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    Come dire Dio rispettando il suo evento e l'attenzione all'educativo?



    Luis A. Gallo

    (NPG 1994-02-54)


    «Dire Dio o tacere Dio»? Qualche anno fa, la rivista francese Recherches de Science religieuse pubblicava un suo numero (67/4, 1979) precisamente con questo titolo. Il titolo del mio intervento presento parte, invece, dalla convinzione che fare pastorale giovanile sia «dire Dio in mille differenti modi e momenti». Non è questa un'ingenuità che ignora l'enorme problematica esistente al riguardo?
    Credo di no. Esprime piuttosto una opzione, all'interno della medesima pastorale. Una opzione che si fonda a sua volta sulla convinzione che, malgrado tutto, Dio «va detto» ai giovani, benché non in qualunque modo e a qualunque costo, ma facendo i conti con ciò che un'autentica fede richiede.

    RICORDANDO I CRITERI DELL'ANNUNCIO

    Mi sembra opportuno riprendere ancora una volta, per affrontare il tema, le indicazioni della Evangelii Nuntiandi sui criteri che devono guidare ogni annunzio della Parola.
    Dio, infatti, è uno dei contenuti di tale annuncio (oggettivamente parlando è il contenuto centrale), e in quanto tale non può sottrarsi alle esigenze di tali criteri.
    Non bisogna dimenticare che l'Esortazione apostolica di Paolo VI nacque precisamente dalla sensibilità che i vescovi di tutto il mondo, rappresentati dal Sinodo episcopale del 1974, dimostrarono di avere verso le condizioni in cui versava e, possiamo dirlo, continua spesso a versare, l'annuncio evangelico.
    Il Sinodo aveva fatto una diagnosi certamente molto impegnativa e carica di sfide; il papa la riprese, e la rilanciò all'intera Chiesa in quei termini ormai diventati classici: «Il dramma del nostro tempo è la frattura tra Vangelo e cultura» (n. 20c).
    Sotto la spinta di tale diagnosi vennero poi enunciati, nel documento da lui elaborato, i criteri-guida dell'evangelizzazione, destinati, almeno nell'intenzione, a superare tale frattura.
    Tali criteri si condensano in una sola parola: fedeltà. Una fedeltà doppia: al messaggio stesso e al suo destinatario.
    In realtà, queste fedeltà sono due solo in apparenza poiché, come si desume dell'intera impostazione del documento, si implicano e in qualche modo si ricoprono a vicenda.
    La fedeltà al messaggio comunicato da Dio esige indubbiamente un ricorso al passato, al momento cioè in cui tale messaggio fu rivelato avvalendosi di molteplici mediazioni umane. Sappiamo, infatti, che Dio non ha detto agli uomini tutto ad un tratto ciò che aveva deciso nel suo amore di comunicare loro su se stesso e sulla loro salvezza, ma che parlò «molte volte e frammentariamente» (Eb 1,1). E che il suo parlare ebbe una storia, il cui apice si ritrova nella concreta e datata vicenda di Gesù di Nazareth e della sua Pasqua.
    Di questa storia abbiamo le testimonianze privilegiate, benché non esclusive, nei libri della Bibbia. E lì soprattutto dove la Chiesa, sin dai suoi inizi, attinse i lineamenti essenziali del messaggio. E continuano ad essere quei libri, particolarmente quelli del Nuovo Testamento, ma letti sullo sfondo dell'Antico, la fonte prima del medesimo.
    È importante ricordare, tuttavia, che il ricorso alle fonti della Parola non viene mai realizzato asetticamente. Oggi ne siamo sempre più consci. E una legge valida per ogni tipo di lettura umana. La natura divino-umano del messaggio di fede non fa eccezione a questa regola, in ragione appunto della sua componente umana. Sarebbe una forma di monofisismo il negarlo. Non si accede quindi al messaggio rivelato, e più precisamente alle sue mediazioni storiche, senza portarsi dietro la propria sensibilità, le proprie domande e le proprie attese.
    Può avvenire, come più di una volta è avvenuto in passato e continua delle volte ad avvenire attualmente, che si realizzi un approccio «schizofrenico» alla Parola; che la si accosti cioè con una sensibilità, con delle domande o delle attese che in realtà non sono le proprie, ma quelle di un altro ambito culturale. Così succede ogni volta che, anziché evangelizzare, si colonizza: i destinatari sono obbligati in qualche modo ad abbandonare le proprie attese e le proprie domande per assumere quelle degli evangelizzatori; oppure quando si continua semplicemente a ripetere le formule del passato, senza tener conto dei cambiamenti avvenuti: i destinatari sono forzati a tornare culturalmente indietro per poter accogliere il messaggio.
    In tutti e due i casi, tuttavia, rimane vero che l'approccio non è mai asettico. Se ne abbia o no coscienza, le cosiddette precomprensioni sono sempre presenti nell'approccio credente al Vangelo. Il «circolo ermeneutico» è ormai una certezza del nostro tempo, anche nell'ambito della fede.
    Ciò che è stato detto porta alla conclusione che una pura fedeltà al messaggio rivelato non può esistere: essa richiede simultaneamente la fedeltà al destinatario. D'altro canto, la fedeltà al destinatario non può essere disgiunta dalla fedeltà ad un messaggio che gli è anteriore, che lo precede, che gli viene dato. Nessun credente ne è l'autore, e tanto meno, l'inventore. Il messaggio è di Dio.
    Le domande e le attese sono legittime, come abbiamo detto, ma non possono far violenza alla sostanza della Parola. Vanno invece sottoposte al suo giudizio. Se ne è il caso, devono anche arrendersi ad essa. Sappiamo, infatti, che non ogni aspirazione che si annida nel cuore degli uomini è omogenea al messaggio di Dio. S'impone quindi una cernita. La fedeltà al destinatario ha anche i suoi limiti, che le vengono dalla stessa sostanza del messaggio.

    APPLICANDO I CRITERI DELL'ANNUNCIO Dl DIO

    Quanto abbiamo detto finora è piuttosto formale; bisogna avvicinarlo al tema che ci occupa.
    Riprendo la domanda con cui ho iniziato: dire Dio o tacere Dio ai giovani d'oggi?

    Tacere Dio

    Non bisogna passare troppo in fretta sopra la seconda parte del binomio della domanda, cioè sul «tacere Dio».
    C'è stata qualche anno fa negli anni della teologia della morte di Dio una certa presa di posizione alquanto estrema al riguardo: non parlare più di Dio, tacerne per sempre. Un'altra, meno radicale, suggeriva di non parlarne almeno per un tempo, finché non ci fossero le condizioni per dirlo in modo nuovo, visto che le condizioni culturali erano cambiate così profondamente.
    Anche queste istanze hanno il loro senso. Ma, prima ancora, c'è un'istanza che viene dalla natura stessa del discorso su Dio. È stato l'ateismo semantico, propugnato dal Circolo di Vienna, a riproporci in forma radicale una questione antica come la stessa fede.
    Non v'è dubbio che un certo modo di parlare di Dio, sia nell'ambito teologico che in quello pastorale (omelie, catechesi), peccava di tracotanza. Era un linguaggio che aveva tutte le apparenze di una gabbia o, peggio ancora, di una camicia di forza. Sembrava di saper tutto di Dio, di tenerlo in mano, di manipolarlo a suo arbitrio.
    Il neopositivismo logico, con la sua riduzione unilaterale di ogni discorso umano sensato a quello empirico e verificabile, mise in crisi tale tracotanza. Obbligò il discorso religioso a ricuperare la sua intralasciabile dose di modestia o, per dirla con una parola molto antica nella vita della Chiesa, di apofatismo.
    E obbliga anche il discorso religioso a ricordare che, prima ancora di parlare di questa realtà misteriosa che è Dio, ci sono altri atteggiamenti da coltivare nei suoi confronti: l'adorazione silenziosa dei mistici ce lo sta a ricordare. Dio va prima «patito» che pensato o detto, usavano dire i Padri antichi, e solo chi l'ha «patito» può dirlo meno inadeguatamente.
    Quando poi si tratta dell'annuncio, la fedeltà al contenuto stesso del messaggio richiede di tener conto della dimensione di mistero che esso comporta. Non si può parlare di Dio come se Egli fosse un oggetto del quale disponiamo. Se Dio è veramente tale, è sempre al di là, sempre più grande (Deus semper maior!).
    In questo senso, si deve tacere di Dio. «Ciò di cui non si può parlare» diceva Wittgenstein «va taciuto». Voleva dire, come si sa, che non si può parlare con un linguaggio verificabile di certe cose che sono empiricamente inverificabili, ma che, alla fin fine, sono le più importanti per la vita dell'uomo.
    Accettare questa sfida significa che, per dire Dio, bisognerà adoperare il gioco linguistico corrispondente, quello del discorso religioso.
    Ora, il discorso religioso si caratterizza soprattutto per il fatto di essere simbolico-metaforico, e di essere prevalentemente narrativo.
    Il simbolo e la metafora, intesi come li si intende oggi, sono appunto dei modi di parlare che superano l'antica pretesa del linguaggio-specchio. Essi non intendono mai rispecchiare la realtà a cui si riferiscono, ma piuttosto essere dei gradini di una scala che porta verso di essa, delle frecce che puntano verso di essa, senza mai raggiungerla però pienamente.
    Sono veramente usando una figura presa in prestito dalla geometria un linguaggio asintotico, e quindi un linguaggio che si porta consciamente dentro una forte dose di silenzio.
    E sono anche un linguaggio trasgressore, nel più genuino senso della parola: scavalcano gli steccati delle parole e delle frasi, per andare oltre.
    Si capisce allora perché il discorso su Dio non possa non essere poetico. È l'unico modo di parlare meno inadeguatamente di Lui, che resta sempre Mistero.
    Il discorso narrativo, a sua volta, parla dei suoi referenti non direttamente, ma all'interno del suo racconto, mitico e storico che sia.
    Per ciò che riguarda Dio, i popoli antichi ci sono maestri. Essi sapevano tacere di Dio, e sapevano tacere dicendolo: lo raccontavano in narrazioni piene di poesia. Tutta la Bibbia ne è un luminoso esempio.
    Dal punto di vista dei destinatari, anche il tacere richiede fedeltà: si dovrebbero eliminare quei modi di parlare di Dio che non sono in sintonia con la loro sensibilità e con le loro giuste attese.
    Continuare a parlare di Dio in lunghezze d'onda che non sono quelle d'oggi, è condannare il messaggio stesso alla sterilità, e i suoi destinatari o a non poter accoglierlo o a spostarsi culturalmente dal presente verso il passato, vivendo in tale modo quella schizofrenia alla quale ci siamo riferiti sopra.

    Dire Dio

    Nel punto precedente ho rilevato degli aspetti negativi: come non parlare di Dio. Di passaggio però ho fornito delle indicazioni sul come parlarne. Ora cercherò di focalizzare più direttamente questo aspetto.

    Quale volto di Dio?

    Dal punto di vista della fedeltà al messaggio da trasmettere, la prima cosa da ricordare è che noi, come cristiani e come pastori, non annunziamo Dio in genere, ma il Dio di Gesù Cristo.
    Ciò vuol dire, in concreto, che per delineare il suo volto, dobbiamo, per coerenza di fede, ricorrere non a ciò che la semplice religiosità naturale o la mera riflessione razionale dicono al riguardo, ma a ciò che di Dio pensò, visse ed annunziò Gesù di Nazareth.
    Questo non è certamente facile, malgrado le apparenze. I vangeli, infatti, sono pieni di dati su questo tema, ma chi è sufficientemente informato sulla condizione post-pasquale dei loro scrittori, sa che tutto ciò che si legge in essi fatti e parole è già filtrato attraverso il prisma della fede. Ad ogni modo, gli esegeti ci assicurano che si può arrivare con relativa certezza a cogliere tra le righe le cose più sostanziali in questo ambito.
    Un primo dato ci viene fornito dal fatto che Gesù sia un giudeo e, in quanto tale, sia cresciuto sull'humus della lunga storia di fede del suo popolo. Quella fede era fondata su una determinata immagine di Dio.
    Radicalmente, quindi, come lo lasciano intravedere diversi testi del Nuovo Testamento (per esempio Lc 20,37 par), Gesù è un devoto del «Dio dei padri». Non inventa perciò un nuovo Dio, ma si inserisce sulla scia della fede del suo popolo.
    E il Dio del suo popolo è un Dio che si manifestò sin dal primo momento in un'azione salvifica e vivificante: l'avvenimento dell'esodo. Si rivelò come Potenza liberatrice dalla schiavitù e dalla morte. Israele lo raccontò mille volte lungo la sua storia: il Dio tre volte santo, Colui che non può essere visto senza morire, si è reso ricino, l'ha strappato dalla condizione di morte, e l'ha fatto suo alleato per la vita del mondo. Il Dio che presiede la vita e l'attività di Gesù è in radice questo Dio.
    Ci sono però altri dati che, senza annullare questa continuità radicale con l'Antico Testamento, evidenziano in Gesù una certa originalità da questo punto di vista.
    Anzitutto, è accertato che egli non parlò direttamente di Dio, ma ne parlò all'interno di ciò che costituiva il centro vitale, la matrice emozionale di tutto il suo essere: l'imminente avvento del regno di Dio. Era questa, come si sa, una della attese più sentite e più generalizzate del tempo. Egli partecipa vivamente, appassionatamente, di tale attesa generale. Ma a modo suo.
    Diversi gruppi religiosi in Israele si creano schierati attorno a differenti modi di concepire questo regno e, di conseguenza, Dio stesso. Farisei, sadducei, zeloti, esseni, lo stesso Giovanni Battista: ognuno di essi, pur in una linea di una pretesa fedeltà alla tradizionale fede del popolo, ne delineava un volto almeno parzialmente diverso.
    Per Gesù, il regno di Dio è «la vita, la vita abbondante» degli uomini (Gv 10,10).
    Lo si deduce soprattutto da ciò che egli fa per porre i segni di questo regno: guarigioni di ammalati, liberazione di ossessi, perdono dei peccati, annunzio della buona novella ai poveri, ribaltamento dei rapporti ingiusti tra osservanti e peccatori, ricchi e poveri, uomini e donne, ecc.
    In tutto ciò, egli dimostra di amare appassionatamente la vita di tutti gli uomini, e specialmente dei più poveri e trascurati, degli ultimi.
    Ed è precisamente in questo contesto che parla di Dio. Egli «dice Dio», il Dio del regno imminente, e lo dice come Dio della vita per gli uomini.
    Annunzia cioè che questo Dio, come lui e prima ancora di lui, ama appassionatamente la vita del mondo, la vita di tutti gli uomini, senza eccezione. Che, per ciò stesso, è ostinatamente dalla parte della vita, e contro la morte, sempre. Che ancora, nella sua preoccupazione per la vita degli uomini, è particolarmente sensibile alla condizione di coloro che sono più intensamente moribondi.
    La parabola del Buon Samaritano (Lc 10,30-37), le Beatitudini (Lc 6,20-23; Mt 5,3-10) e tanti altri testi svelano precisamente, se lette teologicamente, questo volto del Dio di Gesù.
    Altri dati dei vangeli si riferiscono a ciò che Gesù fece in ordine all'annunzio di questo Dio della vita.
    Ci sono testimonianze evangeliche, in primo luogo, del suo tenace impegno per liberare gli uomini da un'immagine oppressiva e soffocante di Dio, soprattutto mediante l'interpretazione della Legge come strada di vita e non come imposizione schiavizzante.
    I vangeli ci fanno sapere inoltre della sua lotta instancabile per far scomparire le barriere emarginatrici create in base ad un determinato modo di concepire il rapporto con Dio.
    Infine, gli stessi vangeli ci informano su quanto fece per smascherare e denunciare il ruolo contraddittorio che i gruppi dirigenti facevano giocare all'immagine di Dio in mezzo al popolo, convertendolo in strumento di schiavitù e di morte.
    Ciò che conferisce ancor più rilievo a tutto questo insieme, è il fatto che Gesù non abbia fatto questo Dio oggetto di un annuncio astratto, sul quale forse anche quelli che si opponevano avrebbero potuto essere d'accordo in base alla loro fede comune, ma oggetto di un annuncio-azione. Che abbia cioè fatto «funzionare» questa immagine del Dio della vita concretamente, nel suo agire fra la gente.
    E infatti quando si produce qualche azione vivificante, liberante, che Gesù pronuncia il nome di Dio.
    Il fondamento di questa originale presa di posizione di Gesù di Nazareth nei riguardi di Dio, si ritrova certamente in un dato singolare che ci hanno conservato alcuni scritti neotestamentari: Gesù si rivolgeva a Dio dandogli il nome di «Abbà» (Mc 14,36; cf Rom 8,15; Gal 4,6).
    In esso è racchiusa tutta la densità dell'esperienza religiosa dell'uomo Gesù di Nazareth. Con esso lui esprime, appunto, il suo modo di concepire e di esprimere Dio, questo Dio con il quale è in intimo rapporto di figliolanza, e che gli si manifesta «come l'antimale benevolo, sollecito, che non vuole riconoscere la supremazia del male e si rifiuta di dare al male l'ultima parola», come «il Padre sollecito che dona avvenire ai suoi figli, un Dio, Padre, che dà avvenire a chi, visto da questo mondo, non può più sperare in nessun avvenire» (J. Blank).
    I discepoli che erano con Gesù impararono, non sempre con facilità a giudicare dai dati che ci lasciarono, a conoscere Dio in questo modo, e così lo trasmisero agli altri. Essi ne ebbero poi l'ulteriore e definitiva conferma con l'avvenimento pasquale. Essi credettero che Dio «si autodisse» lì, in forma piena, quale Dio della vita dell'uomo Gesù e, in lui, di tutti gli uomini; un Dio che vuole che la vita trionfi piena e definitivamente sulla morte nell'umanità.
    Se questi sono i tratti del volto del Dio di Gesù Cristo, essi non possono mancare mai nell'annuncio che di Lui si fa agli uomini di oggi. E non dovrebbero venire mai né taciuti né offuscati, í prezzo di tradire la stessa fede. Nessuna inculturazione dovrebbe intaccarli.

    Saper discernere

    Ancora dal punto della fedeltà al messaggio, occorre tener conto di una indicazione data dalla Evangelii Nuntiandi: nel messaggio rivelato c'è una sostanza viva, un nucleo intralasciabile, e ci sono anche degli elementi secondari (n. 25).
    Applicato al messaggio su Dio, questo comporta l'esigenza di un discernimento.
    Le riflessioni della fede, sollecitate dal bisogno di esplicitare le ricchissime implicanze dell'immagine di Dio detta da Gesù, o dalla necessità di rispondere alle deviazioni sorte lungo il cammino della storia (eresie), o semplicemente dall'esigenza di inculturazione, hanno portato la comunità ecclesiale ad elaborare degli enunciati, addirittura dogmatici in alcuni casi, o degli interi sistemi sull'immagine di Dio. È imprescindibile saper discernere, anche in vista dell'annuncio, ciò che in tutto questo armamentario è sostanziale e ciò che è solo secondario. A questo scopo quanto è stato detto nel punto precedente è decisivo. Fa veramente da discriminante. Qualunque elaborazione della fede deve fare i conti con esso.

    Le «lunghezze d'onda» di oggi

    La fedeltà al destinatario esige, come abbiamo detto, l'inculturazione critica del messaggio della fede. Nel nostro caso, del volto del Dio di Gesù Cristo.
    La comunità ecclesiale ha cercato sempre di realizzare tale operazione. Delle volte però si è bloccata, dovuto forse alla stabilità della sensibilità culturale, in determinate cristallizzazioni culturali. Ne è seguita quella operazione di «colonizzazione» della quale abbiamo parlato precedentemente.
    Un determinato modo di annunciare il volto di Dio oggi, sia in ambito teologico che in ambito catechetico o in genere pastorale, ha tutto l'andamento di una tale colonizzazione. La ragione sta nel fatto che detto annuncio non viene fatto nella «lunghezza d'onda» dei suoi destinatari.
    Che poi siano i giovani a sentirne più il disagio è spiegabile, per il fatto che sono essi, normalmente, i primi e più coinvolti portatori delle sensibilità epocali.
    E oggi sono due le principali «lunghezze d'onda» su cui vibrano culturalmente gli uomini: quella di tipo esistenziale-personalista, ampiamente diffusa soprattutto nei popoli del Nord dell'umanità, dove la qualità della vita è minacciata per via delle condizioni create dal crescente processo di benessere e abbondanza materiale; e quella storico-prassica, prevalente soprattutto nei popoli del Sud dell'umanità, dove ciò che è minacciato è semplicemente la vita, in ragione soprattutto delle ingiuste strutture di ordine economico, sociale, politico e culturale vigenti a livello mondiale. Nella sua enciclica Sollicitudo Rei Socialis papa Giovanni Paolo II ne ha dato una concisa enunciazione nell'affrontare la situazione, a dimensioni planetarie, creata dal rapporto tra avere ed essere: «Ecco allora il quadro: ci sono quelli i pochi che possiedono molto che non riescono veramente ad 'essere', perché per un capovolgimento della gerarchia dei valori ne sono impediti dal culto dell'avere; e ci sono quelli i molti che possiedono poco o nulla i quali non riescono a realizzare la loro vocazione umana fondamentale, essendo privi dei beni indispensabili» (n. 281).
    È all'interno delle sensibilità di fondo di queste due diverse condizioni umane che si pongono o non si pongono oggi le domande, dove nascono o non nascono le attese degli uomini d'oggi. Anche quelle che riguardano Dio.
    Ogni annuncio che non ne tenesse conto, correrebbe il grosso rischio di convertirsi in uno stesso gioco di parole.
    Orbene se, come abbiamo visto, il nucleo sostanziale dell'immagine del Dio di Gesù Cristo è quello di essere il Dio della vita per gli uomini, anzi, un Dio che vuole la vittoria della vita sulla morte, è anzitutto e soprattutto questo nucleo che dovrà essere sottoposto ad un'operazione di inculturazione critica. Di inculturazione, in primo luogo.
    Per la sensibilità esistenziale-personalista la vita e la morte si giocano principalmente, benché non esclusivamente nell'ambito della soggettività relazionale. Nel fatto, cioè di stare o non stare «sui propri piedi», di essere o non essere padroni di se stessi, con una padronanza che renda liberi da ogni forma di codificazione, ma che, allo stesso tempo, non si chiuda nella superba solitudine di un «io» signore di sé, bensì si apra all'incontro, al dialogo e alla comunione con gli altri «tu» generando un «noi», un «noi» ancora di soggetti. Vivere è soprattutto essere nell'autentica intersoggettività, morire è l'opposto. È nella dialettica di questa vita e di questa morte che si gioca la qualità di vita che può conferire senso all'esistenza.
    Sono quindi queste le istanze basilari a cui dovrebbe rispondere, in questo contesto, un annuncio del Dio di Gesù Cristo che si voglia attento alla legge dell'inculturazione.
    Una frase del libro del Levitico potrebbe esprimere bene tale annuncio. E la presentazione che il Dio d'Israele fa di se stesso, quasi il suo documento d'identità: «Io sono il Signore vostro Dio, che vi ho fatto uscire dal paese d'Egitto ho spezzato il vostro giogo e vi ho fatto camminare a testa alta» (23,13). Ovviamente, purché questo «Egitto», e questo «giogo» vengano letti in chiave esistenziale-personalista.
    Il Dio di Gesù Cristo è, quindi, Colui che ama appassionatamente il «camminare a testa alta» degli uomini, di ogni uomo. È, per ciò stesso, Colui che si fa dono ad ognuno e a tutti perché possano diventare soggetti, e lo possano diventare in comunione con gli altri. È così che «risuscita i morti» (Gv 5,21; Rom 4,17), e continua ad operare i prodigi realizzate in altri tempi mediante il suo Figlio Gesù, e il grande prodigio realizzato nel suo Figlio Gesù nel momento culminante della Pasqua.
    Le implicanze di un annuncio di questo tipo sono innumerevoli, ma non è qui il caso di soffermarci a rilevarle. Il minimo che possiamo dire è che un annuncio di Dio che porti all'annullamento o al soffocamento di queste richieste, si dimostra contrario alla sostanza viva del messaggio evangelico. Non può essere il Dio di Gesù Cristo un Dio che genera morte.
    Per la sensibilità prassico-storica la vita e la morte si giocano prioritariamente benché non esclusivamente sul fronte delle strutture di ingiustizia prima ricordate.
    La vita è da esse intaccata fin nei suoi primi gradini, quelli che riguardano la stessa sopravvivenza fisica. Far star sopra i propri piedi queste masse impoverite e spogliate dei beni materiali elementari, nonché della loro più elementare dignità personale e collettiva, costituisce un'autentica opera di risurrezione. È offrire loro la possibilità reale e concreta di passare dalla morte alla vita.
    Annunciare in un tale contesto il Dio di Gesù Cristo implica un mettersi nella sua lunghezza d'onda, e dirlo «a partire dalla sofferenza dell'innocente» (G. Gutiérrez). È dirlo come Colui che è sempre dalla parte della vita, e specialmente della vita di coloro che questa vita ce l'hanno di meno. Non solo, ma siccome questa vita viene loro a mancare per via di un conflitto strutturale nel quale essi sono i «maggiormente perdenti», dire il Dio della vita in un tale contesto significa dirlo un «Dio parziale», ossia un Dio che vuole la risoluzione di detto conflitto dalla loro parte (L. Boff, J. Sobrino).
    Anche in questo contesto può andare quindi bene il già citato «documento d'identità» del libro del Levitico, ma letto ora con una sensibilità storica e prassica.
    Essere coerenti poi con un'immagine di Dio del genere, ha una enorme quantità di implicanze che, naturalmente, non possiamo qui affrontare. Mi limito a dire che ogni proposta di fede che faccia di Dio uno strumento, diretto o indiretto, di mantenimento di queste strutture di morte, si converte in una proposta idolatrica.
    Fin qui ho accennato, sia pur molto succintamente, a un aspetto dell'operazione proposta, quello sostantivo: l'inculturazione. Devo ora completare la visione dicendo qualcosa sull'aggettivo che, sempre all'insegna dell'EN, avevamo aggiunto a detto sostantivo: critica.
    La domanda che sorge, dopo quanto è stato esposto, è quella: l'annuncio di Dio fatto in questi termini sembra collocarsi sostanzialmente nella linea delle attese fondamentali delle due più diffuse sensibilità culturali odierne; è quindi così che si dovrebbe annunciare il Dio della fede, ossia il Dio della Vita?
    Rispondere positivamente è fare un'affermazione ancora almeno parzialmente astratta. Essa colloca, infatti, uno accanto all'altro, due diversi mondi di sensibilità come se non ci fosse rapporto tra di essi. E invece la relazione, c'è, ed è conflittuale.
    È stata la recente enciclica del papa a dare ufficialità universale a questa qualifica: l'esistenza del Sud povero dell'immensa maggioranza dell'umanità è, in massima parte, responsabilità del Nord ricco e sempre più benestante della medesima (SRS 16). Ciò equivale a dire, in termini schietti e quasi brutali, che la causa della morte di milioni e milioni di uomini e donne nel mondo, pesa sulle spalle della relativamente piccola porzione dell'umanità cosiddetta sviluppata, di quella parte della società planetaria che è alle prese con la ricerca di una nuova qualità di vita, e che vibra quando vibra e non è spenta nella lunghezza d'onda esistenziale e personalista.
    Se le cose stanno così, allora un semplice annuncio del Dio di Gesù Cristo che venga a placare questa ricerca finisce per fare da narcotico. Essa «non educa la richiesta», la soddisfa soltanto. Occorre aiutare i destinatari dell'annuncio a superare la loro richiesta, ad «andare oltre».
    D'altra parte, la sensibilità verso la persona e le sue intralasciabili dimensioni interpersonali presente nel mondo ricco e benestante, dovrebbe fare da correttivo alla tendenza eccessivamente oggettivizzante che si annida nella tendenza prassico-storica. Essa dovrebbe aiutare il mondo dei poveri che tenta di irrompere nella storia per appropriarsi della sua soggettività (J. B. Metz), che il Dio di Gesù Cristo è Dio della vita per tutti e per ciascuno, nella sua irripetibile originalità. Che, in definitiva, ogni trasformazione strutturale deve essere orientata alla realizzazione delle persone.
    Così, il Dio di Gesù potrebbe convertirsi di nuovo, come nella storia biblica, nel Dio «che dà vita ai morti, e chiama all'esistenza le cose che ancora non sono» (Rom 4,17).


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