Mario Pollo
(NPG 1993-01-77)
Nella attuale realtà sociale italiana è in atto una sorta di distorsione percettiva che si riflette nell'immaginario collettivo. Questa distorsione riguarda, in generale, la natura delle istituzioni e, in particolare, il rapporto cittadino-istituzioni. Questa distorsione può essere riassunta nella concezione che vede da un lato le istituzioni, percepite quasi esclusivamente come le forme politico-organizzative attraverso cui si svolge la vita dello stato e, dall'altro lato, i cittadini considerati solo come utenti, più o meno passivi, delle stesse istituzioni.
La conseguenza di questo modo di interpretare le istituzioni è la facile e, nonostante tutto, rassicurante immagine sociale, enfatizzata dai mass media, di un paese che vive una drammatica crisi delle istituzioni per l'esclusiva responsabilità dei partiti tradizionali e dei loro rappresentanti.
I cittadini, le organizzazioni sociali ed economiche costituirebbero, invece, un corpo sano vittima incolpevole di questi partiti e del loro governo. Da una parte, insomma, ci sarebbero i buoni: i cittadini, e dall'altra i cattivi: i politici e le "loro" istituzioni.
UNA DISTORSIONE PERCETTIVA
In altre parole l'Italia avrebbe un corpo sano e una testa politica, lo stato, malata per cui sarebbe sufficiente cambiare il sistema partitico e gli uomini politici dominanti per superare la crisi delle istituzioni che la travaglia.
Ora se è vero che le principali istituzioni, centrali e periferiche, del sistema di governo e di servizio sono in crisi e che di questa crisi sono in gran parte responsabili i politici e i loro partiti, insieme molto spesso agli apparati burocratici di gestione delle istituzioni, è altrettanto vero che di questa crisi sono responsabili anche i cittadini e molte delle loro organizzazioni sociali ed economiche.
Infatti le istituzioni sono qualcosa di più complesso, almeno nei paesi a regime democratico, di una forma organizzativa dello stato e delle persone che ne fanno parte, essendo anche la forma della regolazione dei rapporti tra i cittadini e tra le organizzazioni sociali ed economiche all'interno di particolari aree della vita sociale. Questo significa che, almeno parzialmente, le istituzioni riproducono, oltre a produrre, i modelli di convivenza, ovvero la cultura sociale e i rapporti di potere consolidati tra le persone all'interno di una particolare area del sistema sociale.
Ora, pur dando per scontato che le istituzioni, tendendo alla conservazione di se stesse, recepiscono molto lentamente e spesso con ritardo le trasformazioni della realtà sociale, è pur vero che esse rappresentano sempre, almeno parzialmente, questa realtà. Questo significa che il malessere, la crisi, che attraversa le istituzioni investe anche la maggioranza dei cittadini e delle loro organizzazioni sociali ed economiche.
La distanza, specialmente a livello etico, tra le istituzioni ed i cittadini non riguarderebbe perciò, se questa considerazione è vera, tutti i cittadini ma solo una minoranza: quella costituita dalle persone che hanno interiorizzato un sistema di valori e una visione della realtà che permette loro di percepire lo scarto esistente tra la loro vita individuale, tra il loro orizzonte esistenziale e quello della società organizzata nelle sue varie articolazioni.
Il problema vero che affligge la vita sociale italiana attuale non è perciò limitabile alla crisi delle istituzioni in quanto riguarda anche il sistema di "norme" che dovrebbe in qualche nodo regolare la condotta sociale dei singoli cittadini. La verità di questa affermazione può essere verificata nella vita quotidiana osservando i comportamenti sociali delle persone e notando come buona parte di esse rispetti le varie norme della convivenza sociale, a cominciare da quelle del traffico, solo se c'è qualcuno dotato di poteri di coercizione e di punizione che le fa osservare. Alla grande disonestà del politico corrisponde spesso la piccola disonestà del cittadino in un gioco simmetrico. La regola di questo gioco è semplicemente quella per cui le persone cercano di cogliere tutte le occasioni che possono offrire qualche vantaggio, non importa se materiale o immateriale, alla loro vita individuale e sociale.
Questa considerazione, non pessimistica ma solo realistica, obbliga a mettere al centro, accanto al problema della riforma delle istituzioni, quello di come "educare" le persone ad atteggiamenti e comportamenti segnati dal rispetto delle "norme" e dei valori che sono alla base del patto sociale che è codificato nelle istituzioni. Questa educazione può avvenire solo attraverso il processo che porta ad interiorizzare le norme. La necessità di questa educazione è motivata, oltre che da considerazioni generali di tipo morale o relative all'ordinata convivenza sociale, anche e soprattutto dalla consapevolezza che le istituzioni sono l'unica garanzia che le persone socialmente più deboli hanno a disposizione per la tutela dei loro diritti e dei loro bisogni.
Infatti nella vita delle società libere e democratiche quando viene a indebolirsi il potere delle "leggi" di regolare la vita sociale e, di conseguenza, la condotta delle persone è esclusivamente determinata dal fine del perseguimento dei loro personali interessi, le persone più deboli socialmente sono quelle destinate a soccombere ed a divenire vittime dell'ingiustizia, della violenza e della prevaricazione.
LA SECOLARIZZAZIONE DELLE NORME
Il processo di secolarizzazione che ha investito le società moderne ha toccato anche il fondamento della legge erodendo sia la concezione di una legge divina sottostante quella umana, sia quella di una legge naturale anteriore alla organizzazione dell'uomo nello stato. Nelle società moderne, in seguito alla secolarizzazione, le leggi attraverso cui vengono regolati i rapporti sociali e i comportamenti individuali sono stabilite dallo Stato sulla base di criteri che questi stabilisce in modo autonomo.
Essendo lo stato stesso che stabilisce i criteri che regolano le condotte sociali e individuali delle persone viene da chiedersi quale sia il fondamento della legittimità della legge, al di là dell'essere gradita alla maggioranza della rappresentanza politica. È questa una delle domande intorno a cui si esercita, e si è esercitata nel passato, la filosofia del diritto. Pur senza entrare nel merito del dibattito filosofico è importante segnalare che questi sembra essersi incentrato intorno alla funzione degli interessi delle persone e dei gruppi sociali nella produzione della legge.
Sembra, infatti, che la legge, oggi, non potendosi più fondare su principi universali filosofici e/o religiosi, non possa avere altro fondamento che quello dell'essere una risposta agli interessi delle persone. I sostenitori di questa concezione sostengono che la dinamica degli interessi in una società complessa e pluralistica è tale per cui questi vanno al di la dell'orizzonte individualistico, egoistico e utilitaristico del singolo, perché si afferma che in questo tipo di società l'individuo può realizzarsi pienamente solo se è solidalmente integrato nel Noi. In altre parole la società moderna esige dagli individui l'interesse del disinteresse.
Nella società complessa lo stare insieme richiede il rispetto di un principio più evoluto di quello tradizionale del "alterum non laedere", in quanto la vita comunitaria esige che ogni individuo da un lato eserciti pienamente i propri diritti e dall'altro produca prestazioni sociali culturalmente più ricche ed evolute. Infatti, come illustrano le cronache quotidiane, la sopravvivenza e la vita sociale risultano messe in crisi se le persone non si prendono cura nel loro agire di ciò che è altro da loro: l'ambiente naturale, le persone svantaggiate ed emarginate o semplicemente diverse e socialmente più deboli. Questo perché nelle società complesse ogni persona avverte la propria dipendenza radicale dall'altro. La novità di questa scoperta sta nel fatto che il dover tener conto dei bisogni e dell'interesse dell'altro non appare più come una costrizione ma come la sorgente stessa della libertà. [1]
Questo significa che la società complessa, pur senza far riferimento a concezioni religiose od etiche ha prodotto un'etica dell'alterità. Ora anche se questo modo di spiegare il fondamento della legge nella società moderna complessa sembra alquanto forzato e financo arbitrario, rimane il fatto incontrovertibile che anche i sostenitori di questa filosofia del diritto secolarizzata e laica mettono al centro delle loro riflessioni il tema dell'altro e della solidarietà come generatore delle norme che regolano la condotta sociale delle persone.
Anche se si può sostenere che questa scoperta più che dalla dinamica della vita sociale sia prodotta dall'impatto delle contraddizioni e delle carenze di questa con la visione dell'uomo e della vita prodotta dall'utopia cristiana, è comunque positivo il riconoscimento che la norma, per essere produttrice di una vita sociale umana, deve trascendere l'interesse egoistico e mettere al centro quell'interesse che nasce dalla dinamica del confronto tra gli interessi di tutti gli abitanti della società e dal loro rispetto.
In questo modo di pensare le norme che regolano la vita sociale appare chiaramente come il rispetto della legalità sia, di fatto, una forma di tutela sia delle minoranze che degli individui più deboli.
Questa scoperta della norma fondata sul principio dell'alterità che viene individuata come prodotto della cultura sociale moderna è, tuttavia, come si rilevava in premessa considerando la crisi della legalità che attraversa la società italiana, un patrimonio che pare posseduto solo da una minoranza dei cittadini italiani. Pur essendo questa considerazione vera essa non comporta affatto una riduzione dell'importanza, decisiva, che la scoperta di un nuovo modello di convivenza sociale, fondata sull'alterità, ha per la vita sociale comunitaria nella società complessa. Tutt'altro! Essa segnala infatti la direzione che la vita sociale italiana deve prendere per ricostituire il tessuto di una convivenza basata sulla legalità.
Questa direzione è indicata concretamente nella vita sociale dal diritto di cittadinanza che ispira sia le riflessioni del volontariato sociale che la produzione legislativa più evoluta del parlamento.
IL DIRITTO DI CITTADINANZA
Nell'attuale temperie della vita sociale appare come fondamentale per lo svolgimento di una vita comunitaria umanamente ricca e legale l'esercizio del diritto di cittadinanza. L'effettivo esercizio dei diritti da parte dei cittadini tende ad apparire oggi sempre di più come l'indicatore principale della qualità della vita sociale. Qualcuno teme che questa accentazione, per alcuni versi un po' enfatica, intorno ai diritti delle persona indebolisca il loro senso del dovere per cui tutti avrebbero dei diritti da esercitare ma nessuno dei doveri da compiere.
La realtà è per fortuna diversa. Infatti l'esercizio dei diritti da parte di tutti i cittadini richiede, affinché possa essere soddisfatto, che ognuno agisca in modo tale da renderli esigibili e, quindi, postula il dovere di ogni persona di operare all'interno dei propri ruoli sociali in modo tale da rendere effettiva per sé e per gli altri la fruizione dei diritti sociali. Nella società complessa il tema dei diritti configura, inevitabilmente, quello dei doveri. Anzi si può dire che il tema dei diritti di cittadinanza comporti un superamento del dualismo diritti-doveri in quanto propone un percorso in cui la realizzazione personale di ognuno è strettamente dipendente dalla realizzazione personale degli altri. In questo senso fare il proprio dovere non è altro che un modo per assicurare l'esigibilità dei propri diritti e, quindi, la garanzia della propria autorealizzazione.
Questo comportamento sociale viene assunto oggi come il nuovo modo di essere cittadini e, quindi, come il fondamento della nuova cittadinanza.
La nuova cittadinanza
La nuova cittadinanza si fonda, infatti, sull'assunzione da parte dei cittadini di forme di responsabilità diretta nella determinazione delle condizioni che segnano sia le proprie personali condizioni di vita sia quelle degli altri cittadini, specialmente di quelli più deboli, svantaggiati e meno protetti.
Essere cittadini equivale, quindi, all'essere protagonisti della creazione e della gestione delle condizioni che segnano la vita delle persone.
Questa concezione di cittadinanza, pur essendo come si è visto un frutto della modernità, rimanda alle origine del pensiero etico in quanto le radici della morale risiedono nell'atto arcaico della scoperta della necessità della cura della propria casa. Essere cittadini è, infatti, prendersi cura della propria casa personale, della casa comune e, solo quando inevitabile, della casa degli altri.
La scoperta di questo concetto di cittadinanza segnala, come si è già detto analizzando il fondamento della norma, anche il ritorno dell'etica nelle basi dell'organizzazione della convivenza umana e la crisi delle concezioni esclusivamente utilitaristiche o economicistiche.
In questo elemento della rifondazione etica della cittadinanza la persona ritrova il suo protagonismo che le consente nello stesso tempo di essere Noi ed Io, di esaltare, cioè, sia la propria individualità e, quindi, il valore della propria soggettività, sia la propria appartenenza indivisibile alla collettività all'interno della quale vive il proprio destino nello spazio e nel tempo.
La nuova cittadinanza è perciò anche e sempre la riscoperta e la messa in valore del legame inscindibile nella vita umana tra Noi ed Io. Senza Noi non potrebbe esistere alcun Io. Infatti se non esistesse un gruppo sociale, dotato di una sua cultura sociale, che fornisse alla persona le risorse e gli itinerari per sopravvivere, per crescere e per sviluppare le proprie potenzialità nessun nuovo nato potrebbe diventare una persona umana.
Allo stesso modo senza l'Io non potrebbe esistere alcun Noi, in quanto mancherebbe alla aggregazione sociale qualsiasi grado di autoconsapevolezza, di autonomia e di libertà.
Se si accetta questa concezione allora si possono considerare la libertà e l'autonomia individuale non come le antagoniste delle costrizioni della norma, ma, bensì, come il suo nutrimento, allo stesso modo in cui la norma deve essere considerata il nutrimento senza il quale non può crescere alcuna libertà e autonomia personale.
Essere cittadini significa perciò essere persone che giocano la loro vita nella circolarità ermeneutica della solidarietà tra Io e Noi.
Il volontariato può essere considerato la profezia di questo modo di considerare l'esercizio del diritto di cittadinanza.
Il volontariato, nelle sue accezioni più evolute, va infatti oltre la spinta della donatività, generata da motivi affettivi, etici e religiosi per divenire il luogo concreto in cui le persone manifestano concretamente l'adesione alla consapevolezza che solo assumendo, in prima persona, la responsabilità verso la possibilità delle persone più svantaggiate di realizzare se stesse all'interno di una piena integrazione sociale, le persone costruiscono la comunità in cui la loro stessa vita può esprimersi con pienezza.
Lo stesso discorso fatto per il volontariato può essere svolto per quelle azioni sociali che le persone realizzano per la tutela dell'ambiente naturale, per la pace e per le trasformazioni sociali destinate a consentire a tutte le persone l'esercizio dei loro diritti e della manifestazione della loro soggettività e della loro diversità.
LA RIDUZIONE DELLA COMPLESSITÀ SOCIALE
Tuttavia la nuova cittadinanza non può produrre compiutamente un ritorno pieno della legalità se non è accompagnata da un processo di riduzione della complessità sociale, ovvero se non si ristabilisce una gerarchia dei valori e dei bisogni che attraversano la vita individuale e sociale delle persone. Infatti un elemento della crisi della legalità nasce da quel particolare aspetto della cultura sociale per cui ogni valore, per insignificante o aberrante che sia, ogni bisogno, per marginale o patologico che sia, ha la stessa dignità di qualsiasi altro, anche se più consolidato o importante ai fini della vita.
Questa affermazione tende, cioè, a sottolineare che la sola dinamica degli interessi, pur se illuminata dal principio dell'alterità, non è in grado di dare un fondamento solido e, quindi, un valore non solo "pragmatico" alla norma.
Questo significa che è necessario lo sviluppo di una fonte di legittimità trascendente gli interessi delle persone che sia in grado di agire, oltre che come principio di semplificazione e di gerarchizzazione dei valori e dei bisogni che circolano nella vita sociale, anche come confine che separa le norme possibili da quelle che non possono esserle.
Senza, ad esempio, il principio della sacralità della vita umana possono essere introdotte norme come quella dell'aborto e dell'eutanasia, che consentono si ad alcune persone di esprimere il loro progetto di vita ma introducono il principio della morte, sotto forma della disponibilità della vita umana da parte dell'uomo. Ora il consentire o non consentire la nascita o la prosecuzione della vita umana, salvo casi estremi, non può essere dell'uomo né singolo, né associato ovvero dello stato.
L'altro elemento importante, quindi, per il ritorno della legalità è quello per cui la dinamica degli interessi deve trovare un confine in un insieme di principi trascendenti la stessa dinamica. Questi principi oltre a fissare i confini della legalità introducono quella gerarchia che rende le norme sociali leggibili in quanto dotate di un senso unitario per la l'uomo e la sua vita.
Il problema, quindi, che si pone alla ricostituzione della legalità e, quindi, di un rilancio della funzione delle istituzioni è anche quello di mettere al centro della produzione delle norme un sistema di valori universale, un sistema di valori in grado cioè di trascendere nella sua validità, le dinamiche sociali e culturali che caratterizzano i tempi ed i luoghi diversi in cui si declina l'umana avventura. Il cristianesimo ha dato un contributo decisivo alla costruzione di questi universali, che sono, o possono esserlo, riconosciuti come validi da tutti gli uomini anche non cristiani.
È forse questo un tema non moderno. Eppure è solo dall'incontro di questo dato della tradizione con quello della dinamica degli interessi tipici del moderno che potranno nascere quelle istituzioni e quelle norme in grado di rigenerare la vita sociale del nostro paese.
Questa considerazione appare vieppiù vera se si pensa che la norma per essere rispettata deve essere interiorizzata, ovvero che deve esistere all'interno della persona di una sanzione interna, accanto a quella esterna. Il senso di colpa, ad esempio, indica la presenza nell'interiorità dell'individuo di questo sistema sanzionatorio che normalmente è costituito da un codice morale. La demonizzazione del senso di colpa, anche se legittima per alcuni versi, ha indubbiamente reso inefficace la capacità di costrizione della norma. Infatti una norma tanto più può contare sulla aderenza ad un codice morale, ed alle conseguenti sanzioni interne all'individuo, tanto meno ha bisogno di sanzioni esterne. Da notare che il fulcro di questo codice interno è, o dovrebbe essere, la norma che bisogna rispettare le norme quando queste però sono compatibili con il codice morale della persona.
Il sistema di principi universali, a cui si accennava prima, è fondamentale, quindi, per il ripristino della legalità non solo ai fini della legittimità della norma, ma anche per la costruzione di un codice morale dell'individuo che lo motivi al rispetto della stessa norma. Senza questo insieme di principi appare difficilmente perseguibile ogni disegno educativo che voglia proporsi la produzione di codici morali interni che aiutino le persone a vivere all'interno del rispetto delle norme della convivenza sociale.
Nessuna educazione alla lealtà verso le istituzioni ed alle norme che le fondano può darsi senza l'esistenza di principi etici in grado di produrre nell'individuo un codice morale.
NOTA
[1] Cerroni U., Norma, interessi, funzioni, in Conte R. (a cura di), La norma, Roma 1991