una chiave eminentemente personalista. Non è già un mero comunicare, da parte di Dio, dei “misteri”, ossia delle “verità” che superano la capacità dell’intelligenza umana, come veniva concepita comunemente nell’impostazione anteriore, ma come un aprire, da parte di Dio, la propria interiorità divina, il proprio segreto personale più intimo, per libera e amorevole decisione, all’uomo per offrirgli la possibilità di una comunione nell’amicizia. “Nel suo grande amore Dio parla agli uomini come ad amici, e si intrattiene con essi per invitali e ammetterli alla comunione in sé”. Questa frase, costruita sulla base di diversi testi biblici (Es 33, 11; Gv 15, 14-15; Bar 3, 38), esprime palesemente la nuova ottica con la quale si rilegge questa componente dell’economia cristiana che è la rivelazione.
L’altro riferimento riguarda il modo con cui la costituzione parla della fede quale risposta alla rivelazione divina (n. 5). È qui ancora più evidente lo spostamento culturale nei confronti della costituzione sulla fede del Vaticano I. Infatti, vengono riprese espressioni letterali di tale costituzione, ma all’interno di un impianto nuovo, che le conferiscono una portata nuova. Ecco come si esprime la DV: “A Dio che rivela è dovuta ‘l’obbedienza della fede' (Rom 16, 26; cf Rom 1, 5; 2 Cor 10, 5-6), con la quale l’uomo si abbandona a Dio tutt’intero liberamente”, e non già semplicemente l’intelligenza, e la sua risposta fondamentale è quella dell’abbandono fiducioso al Dio che si rivela personalmente. Tutte puntualizzazioni che conferiscono al credere una caratterizzazione apertamente personalista.
Oltre a questa novità di fondo, la DV ha significato un grosso contributo attraverso diverse tematiche affrontate in modo rinnovato, segno dell’accoglienza delle istanze rinnovatrici presenti nel Concilio. Ci riferiamo alle principali.
Il senso teologico della storia
Nel già citato primo capitolo della costituzione troviamo un primo apporto carico di conseguenze per la vita di fede della Chiesa. Si tratta del rapporto tra rivelazione e storia.
Ad una concezione accentuatamente “intellettualizzante” della fede aveva corrisposto, soprattutto nella teologia cattolica, quella concezione di rivelazione che faceva leva prevalentemente sulle parole in quanto tali. I fatti storici, gli avvenimenti del popolo credente erano visti piuttosto come una conferma o un chiarimento di esse.
La DV, accogliendo una istanza che si era venuta affermando per via dell’accresciuta sensibilità storica contemporanea nella Chiesa e nella teologia, ha capovolto questo modo di concepire le cose. Ha sì affermato che il progetto della rivelazione si realizza “mediante eventi e parole intimamente connessi” (n. 2), ma già l’ordine in cui ha nominato queste componenti di tale progetto è un indizio di come lo pensa. Vi è però di più. Riferendosi a continuazione specificamente agli avvenimenti, sostiene che “le parole portano alla luce il mistero in essi contenuto”. Questa frase è molto importante. Essa sta a dire della densità divina degli avvenimenti storici. Infatti, se “mistero” significa il piano divino di salvezza per gli uomini (cf n. 1), qui si dice che tale mistero è “contenuto” negli eventi. Essi sono, di conseguenza, abitati dal mistero prima ancora che le parole lo dicano. Hanno uno spessore divino di salvezza che le parole non fanno che svelare. Parola di Dio non è quindi solo né principalmente la parola pronunciata, ma la storia stessa del popolo credente. Le conseguenze di una tale concezione saranno tratte nella GS, al n. 11a, dove essa verrà dilatata fino ad abbracciare non solo la storia del popolo credente, bensì quella dell’umanità in quanto tale.
Protagonismo dei fedeli
Un secondo apporto lo troviamo nell’ambito del capitolo secondo, dedicato al tema della trasmissione della divina rivelazione. Parlando lì della Tradizione, che insieme con la Scrittura costituisce come un unico specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio (cf n. 7b), ne mette in rilievo il carattere eminentemente dinamico. Sostiene, infatti, che essa “progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo” (cf n. 8b). È poi interessante notare che, tra i fattori di questo progresso, la costituzione enumeri come primi la riflessione e la dedicazione dei credenti e l’esperienza spirituale dei medesimi, e solo dopo la predicazione di coloro che con la successione apostolica hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Dopo secoli di una visione che attribuiva prevalentemente - e alle volte quasi esclusivamente - al magistero autoritativo il servizio della Parola, ora viene riconosciuta la funzione intralasciabile della totalità dei credenti in tale servizio. È innegabile l’influsso esercitato su questa asserzione dalla nuova impostazione ecclesiologica della LG prima analizzata.
Funzione del Magistero
Ancora in questo contesto facciamo rilevare un terzo contributo, quello riguardante il rapporto tra Magistero della Chiesa e Parola rivelata. Abbiamo fatto riferimento poco prima ad una situazione ecclesiale vissuta per non poco tempo. L’influsso del modello di Chiesa istituzionale aveva portato a poco a poco a concepire le cose in moto tale che si era finito per pensare praticamente il magistero della Chiesa al di sopra della stessa Parola rivelata. Ora il rinnovamento ecclesiologico, pur senza tralasciare l’importanza di tale ufficio nell’insieme dei servizi ecclesiali, ha portato a ridimensionare adeguatamente le cose. La costituzione afferma, al riguardo: “L’ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale magistero però non è superiore alla Parola di Dio ma ad essa serve, insegnando solo ciò che è stato trasmesso (...)” (n. l0a). Non quindi padrone, ma servo: della Parola e della comunità che l’accoglie nella fede.
Criteri rinnovati di interpretazione
Nel contesto della Parola scritta, di quella cioè che è contenuta nei libri della Sacra Scrittura (cf n. 11a) e che la Chiesa ha sempre venerato come ha fatto con il Corpo stesso di Cristo (cf n. 21a), la DV ha affrontato anche il tema riguardante la sua interpretazione. Ha voluto farsi eco dei progressi ingenti realizzati in questo ambito, da qualche decennio in qua, grazie allo sforzo di non pochi studiosi non sempre inizialmente ben visti per via di un’inerzia di secoli che portava a letture di altro genere del testo biblico. Non si può ignorare, al riguardo, l’influsso notevole esercitato dagli studiosi protestanti.
In concreto, partendo dall’affermazione agostiniana secondo la quale nella Scrittura Dio ha palato per mezzo di uomini e alla maniera umana (cf n. 12a), ha enunciato il principio fondamentale secondo il quale per capire ciò che Dio ha voluto comunicare attraverso gli scritti, bisogna ricercare con attenzione che cosa gli scrittori stessi abbiano inteso significare. E ha ancora specificato che, per cogliere ciò che gli agiografi hanno voluto significare, occorre tener conto, tra l’altro, dei “generi letterari” da loro adoperati. Il “tra l’altro” del testo lascia aperta la porta per tanti altri accorgimenti che, nelle ricerche degli ultimi decenni, sono stati rilevati dai competenti.
LA COSTITUZIONE PASTORALE “GAUDIUM ET SPES”
Si è già anticipata l’informazione sulla novità di questo documento all’interno della produzione del Concilio. Esso infatti non era in programma all’inizio della sua celebrazione. Fu l’accentuata sensibilità di non pochi Padri conciliari e dei loro assistenti-esperti a dargli origine. Ne fu un anticipo il messaggio iniziale, indirizzato dai membri del Concilio a tutti gli uomini di buona volontà - fatto inimmaginabile in concili precedenti per via della situazione storica in cui venivano celebrati -, e sollecitato inizialmente da alcuni dei teologi più sensibili ai mutamenti storici avvenuti e ai grossi problemi da essi posti all’umanità intera. Ma, in realtà, nessuno degli schemi preparati per l’assemblea conciliare aveva come tematica centrale tali problemi, benché ci fossero qua e là degli accenni ad essi. Ad un certo momento però si sentì il bisogno di (“aprire le finestre” e guardare queste realtà in faccia. È così che sorse l’idea di fare un nuovo documento, chiamato inizialmente “Schema XVII” e poi successivamente “Schema XIII” e Costituzione pastorale “Gaudium et Spes”.
Esaminata in profondità, essa non è altro che lo sviluppo e l’esplicitazione del già ricordato messaggio iniziale. Anche lessicalmente si assomigliano. L’iter della sua elaborazione fu uno dei più travagliati e difficili, e il risultato - bisogna riconoscerlo - è solo relativamente soddisfacente. Non si può nascondere che si tratta di un documento immaturo, imperfetto, in cui ad una prima parte omogenea e compatta, fa seguito una seconda fatta da sviluppi tematici non sempre in perfetta sintonia con quelli della prima. La presenza di diverse mani nella sua elaborazione è palese. Fu approvato, con 2111 voti favorevoli, 251 contrari e 11 nulli, il 7 dicembre 1965, vigilia della conclusione del Concilio.
Una novità: il metodo prevalentemente induttivo
Una prima caratteristica di questa costituzione nei confronti degli altri documenti è la novità del metodo con cui procede. In tutti gli altri il metodo è quello classico della deduzione. Posti dei principi, presi naturalmente dalla rivelazione, se ne traggono le logiche conclusioni.
Qui, invece, il metodo è prevalentemente induttivo. Soprattutto nell’esposizione introduttiva, che apre l’intero documento, e nella prima parte che, come si disse, è quella più caratterizzante. L’esposizione introduttiva è nient’altro che una descrizione approfondita della situazione storica in cui si trova l’umanità attuale, segnata dal fatto di una profonda metamorfosi sociale e culturale che ha i suoi riflessi anche nella vita religiosa (cf n. 4b).
È questa situazione quella che crea i più grossi problemi che interessano l’umanità intera, e che costituisce il punto di partenza della riflessione della costituzione.
Nella prima parte, poi, i tre primi capitoli riguardanti la dignità della persona umana, la comunità degli uomini, e l’attività umana nell’universo, hanno un andamento identico: partono dalla situazione umana in quanto tale e dopo, alla fine, ricorrono al dato rivelato per trovarvi l’illuminazione definitiva. A sua volta questi tre capitoli costituiscono come la piattaforma del quarto, nel quale il tema è la missione della Chiesa nel mondo contemporaneo, e che situa tale missione in risposta ai suaccennati problemi. La seconda parte della costituzione, benché non così linearmente, imposta le cose in modo simile, affrontando “alcuni aspetti più urgenti” della situazione storica attuale (matrimonio e famiglia, cultura, vita economico-sociale, vita della comunità politica, promozione della pace e comunità dei popoli).
L’ecclesiologia di fondo
L’impostazione ecclesiologica di fondo della GS non è esattamente quella della LG, benché non la contraddica.
Essa è stata magistralmente espressa da Paolo VI nella sua omelia del 7 dicembre 1965, in cui questo papa tentò di fare un primo bilancio, a caldo ancora, dei lavori conciliari in fase di chiusura. Ad un certo momento affermò, quasi a modo di proclama: “La Chiesa si dichiara quale serva dell’umanità”. Queste parole, lette sullo sfondo della costituzione pastorale appena approvata dal Concilio, traducono il nuovo orientamento ecclesiologico assunto. E implicano un autentico “giro copernicano”.
Per secoli la Chiesa era vissuta nella convinzione di essere il centro del mondo, di essere una realtà dell’ordine dei fini. La concezione del suo rapporto con il Regno di Dio in chiave di identità o coincidenza aveva contribuito in buona misura a questo. Ciò la portava a quell’ecclesiocentrismo che neppure la svolta provocata dalla LG era riuscita a smuovere. La comunionalità della costituzione dogmatica è ancora, infatti, una comunionalità ripiegata su se stessa, che vede il mondo come qualcosa da conquistare e da, almeno in qualche modo, “ecclesializzare” affinché arrivi ad essere quel Regno di Dio sognato e cercato. L’ordine delle domande che la Chiesa si pone è ancora quello ricordato sopra, nel quale quella riguardante la natura precede quella della missione, e può in realtà essere risposta senza questa. La Chiesa prima è, e poi agisce. Il suo essere è definito senza un riferimento intrinseco al suo fare.
La Chiesa è nel mondo e per il mondo
Nella GS le cose cambiano profondamente. La Chiesa non si pensa più come un fine, ma come un mezzo, come uno strumento. Il fine unico è il Regno di Dio. Si traggono così le conseguenze ultime di quel rinnovato modo di concepire il rapporto Chiesa-Regno cui abbiamo accennato precedentemente.
Già durante l’intervallo tra il primo periodo conciliare e il secondo (anno 1962-1963) l’allora card. Montini aveva affermato, cercando di sintetizzare il senso della ricerca ecclesiologica conciliare in corso: “La Chiesa va in cerca del mondo per autodefinirsi”. Il che vuol dire che, in questa rinnovata coscienza ecclesiale, il mondo entra nella definizione stessa della Chiesa; essa non può definire il suo essere senza tener conto del suo rapporto con il mondo. Ora qui, nella GS, si viene a proclamare a voce alta questa convinzione: la Chiesa è nel mondo e per il mondo. È nel mondo, anzitutto, e non al di fuori di esso - sia sopra, sia accanto, sia, ancora meno, contro di esso -, come è capitato in altri momenti storici. Ed essendo nel mondo, è per il mondo, è a suo servizio (cf n. 3d). Quindi, tutto ciò che essa è, ha e fa, tutto deve essere ordinato a questo servizio. Come in ogni strumento, il suo essere interno viene definito da questo scopo per il quale esiste. Si può perciò dire che il suo “da fare” nel mondo definisce il suo “essere”.
Ma quale servizio? Ecco le parole letterali di risposta della costituzione stessa: mettere “a disposizione degli uomini le energie di salvezza che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, riceve dal suo Fondatore. Si tratta di salvare la persona umana, si tratta di edificare l’umana società” (n. 3b). Un servizio di salvezza, dunque; ma di una salvezza concepita in forma rinnovata.
Le due caratteristiche menzionate nel testo ne danno il senso fondamentale: integrale, sociale. Si tratta di una salvezza che prende di mira l’uomo in tutte le sue dimensioni, senza escludere - anzi includendole - quelle sociali. Poco più avanti, al n. 4, il testo mette fortemente in evidenza un’altra dimensione, quella storica, che è presa fortemente in considerazione nell’intera costituzione. Si tratta, quindi, di una concezione della salvezza che supera i dualismi che la contrassegnavano in altri momenti culturali: anima-corpo, individuo-società, terra-cielo. Salvare significa portare a pienezza l’uomo intero, singolo e collettivo.
Una ecclesiologia “transecclesiale”
Se si volesse condensare in una sola parola la caratterizzazione fondamentale di questa ecclesiologia della GS, lo si potrebbe fare mediante la parola “transecclesialità”.
Essa sta ad indicare, appunto, che la Chiesa è tutta protesa a cogliere e a cercare di dar soluzioni ai problemi che interessano gli uomini in quanto tali. Una Chiesa che in certo qual modo dimentica se stessa, i suoi propri problemi interni, per accudire a quelli dell’umanità nella quale è inserita e che, di conseguenza, toccano anche i suoi membri. O, se si vuole dire forse in forma più severa, una Chiesa che, pur senza tralasciare i suoi problemi di indole intraecclesiale, concentra prevalentemente la sua attenzione su quelli transecclesiali e ridimensiona i primi alla luce di questi secondi.
Torniamo a ribadirlo: non è che questa impostazione ecclesiologica della GS ignori o sopprima le ricchezze straordinarie di quella della LG. Le riconosce e le accoglie, ma per aprirle in una nuova direzione, quella del servizio all’umanità. È per questo che essa dà per scontata l’accettazione di tutte le novità apportate intraecclesialmente dal Concilio, e che non discute minimamente.
Altre accentuazioni fondamentali
Attorno alla transecclesialità appaiono nella GS una serie di altre caratteristiche che vengono ad esplicitarla e a renderla più evidente. Ne prendiamo in considerazione le principali.
L’attenzione ai “segni dei tempi”
Anzitutto, la presa in considerazione dei “segni dei tempi”. Appunto perché la costituzione è tutta permeata da uno spiccato senso storico, eco della diffusa sensibilità contemporanea, ha sentito il bisogno di fare attenzione a questa tematica. I segni dei tempi, sociologicamente parlando, sono quegli avvenimenti, fugaci o durevoli, che puntano verso una situazione nuova dell’umanità, quindi verso il futuro, anticipandola già parzialmente e imperfettamente nel presente. Ovviamente, l’agente operatore di tali segni è la libertà collettiva degli uomini, in stretta vincolazione con la natura. Ora, seguendo una linea teologica che si era andata affermando in questi ultimi decenni, il Concilio ha voluto evidenziare la valenza teologale di tali segni. E la costituzione pastorale è il luogo dove ciò è avvenuto in forma palese (cf nn. 4a, 11a). Essa sottintende che questi segni sono il materiale privilegiato del servizio ecclesiale, appunto perché è in essi che si gioca prevalentemente il futuro dell’umanità e, in esso, la realizzazione del progetto di Dio.
L’accentuazione della dimensione profetica
In secondo luogo, e in stretto collegamento con quanto è stato appena detto, si deve registrare l’accentuazione della dimensione profetica della comunità ecclesiale. Due testi lo ribadiscono chiaramente. Il n. 4a, che sostiene che per svolgere il suo servizio di salvezza è dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, e il n. 11a che, concretizzando ancora maggiormente le cose, dice che il popolo di Dio deve cercare di discernere negli avvenimenti, nelle ricerche e nelle aspirazioni cui prende parte insieme con gli altri uomini del suo tempo, i segni veri della presenza o del piano di Dio. Questi due testi traducono, in forma attuale e comprensibile, ciò che fu la funzione profetica già nell’antico popolo d’Israele e anche nelle comunità neotestamentarie, ma inquadrandola sullo sfondo di quella apertura transecclesiale che caratterizza il modello ecclesiologico della GS. Si viene così a dire che, per una Chiesa impegnata prevalentemente sul fronte dei grossi problemi storici dell’umanità, il discernimento profetico risulta indispensabile. Non solo, ma che esso dà la tonalità propria a tutta l’attività ecclesiale, anche a quella culturale.
La centralità del dialogo
In terzo luogo è da rilevare l’insistenza con cui la costituzione parla di uno dei modi concreti in cui la Chiesa deve realizzare il suo servizio al mondo, e cioè il dialogo (cf n. 3b, 4a). Già la LG aveva superato quella concezione secondo la quale la realtà veniva spaccata in due, riponendo nella Chiesa la totalità della verità e nel resto l’errore e l’inganno. Ma lo aveva fatto nell’ambito ecumenico dei rapporti tra le diverse confessioni cristiane. Qui il superamento è molto più largo, poiché viene fatto nell’ambito dei rapporti della Chiesa con il mondo. Dialogare significa ricercare insieme la verità. E ricercare la verità suppone che si abbia coscienza di non possederla, o almeno di non possederla pienamente. Il mondo, e cioè la storia umana in quanto tale, non è unicamente una congerie di errori e di menzogne; c’è molto di verità in esso, nelle sue ricerche, nei suoi tentativi di miglioramenti in umanità. Il fatto di avere in mano il Vangelo, verità ultima sull’uomo, non dispensa la Chiesa dallo sforzo di cercare la sua realizzazione storica. E in questo tentativo può ricevere molto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano (cf n. 44a). Ecco la ragione ultima del dialogo. Non più quindi un atteggiamento di semplice magistero, ma atteggiamento di condivisione nella ricerca, sempre guidata dalla luce che alla Chiesa viene dal Vangelo di Gesù Cristo. Tutto ciò finalizzato, come dice la stessa costituzione, ad un unico e supremo scopo: “che venga il Regno di Dio e si realizzi la salvezza dell’intera umanità” (n. 45a).
L’autonomia delle realtà terrene
Un’ultima istanza è da rilevare nell’ecclesiologia di servizio all’umanità proposto dalla GS, e cioè l’importanza del riconoscimento dell’autonomia delle realtà terrene. Parlando del rapporto Chiesa-mondo nella LG ne abbiamo fatto un cenno, sostenendo che le cose erano lì appena abbozzate. Ora sono apertamente affermate, soprattutto nel n. 36 del capitolo dedicato all’attività umana nel mondo: “Le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare”. Quest’autonomia sottrae le realtà del mondo da quella tutela teocratica e sacrale alla quale sono state sottoposte per secoli, in altri progetti ecclesiologici. Un caso emblematico, al quale fa un velato riferimento la stessa costituzione, è quello di Galileo, nel quale in nome della fede si è voluto imporre delle prese di posizione scientifiche.
Nel suo servizio al mondo la Chiesa non può non tenerne conto, anzi dovrà procedere con grande modestia e discrezione, sapendo che non per il fatto di avere la luce della fede possiede anche la conoscenza delle leggi che reggono le attività mondane.
ARTICOLAZIONE DELLE COSTITUZIONI ALL’INTERNO DELLA PRODUZIONE CONCILIARE
Come ho avuto occasione di dire precedentemente, la LG costituisce una colonna portante dell’intero edificio del Concilio. Essa ha in certo senso polarizzato attorno a sé tutti gli altri documenti e ha dato loro ispirazione e organicità. Questa affermazione comporta però il rischio di concepire piattamente il Concilio stesso, come se esso non avesse costituito un vero e reale processo di crescita e maturazione dell’autocoscienza ecclesiale.
Se il Vaticano II viene visto invece in questo ultimo modo, allora tale affermazione va ridimensionata.
La costituzione dogmatica sulla Chiesa ha certamente un peso molto grande in esso e ne costituisce una tappa fondamentale, ma non l’ultima. Secondo quanto è apparso dalla presentazione della GS, bisogna concludere che l’ultimo passo dato in Concilio, la vera tappa ultima della sua maturità (sempre relativa) è costituita da essa, soprattutto con la sua rinnovata impostazione ecclesiologica. La costituzione pastorale, come si è già rilevato più di una volta, non ha né ignorato né rinnegato le ricchezze innovatrici della LG; le ha recepite tutte superandole però in quella nuova prospettiva transecclesiale che la caratterizza fondamentalmente.
Stando le cose così, bisogna trarne le conclusioni. E la principale è che nell’articolazione di queste quattro costituzioni conciliari la Gaudium et Spes dovrebbe svolgere un ruolo egemonico. Non solo, ma va anche aggiunto che si dovrebbe fare una rilettura di tutte e tre le altre alla luce di essa. Il Concilio non ha potuto farlo, ovviamente, per mancanza di tempo, ma anche forse per mancanza di sufficiente distanza. Non ebbe l’opportunità di riflettere sull’intero suo operato. Ora però, passato il tempo e con la possibilità di avere una sufficiente prospettiva, occorre farlo. Una rilettura del Vaticano II che voglia essergli fedele non può assolutamente dimenticarlo, a rischio di travisare radicalmente il suo messaggio.