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    Ripensare i sacramenti: dal paradigma naturalistico al paradigma dialogico



    Carmine Di Sante

    (NPG 1992-08-28)


    Secondo la teoria di Thomas Kuhn, storico e filosofo contemporaneo americano, qualsiasi ricerca scientifica avviene sempre all'interno di un insieme di presupposti teorici e pratici, tra loro sufficientemente omogenei e strutturati, che, lungi dall'essere messi in discussione nel corso della ricerca, ne costituiscono, ad insaputa dello stesso ricercatore, la precomprensione e la guida, cioè «il paradigma». Tali presupposti solo raramente, e in condizioni particolari, vengono messi in crisi e sostituiti da altri che, in questo caso, danno inizio ad una vera e propria «rivoluzione scientifica».
    Ciò che Kuhn afferma a proposito della ricerca scientifica vale pure, in parte, a proposito della ricerca teologica, tesa a tradurre, in linguaggio comprensibile e adeguato alle diverse epoche e sensibilità storiche, il senso della rivelazione del Dio biblico. Anche la riflessione teologica, infatti, non diversamente dalla ricerca scientifica, si lascia guidare dalla «mano nascosta» di determinati «paradigmi», che solo in precisi periodi storici vengono messi in discussione e sostituiti.
    Richiesto di rendere ragione delle idee di fondo del terzo volumetto della Collana di «Teologia per giovani animatori» dedicato ai sacramenti (Celebrare la vita. Viaggio nel mondo dei sacramenti, Elle Di Ci, Torino 1991), l'autore di queste pagine ha scoperto con sorpresa, lui stesso, il paradigma dal quale, a sua stessa insaputa, si era lasciato guidare e il suo distanziamento dal paradigma classico e tradizionale, la cui crisi da molti viene sempre più denunciata come irreversibile.

    Il paradigma tradizionale

    Il paradigma classico - l'insieme delle idee, convinzioni ed immagini dentro le quali, dalla maggior parte dei trattati, viene veicolata e spiegata la sacramentaria cristiana - può essere qualificato come naturalistico o organico. Con tale paradigma si intende il fatto che la tradizione cristiana, per esprimere e spiegare la grazia, cioè il rapporto misterioso e peculiare tra Dio e l'uomo, ha derivato e deriva dal mondo della natura il suo linguaggio espressivo fondamentale, sia a livello metaforico, il linguaggio che alimenta i sentimenti e il «cuore», che a livello concettuale, il linguaggio che rigorizza e trasforma in teoria e sistema il linguaggio metaforico.
    Tra le metafore «naturalistiche» più note, entrate a far parte del sentire cristiano, c'è quella dell'acqua e quella della linfa, due metafore simili, con la differenza che la prima proviene dal mondo inanimato, la seconda dal mondo vivente, vegetale o animale. Pensare il rapporto tra Dio e l'uomo con la metafora dell'«acqua» o della «linfa» vuol dire pensare - e, prima di pensare, sentire - che Dio si comporta ed agisce allo stesso modo dell'«acqua» e della «linfa», cioè come «energia» che si espande e vivifica e che, non diversamente dall'«acqua» e dalla «linfa», si dispiega e realizza attraverso un processo strutturato e articolato.
    Le metafore dell'«acqua» e della «linfa» sono, infatti, metafore composite i cui momenti o aspetti essenziali - irriducibili ma correlati - sono almeno tre: la fonte da cui traggono origine (sorgente o radici); il canale attraverso cui circolano (condotti o vasi); il fine che promuovono e realizzano (l'irrigazione della terra o il sostentamento del corpo...). Questi tre momenti o aspetti sono gli stessi che, logicamente e coerentemente, si ritrovano nell'articolazione del mondo della «grazia» - il modo di Dio di rapportarsi all'uomo - dove, ad un piano soprannaturale, cioè sempre naturale anche se ad un livello superiore, si parla della fonte (Dio, Cristo e Chiesa organicamente intesi), dei canali e dei frutti della grazia.
    In questo paradigma naturalistico appare evidente il modo di comprendere i sacramenti: strumenti, mezzi o canali - linguaggi entrati in profondità a far parte del sentire e del dire cristiano - attraverso i quali la grazia, o l'amore di Dio, entra ed alimenta il soggetto umano rendendolo capace di vivere per le cose celesti (secondo la terminologia tradizionale la grazia elevante) e riscattandolo dalle forze del male (la grazia sanante).
    E anche quando la categoria della strumentalità (i sacramenti come mezzi) veniva integrata e corretta con quella della simbolicità (i sacramenti come segni), quest'ultima veniva facilmente ricatturata e interpretata all'interno della prima, sia attraverso l'insistenza che si trattava di segni efficaci per virtù intrinseca, sia, soprattutto, attraverso l'affermazione che al di fuori di essi non poteva darsi la salvezza, proprio come, al di fuori della «linfa», non si dà, per un albero, la possibilità di vita.

    Il nuovo paradigma

    Questo paradigma naturalistico, che pensa l'uomo dentro la natura e allo stesso modo della natura, entra in crisi con il moderno che, come è affermazione comune, si caratterizza per la fuoriuscita del soggetto dalla totalità organica e per l'affermazione della centralità del soggetto umano e, quindi, dell'antropologia come prospettiva irriducibile sia alla cosmobiologia greca che alla luminosa visione medioevale. Entrata in crisi colla nascita del moderno, è però solo in questo secolo che, per quanto riguarda soprattutto il cattolicesimo, questo paradigma ha rivelato e rivela i suoi limiti, grazie alle istanze dell'esistenzialismo e del personalismo, agli apporti dell'antropologia duale e relazionale, la quale al soggetto che si autopone sostituisce il soggetto posto dall'altro (un nome per tutti è quello di M. Buber), e alla riscoperta della bibbia, soprattutto della sua dimensione dialogica che ne costituisce la sostanza più vera, grazie ad un'ermeneutica meno influenzata dalla prospettiva «naturalistica» dell'ellenismo.
    Il libro dove tutti questi motivi sono confluiti e che, come nessun altro, ha contribuito al ripensamento, nell'ambito cattolico, della sacramentaria, è quello di E. Schillebeeckx, Il Cristo Sacramento dell'incontro con Dio, traduzione di E. Balducci, Paoline, Roma 1962 (l'originale, di cui l'edizione italiana rappresenta solo una parte, è del 1952, con il titolo De sacramentale Hielseconomie).
    Grazie a tutti questi diversi apporti - qui solo appena accennati - si è lentamente fatta strada, nella ricerca teologica, la coscienza della inadeguatezza del paradigma tradizionale (attraverso diverse modalità la più diffusa e rilevante è quella della disaffezione e disagio nei confronti della pratica sacramentale) e della necessità di un nuovo paradigma centrato non più sul mondo naturale ma su quello umano, il mondo definito costitutivamente dalla relazione interpersonale e dal dialogo.
    Questa nuova sensibilità antropologica non poteva non ridefinire anche il modo di intendere la grazia - cioè il rapporto tra Dio e l'uomo - pensata non più con la metafora dell'«acqua» o della «linfa» che pervade e vivifica l'organismo spirituale soprannaturale allo stesso modo che l'acqua e la linfa pervadono e vivificano il corpo, organismo naturale - bensì con quella della «parola» che chiama ed instaura il dialogo e la relazione. Qui, nel paradigma relazionale, la grazia non è più la forza che, come un fluido, attraversa il soggetto umano, ma la parola imperativa e incondizionata che suscita, nel soggetto, una nuova identità; non più l'energia spirituale che, con la sua potenza, vivifica l'io, ma l'incontro tra due soggetti, tra il Tu di Dio e il tu dell'uomo, che come ogni incontro non si iscrive nell'ordine della necessità ma della gratuità e della libertà e, pertanto, della possibilità. In termini più concettuali ciò vuol dire che, entro il paradigma relazionale, la grazia di Dio più che come principio operativo si configura come evento interpersonale e dialogico.

    L'evento biblico

    Il paradigma dialogico o relazionale si riveste, per il teologo, di una importanza tutta peculiare, non tanto perché esso, nei termini kuhniani, costituisce un altro modo - uno tra i tanti - per interpretare e organizzare la percezione, da parte dell'uomo, di Dio e del suo rapporto con lui, ma soprattutto perché esso, più che un paradigma, è, per la bibbia, il paradigma, che, essendo fondato sulla rivelazione biblica, ha, nella sua sostanza assiologica, valore permanente, misura e giudizio di tutti gli altri.
    Per la bibbia, infatti, la grazia - il rapporto tra Dio e l'uomo - è un evento dialogico, un evento dove Dio viene colto e celebrato come il Tu che interpella, e l'uomo come colui che si trova nella situazione ineludibile del responsabile, nel senso etimologico di colui che è posto, anteriormente al suo volere e alla sua stessa scelta, nella necessità di rispondere e di non poter non rispondere, positivamente o negativamente. Il brano biblico più importante in cui, narrativamente, Israele oggettiva la sua esperienza del Dio biblico è Es 2, 2325: «Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero».
    L'esperienza che Israele fa di Dio matura all'interno di questa situazione di schiavitù in Egitto. Qui dentro i figli d'Israele scoprono Dio come amore che «ascolta il loro lamento», «si ricorda della sua alleanza con Abramo e Giacobbe», «guarda» la loro condizione di oppressi e «se ne prende pensiero» (li «conosce», secondo l'originale ebraico, lo stesso termine con cui si esprime il rapporto sessuale tra Adamo ed Eva). Ma dire questo non è sufficiente se non si aggiunge che l'amore divino di cui Israele fa l'esperienza è un amore gratuito, un amore cioè dato gratis, un amore che non è risposta alla sua ricerca e al suo gemito ma che lo previene con un atto di sovrana liberalità e sovranità.
    Per questo i commentari rabbinici amano sottolineare che, giustamente, il testo biblico non parla di gemiti rivolti a Dio, ma semplicemente di gemiti e che, se Dio interviene, il suo intervento è anteriore e indipendente dalla stessa invocazione d'Israele. Ne consegue, pertanto, che l'esperienza di Israele del Dio biblico è l'esperienza di una gratuità sorprendente e paradossale, l'esperienza di un qualcosa che non è iscritto nell'ordine dello scambio, del dovuto e della necessità, ma nell'ordine della gratuità, della liberalità e della «grazia».
    Il testo per eccellenza dove, nella bibbia, Israele dispiega ampiamente questo suo tipo di esperienza, è soprattutto l'Esodo, il secondo libro del Pentateuco - ma non solamente, dal momento che anche molti altri libri, quali ad esempio i Numeri, il Levitico, il Deuteronomio, Giosuè e gli stessi Giudici ne riprendono e continuano non pochi motivi - costruito, narrativamente e teologicamente, intorno a quattro momenti distinti ma strutturalmente correlati: la liberazione dall'Egitto, la traversata nel deserto, la stipulazione dell'alleanza sul Sinai e l'ingresso nella terra promessa.
    L'evento biblico - e, conseguentemente, i sacramenti che ne sono la riproposizione simbolica e rituale - può essere adeguatamente capito solo attraverso l'analisi e l'intreccio di questi quattro momenti che, più che quattro tappe cronologicamente e geograficamente successive, costituiscono, al livello teologico e ontologico, il dispiegamento storico e narrativo dell'evento della grazia, del modo come Dio e l'uomo si rapportano.

    L'uscita: la gratuità radicale

    Il primo blocco narrativo del racconto esodale è costituito dai capitoli 3-15 del libro dell'Esodo, dove si narra, diffusamente, della liberazione degli Ebrei dall'oppressione dall'Egitto.
    Attraverso il lungo racconto delle cosiddette dieci «piaghe», che va dal capitolo 7 al capitolo 13, il testo sottolinea, con voluta compiacenza, che questa «liberazione» - «esodo» o uscita - avviene in forza di una «potenza» che riduce ad impotenza la «potenza» del Faraone, rivelandone la sostanziale vacuità.
    Ma si resterebbe al di fuori della logica del testo biblico se lo si interpretasse come lo scontro tra due «potenze» - quella del Dio d'Israele e quella del Dio del Faraone - dove la prima trionfa sulla seconda. In realtà l'intenzione profonda del racconto non è quella di presentare lo scontro di due potenze, ma quella di dispiegare, con la forza delle immagini narrative, la potenza dell'amore divino sovranamente libero ed efficace; non è quella di narrare del Dio onnipotente - il Dio che, con la sua forza, annienta il Faraone e i suoi nemici - ma quella di presentare il volto di un Dio la cui potenza è la potenza del suo pathos, il suo «commuoversi», il suo «muoversi» e discendere verso gli «schiavi», cioè verso chi è nulla, chi è senza nome, chi è la feccia dell'umanità. L'intenzione profonda di questi capitoli, incentrati sulla liberazione dall'Egitto, è di mostrare la potenza del pathos recettivo (sentire la sofferenza dell'altro) e attivo (intervenire per eliminarla) di Dio nei confronti d'Israele schiavo in Egitto.
    Sempre per non equivocare questi capitoli, un ultimo aspetto da chiarire è il negativo dal quale Israele viene liberato: un negativo che non è tanto l'oppressione faraonica in quanto tale, quanto, soprattutto, la totalità di senso che l'Egitto, personificato dal Faraone, rappresenta e dalla quale Israele si sente escluso. Se questo è vero, ciò da cui allora Dio libera Israele, è la logica della identità o appartenenza, la logica secondo la quale si è in quanto si appartiene a qualcuno o ad una totalità - impero, stato, nazione, famiglia, club, gruppo, religione, ecc. - per istituire quella nuova identità singolare secondo cui si è non in quanto parte di una totalità bensì in quanto partner della divinità, in quanto, secondo la bella formula luterana, si è coram Deo. E' questa - l'essere coram Deo, faccia a faccia con lui - l'identità ultima e radicale d'Israele, simbolo dell'umano.

    Il deserto: la gratuità riconosciuta

    Al blocco narrativo dell'uscita segue quello della traversata nel deserto che occupa i capitoli 15-19 dell'Esodo e che riportano i noti e paradossali episodi della manna - il pane che discende dal cielo -, delle quaglie - la carne che proviene dall'alto - e dell'acqua dalla roccia.
    Il senso profondo di questi racconti non è quello di narrare nuovi portenti operati da Dio a favore d'Israele, quanto quello di oggettivare la risposta di fede, da parte d'Israele, a quel Dio rivelatosi, con il suo intervento liberatore dall'Egitto, come gratuità; risposta di fede che è accoglienza e coscienza che, se si vive, si vive non in forza della propria progettualità ma di un qualcosa che la trascende incommensurabilmente. Il deserto è infatti, per l'uomo, il luogo della non vita, sia a causa della mancanza del «pane» e dell'«acqua», sia a causa della presenza di animali feroci resi ancora più mostruosi dalla fantasia popolare. Ma ecco il «miracolo» che vi accade: che in questo deserto senza vita Israele non muore bensì vive: non, però, in forza del suo lavoro o sforzo progettuale, bensì di un'«acqua», una «carne» e una «manna» particolari, che non provengono dal «basso» ma dall'«alto», non sorgono dalla «terra» ma scendono dal «cielo»; in forza cioè di una radicale gratuità.
    Il racconto del deserto è l'oggettivazione di questa radicale gratuità e del suo riconoscimento - nel duplice significato di «nuova conoscenza e di azione di grazie» - da parte di Israele. In esso Israele oggettiva la sua coscienza che, se vive, vive in forza di un extra che gli è dato. Nella tradizione ebraica e cristiana questo riconoscimento o riconoscenza troverà particolare espressione nella preghiera liturgica, soprattutto attraverso le formule della benedizione e della lode.

    Il Sinai: la gratuità esigitiva

    Il terzo blocco narrativo, il più ampio e, teologicamente, il più rilevante, è costituito dai capitoli 1940 dell'Esodo e riguarda l'arrivo, seguito alla fine del deserto, del popolo ebraico sul monte Sinai dove Dio si rivela stipulando l'alleanza con Israele. Questo blocco narrativo è, rispetto agli altri, il più importante, perché la stipulazione dell'alleanza è il fine stesso della liberazione dall'Egitto e, rispetto all'ingresso nella terra promessa, ne costituisce la stessa condizione di realizzazione. Il Sinai, dove Dio si rivela come legge o comandamento, è pertanto il vero centro di tutto il racconto esodico.
    Il senso di questa terza tappa è quello di oggettivare, narrativamente, l'aspetto esigitivo - che, cioè, chiede ed esige - della gratuità di Dio. Questa infatti non si offre ad Israele come oggetto ma come imperativo; essa prima di dire: «godimi» e «fruiscimi», comanda: «ama gratuitamente allo stesso modo con cui sei amato». L'amore di Dio dato gratis è chiamato così a diventare, per Israele, il suo nuovo principio di identità: assecondare e acconsentire alla gratuità divina comportandosi, nei confronti di ogni altro, con la stessa logica di gratuità, cioè amando come Dio stesso lo ha amato. E' questo il motivo per cui, in questi capitoli, ricorre come un ritornello il comandamento ad Israele di amare gli stranieri, essendo l'amore per lo straniero l'incarnazione e la prova più convincente del suo amore gratuito, riproduzione e continuazione dell'amore di Dio: «Ti comporterai nei confronti dello straniero allo stesso modo con cui io mi sono comportato con te straniero» (cf Lv 19, 33-34; Es 22, 20, 23, 9).
    Per esprimere questo aspetto esigente della gratuità - l'amore divino dato gratis che chiama ad amare l'altro di uguale amore di gratuità - la bibbia ricorre alla categoria dell'alleanza stipulata da Dio con Israele sul monte Sinai: categoria «scandalosa» e paradossale, la quale afferma che non è tanto l'uomo ad avere bisogno di Dio quanto Dio ad avere bisogno dell'uomo: «l'ebraismo insegna che, come l'uomo ha bisogno di Dio, così Dio ha bisogno dell'uomo per la realizzazione del suo divino progetto. Non è questa un'affermazione blasfema e irriverente?» (W. Silverman).
    Oltre che alla categoria dell'alleanza, la tradizione ebraico-cristiana ricorre anche, per veicolare l'idea della gratuità esigente, al tema della imitazione di Dio e dell'essere a «sua immagine e somiglianza» (cf Gen 1,27).

    La terra promessa: i frutti della gratuità

    L'ultimo blocco narrativo costitutivo dell'evento esodale descrive l'ingresso d'Israele nella terra promessa, e trova posto non nel libro dell'Esodo ma in un libro specifico a parte, il libro di Giosuè, anche se non bisogna dimenticare che della terra promessa la bibbia parla un po' dappertutto.
    La terra, infatti, è il fine vero e proprio di tutto il cammino esodale, perché se Dio ha liberato Israele dall'Egitto, lo ha guidato per il deserto e ha stipulato con lui un patto sul Sinai, tutto questo lo ha fatto per introdurre il suo popolo «in un paese bello e spazioso... dove scorre latte e miele» (Es 2,8), un paese «fertile... di frumento, di orzo, di viti, di fichi e di melograni... paese dove non mangerai con scarsità il pane, dove non ti mancherà nulla; paese dove le pietre sono ferro e dai cui monti scaverai il rame...» (Dt 8,79).
    Ma perché la terra di Israele sia questa terra, cioè così utopicamente fertile e ricca, a misura del bisogno e del sogno dei suoi abitanti, si richiedono i tre momenti precedenti: la gratuità divina (liberazione dall'Egitto) accolta recettivamente (il deserto) e acconsentita attivamente (il Sinai). La terra diventa, per Israele, terra buona - metafora, in una società agricola, della totalità del mondo felice e ordinato - non in virtù di un principio intrinseco, come pensavano e pensano le culture naturalistiche, bensì in forza dell'alleanza stipulata da Dio sul monte Sinai: in virtù della sua gratuità che Israele, nella libertà, è chiamato a riconoscere e trasformare in principio della sua stessa identità.
    Ciò vuol dire che, per Israele, il centro del reale è inabitato dall'evento di un duplice sì: quello di Dio, costitutivo e appellante, e quello umano, costituito e responsoriale; e che il mondo felice e ordinato fiorisce da questa articolazione (la terra promessa), mentre il mondo caotico e violento (il nostro mondo) dalla sua disarticolazione, cioè dal peccato.
    Ma c'è di più. La bibbia d'Israele, mentre afferma che il mondo ordinato e felice - cioè la creazione - dipende dal sì dell'uomo al sì di Dio, afferma, contemporaneamente, che questo sì non c'è mai stato, essendosi, di fatto, Israele, metafora dell'umano, negato a Dio.
    Gesù, per il Nuovo Testamento, è colui che, con la sua morte e la sua risurrezione, reinstaura l'evento dialogico tra l'uomo e Dio e, pertanto, la possibilità della «terra promessa», del mondo felice e ordinato, cioè della creazione. Gesù, pertanto, non trascende l'evento esodale che, in quanto tale, è intrascendibile ma, in un mondo segnato dal peccato, ne ridischiude, col perdono, l'orizzonte e la possibilità oggettiva.

    I sacramenti «messa in scena» dell'evento biblico

    I sacramenti dispiegano in linguaggio rituale questo evento fallito e ricostituito; dicono e ridicono, nella totalità e complessità dei loro linguaggi pretematici (gesti, simboli, riti, movimenti, ecc.), questo evento originario su cui si regge il reale.
    Si potrebbe dire, con una nuova metafora, che i sacramenti sono «la messa in scena» dell'evento donato dall'amore di Dio e ridonato dal perdono di Cristo; «messa in scena» da intendere non nell'accezione deteriore del termine - richiamare l'attenzione - ma nel senso rigorosamente teatrale: sottrarre un comportamento alla segretezza per sottoporlo alla visione pubblica.
    I sacramenti sono «la messa in scena» dell'evento biblico in quanto ne sono l'oggettivazione e il dispiegamento a livello linguistico, simbolico e rituale; essi dicono - di quel dire «performativo» che realizza ciò che dice - l'evento biblico: che Dio ama l'uomo gratuitamente e chiama l'uomo a fare altrettanto, costituendolo responsabilità indeclinabile; e che l'evento di questo incontro può essere ricostituito, quando il no umano lo fa fallire, attraverso il perdono - donato e da ridonare - del messia crocifisso.
    Secondo la prassi liturgica più antica, il dispiegamento di questo evento dell'evento dell'amore gratuito di Dio che, nel Cristo morto e risorto, chiama l'uomo a riamare - avveniva in due modalità celebrative: una settimanale (la celebrazione dell'eucaristia), in cui si celebrava il memoriale della morte e risurrezione del messia crocifisso, in forza del quale si riattiva, nella storia, l'evento del dialogo tra Dio e l'uomo; l'altra annuale (la celebrazione dell'iniziazione cristiana nella veglia di pasqua, comprendente battesimo/cresima/eucaristia), che celebrava l'ingresso nello spazio dialogico tra Dio e l'uomo riaperto dal messia crocifisso.

    I sette sacramenti

    La tradizione cattolica ha comunque dispiegato l'unico-duplice sacramento dell'Eucaristia e dell'iniziazione in sette diversi momenti sacramentali, distinti anche temporalmente, ciascuno dei quali mette in luce e dispiega un aspetto importante dell'evento cristiano o in ambito particolare reinterpretato alla sua luce.
    Il battesimo è la «messa in scena», cioè il dispiegamento, della gratuità assoluta di Dio, il suo «sì» incondizionato che costituisce l'uomo responsabile, facendolo rinascere - «la nascita dal cielo» - all'amore di alterità. Battezzare un bambino è dire al mondo che Dio ama ogni bambino, cioè ogni essere umano che appare sulla faccia della terra, di amore di gratuità, e che il senso dell'esistere è nell'essere chiamati a fare altrettanto.
    La cresima è il dispiegamento del sì dell'uomo a Dio, della sua risposta all'appello e del suo costituirsi responsabilità nei confronti di Dio, attraverso il proprio assenso, e nei confronti del prossimo, amandolo di amore di alterità, grazie allo spirito del messia crocifisso.
    L'eucaristia - il sacramento dei sacramenti fondativo di tutti gli altri - è il dispiegamento dell'evento dialogico divino o dell'evento dell'alleanza, così come si è oggettivato nel testo esodale attraverso i suoi quattro momenti precedentemente ricordati; ed è soprattutto la ricostituzione di questo evento nella morte e risurrezione di Gesù, la «nuova ed eterna alleanza».
    La penitenza o riconciliazione è il dispiegamento del perdono di Dio dato una volta per tutte nel dono del messia crocifisso e a disposizione di ognuno, come possibilità oggettiva.
    Se i primi quattro sacramenti sono il dispiegamento dell'evento divino rivelatosi come gratuità di amore che chiama ad amare e come sua ricostituzione nel messia crocifisso, diverso è lo statuto dei tre rimanenti sacramenti che sono l'esplicitazione di tre spazi - gli spazi che, nel loro insieme, definiscono l'umano - in cui vivere secondo il principio dialogico o dell'alleanza: lo spazio del potere, nel senso più generale; lo spazio dell'amore o dell'eros soprattutto coniugale; lo spazio della malattia e della morte che segnano immancabilmente la vicenda umana.
    Il sacramento dell'ordine o ministero dice, cioè esplicita, attraverso la figura del responsabile della comunità cristiana e la «messa in scena» del suo essere «ministro», ovvero «servo», che nel nuovo spazio aperto dall'evento dialogico costituito dall'amore di Dio e ricostituito dal perdono del messia crocifisso, il potere - ogni potere - può essere vissuto solo come diaconia (servizio), e che pertanto l'uomo non è più ultimamente progettualità autofondativa ma responsabilità e giustizia.
    Il sacramento del matrimonio dice, attraverso la figura di una coppia, che l'amore di desiderio e di affinità non è la logica ultima e fondativa dei rapporti umani, e che esso deve trascendersi in amore di alterità, cioè in bontà, se non vuole pervertirsi in violenza, inerendo alla logica del desiderio, come ci ha ricordato prepotentemente l'antropologo R. Girard, una dimensione di violenza. La bontà non è l'alternativa all'amore di desiderio, ma il principio che lo regola e, regolandolo e disambiguandolo, lo potenzia.
    Il sacramento dell'unzione, attraverso la figura del malato, cioè di un soggetto gravemente sofferente, dice che il soffrire non è iscritto nel volere creatore - essendo Dio solo amore - ma nella storia di peccato dei soggetti umani e che in Cristo, che ha vinto il soffrire, ogni soffrire può essere vinto, se lo si assume non come maledizione ma come possibilità dove - paradosso dei paradossi - è dato riscoprire la realtà originaria di essere esseri di gratuità. Se la malattia, infatti, è la messa in crisi della progettualità del corpo condizione e radice di ogni ulteriore progettualità, essa pone il soggetto umano di fronte all'interrogazione se, oltre la progettualità, ci sia il nulla, come vuole il nichilismo, o la «gratuità» che, come vuole la bibbia, è ciò in forza di cui ciascuno di noi vive. Il sacramento dell'unzione dice di quel dire pubblico che riguarda tutti che il soffrire, in quanto fine della progettualità, è il luogo privilegiato dove riaccedere all'esperienza e riapprendere il linguaggio della recettività la non progettualità e dove rinascere alla coscienza della radicale gratuità in forza della quale viviamo e che siamo chiamati a ridonare.

    Conclusione

    Per la bibbia il «segreto» del reale, quello che lo anima nelle sue nascoste profondità e gli dà senso, è l'evento della gratuità esigente, evento dialogico tra Dio e l'uomo instaurativo di ogni evento dialogico tra uomo e uomo.
    I sacramenti dicono e ridicono, nella storia umana, questo «evento» dandogli voce e dispiegandolo. Ed è consegnandosi a questo evento che il mondo fiorisce come mondo felice e ordinato, cioè come creazione. Per molti non solo i cosiddetti «laici» ma anche cristiani i sette sacramenti sono come dei segni «polverosi» o vecchi «attrezzi» dimenticati o abbandonati in soffitta. Ma a quanti hanno la fortuna o il coraggio di non farsi intimidire dal loro sapore di antico e di «rispolverarli» di accostarvisi cioè ermeneuticamente è dato di scoprire, con sorpresa, la loro gioiosa freschezza e attualità.
    Perché essi sono come sette armoniose «finestre» dalle quali, nella casa ambigua del reale, entra la luce discreta del Senso: la convocazione dell'Amore ad amare di amore di alterità, cioè di gratuità.


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