Mario Cimosa
(NPG 1996-02-19)
È impossibile dare una definizione semplice, lineare dell'esperienza religiosa dell'uomo biblico; bisognerebbe ripercorrere e commentare l'intera ampiezza degli scritti biblici dall'Antico al Nuovo Testamento. È sempre possibile però enucleare alcune dimensioni che ci permettono di analizzare le diverse forme con cui viene descritta la progressiva scoperta che l'uomo fa nella Bibbia del Dio che gli si rivela progressivamente e in modo pieno e definitivo in Gesù Cristo.
E.R. COME «RICERCA» DI DIO
L'esperienza religiosa si presenta anzitutto come una ricerca di Dio. L'uomo è alla ricerca di Dio che lo cerca. E Dio si presenta all'uomo come un Dio «storico», un Dio «incomparabile», un Dio «che parla».
Un Dio «storico»
La prima esperienza che l'uomo biblico fa di Dio è quella di un Dio che si rivela nella storia del suo popolo, dalla liberazione della schiavitù dell'Egitto all'alleanza al Sinai, al dono della terra di Canaan.
Il cosiddetto «credo storico» di Dt 26,5-9 secondo Von Rad evidenzia la struttura fondamentale della religione biblica come una religione storica. Dio si è fatto conoscere nel tempo che va da Abramo a Cristo secondo tipologie e modelli umani differenti. I suoi appuntamenti successivi con gli uomini corrispondevano alla situazione storica in cui essi incontravano il Dio vivente. Dalla tenda dei patriarchi, all'esperienza dell'esodo, a quella del deserto si sperimentava un volto divino sempre differente.
Questo Dio che si rivela e salva nella storia, questo Dio storico viene assunto poi nella riflessione teologica sia profetica che deuteronomistica come un Dio che dirige la storia e le impone una finalità che egli realizza man mano attraverso le sue promesse le quali manifestano progressivamente il suo disegno misterioso.
La catechesi biblica è il racconto di quello che Dio ha fatto nella storia d'Israele:
«Ciò che abbiamo udito e conosciuto
e i nostri padri ci hanno raccontato,
non lo terremo nascosto ai loro figli;
diremo alla generazione futura
le lodi del Signore, la sua potenza
e le meraviglie che egli ha compiuto.
[...] perché le sappia la generazione futura,
i figli che nasceranno.
Anch'essi sorgeranno a raccontarlo
ai loro figli
perché ripongano in Dio la loro fiducia
e non dimentichino le opere di Dio,
ma osservino i suoi comandi» (Sal 78,3-4.6-7).
Anche il kerygma cristiano ha al centro la manifestazione di Dio nella storia in Gesù Cristo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15). La storia è giunta alla sua pienezza e il regno di Dio si realizza in Gesù Cristo che si fa uomo entrando nella storia degli uomini.
Un Dio «incomparabile»
Questo Dio storico è anche un Dio che non si può paragonare a nessun altra divinità. Il Dio «incomparabile» è un titolo frequente negli inni e nelle formule di lode ed è un tema poco studiato dagli esegeti.
Soprattutto nei testi del periodo postesilico del Dio di Israele si afferma: «come lui non ce n'è un altro»:
«Poiché così dice il Signore,
che ha creato i cieli;
egli, il Dio che ha plasmato
e fatto la terra e l'ha resa stabile
e l'ha creata non come orrida regione,
ma l'ha plasmata perché fosse abitata:
Io sono il Signore; non ce n'è altri» (Is 45,18).
«Tu sei diventato spettatore di queste cose, perché tu sappia che il Signore è Dio
e che non ve n'è altri fuori di lui.
[...] Sappi dunque oggi e conserva bene
nel tuo cuore che il Signore è Dio
lassù nei cieli e quaggiù sulla terra;
e non ve n'è altro» (Dt 4,35.39).
«Allora tutti i popoli della terra
sapranno che il Signore è Dio
e che non ce n'è altri» (1 Re 8,60).
Questi testi pongono l'incomparabilità di Dio nel più largo orizzonte della fede monoteistica d'Israele. Si spiega una ripresa di questo tema dopo l'esperienza dell'esilio visto come punizione al popolo per avere seguito altre divinità e assieme alla continua tentazione di seguire altri dèi che nei momenti di crisi potevano sembrare più potenti del Dio d'Israele.
Le espressioni più plausibili di questa incomparabilità si trovano in preghiere come Es 15,11:
«Chi è come te fra gli dei, Signore?
Chi è come te, maestoso in santità,
tremendo nelle imprese, operatore di prodigi?».
Ma l'incomparabilità è legata anche all'espressione della fede per lodare la santità di Dio (Es 15,11; 1 Sam 2,2), il suo perdono (Mc 7,18), la sua cura del debole (2 Cron 14,10), la sua vicinanza (Dt 4,7). Nel confronto con tutto o con chiunque Dio ha scelto un popolo e si è legato a lui e in questo legame si lascia scoprire come incomparabile. Israele non ha sempre saputo tirare le conseguenze da questa scelta e la sua fedeltà è stata spesso messa a dura prova, nella tentazione di rendere culto a divinità straniere.
In ultima analisi l'incomparabilità è un modo di confessare il Dio unico. Di fronte a tutto ciò che attira lontano dal Dio d'Israele, conviene ripetere con il salmista: «chi è come te, Signore?» (Sal 35,10).
Un Dio «che parla»
Incontra Abramo e gli dice: «[...] Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Gn 12,1). E a Paolo: «E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all'improvviso lo avvolse una luce dal cielo e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?"» (At 9,3-4). E a Maria Maddalena: «Gesù le disse: "Maria!". Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbunì!", che significa: Maestro!» (Gv 20,16).
Un Dio che parla personalmente all'uomo ed è appello e annuncio di un progetto nella vita delle persone che incontra.
La Bibbia comincia con «E Dio disse...». Dio crea con la sua Parola, chiama all'essere le cose che non sono:
«Dalla parola del Signore furono fatti i cieli,
dal soffio della sua bocca ogni loro schiera...
perché egli parla e tutto è fatto,
comanda e tutto esiste» (Sal 33,6-9).
Ma Dio parla anche attraverso la parola dei profeti che interpretano la storia cogliendo in essa il disegno di Dio.
È una parola dolce come il miele ma anche dura come il martello che spacca la roccia e affilata come spada tagliente che «penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito» (Eb 4,12).
Questo Dio che si manifesta parlando, non solo chiama e orienta ma provoca anche l'uomo a comportarsi bene nei confronti del suo prossimo: le parole dei comandamenti (Decalogo) e del discorso della montagna (Discorso della Montagna) sono il cuore dell'etica biblica e attendono dall'uomo una risposta. Dio che parla esige una risposta, il suo non è mai un monologo ma sempre un dialogo con l'uomo.
Un dialogo che percorre tutta la rivelazione biblica e che culmina nell'esistenza umana di Gesù Cristo. Il Dio vivente è un Dio eloquente a differenza dei falsi dèi «che hanno la bocca ma non parlano».
E.R. COME «CONOSCENZA» DI DIO
L'uomo che cerca Dio è un uomo che vuol conoscere Dio. Fare l'esperienza di Dio secondo la Bibbia è anzitutto «conoscere» Dio. In ebraico il verbo yada' è un verbo celebre per il suo simbolismo. Si trova 947 volte nella Bibbia ebraica e molto spesso con significato religioso, specie in Ezechiele, nei Salmi e in Giobbe. Ma la conoscenza che l'uomo biblico fa di Dio è anche quella di un Dio «nascosto», di un Dio «silenzioso», di un Dio «diverso» da quello che la teologia tradizionale gli presenta in alcuni libri della Bibbia.
Un Dio «nascosto»
«Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio di Israele, salvatore» (Is 45,15).
È la traduzione CEI che, secondo me, non corrisponde perfettamente al testo ebraico che non ha un verbo al passivo ma al riflessivo che bisognerebbe quindi tradurre «tu sei un Dio che ti nascondi». Questa traduzione evidenzia l'aspetto volontario e continuo dell'azione divina; manifesta perciò la libertà e sovranità di Dio. Questa assenza di Dio come un Dio che agisce per Israele non si può fare che in riferimento a una esperienza di presenza attiva, perché il Dio che si nasconde è confessato nello stesso tempo come il Dio d'Israele, il Dio presente, il Dio vivente.
Questo tema del Dio «nascosto» ritorna spesso sotto altra forma specie nelle preghiere, nei salmi e nei libri profetici ed è la forma di «Dio che nasconde il suo volto». Nei salmi l'espressione traduce l'allontanamento di Dio, un'assenza di cui si ignora la durata. La ragione di questa brutale separazione non è indicata; il salmista l'ignora, il peccato non basta da solo a spiegarla. Siamo alla presenza di una esperienza religiosa molto estesa secondo cui il credente deve scoprire un Dio nello stesso tempo presente e assente. In ambito profetico l'espressione è forse la ripresa di una espressione radicata nella preghiera di lamentazione, ma riceve una trasformazione importante. La più evidente è il legame esplicito tra il peccato del popolo e l'atteggiamento di Dio che nasconde il suo volto. Questa ripresa della formula è ancora più netta nel libro di Giobbe che deve molto alla terminologia dei salmi.
La crisi di fiducia nel credente è provocata dal fatto che Dio non interviene più, è assente. Questa esperienza del credente si traduce nella sua preghiera: Dio nasconde il suo volto, è silenzioso e inoperante.
Dio è conosciuto nello stesso tempo come Dio rivelato e come Dio nascosto. E l'uomo biblico nella sua esperienza di fede conosce Dio come un Dio nascosto in certi momenti, come un Dio «silenzioso», come un Dio «diverso» che sembra non intervenire di fronte alla malattia, alla sofferenza, specie dell'innocente e del giusto.
Un Dio «silenzioso»
È una componente essenziale nella dialettica dell'esperienza religiosa dell'uomo biblico il silenzio di Dio.
L'esperienza di fede di Abramo è esemplare al riguardo, soprattutto in quello che è il clou della sua storia: il sacrificio di Isacco (Gn 22). Abramo con la morte del figlio dovrà rinunziare anche alla sua paternità, all'unico appoggio umano della sua fede per poggiare solo sulla parola di Dio. Dio che all'inizio sembra tacere si fa poi sentire diventando l'unico salvatore.
Buona parte del salterio è costituito da lamentazioni nei riguardi di Dio che tace o non ascolta. Nei salmi di lamentazione molte volte si ha l'impressione che Dio taccia o dorma o resti sordo alle suppliche, si nasconda o dimentichi le richieste di chi prega. L'orante si deprime allora dinanzi a quest'apparente silenzio di Dio. L'esperienza del favore di Dio ne attesta la presenza attiva e continua che permette al salmista di invocarlo sempre con fiducia, specie nei momenti più oscuri:
«"Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato?
Tu sei lontano dalla mia salvezza":
sono le parole del mio lamento.
Dio mio, invoco di giorno e non rispondi,
grido di notte e non trovo riposo» (Sal 22, 2-3).
Ma l'abbandono di Dio non è che il nascondimento della sua faccia luminosa e dura poco, quanto basta per preparare il ritorno di un amore eterno.
Il dramma che Giobbe è costretto a vivere si può ridurre in questi termini semplici. Come conciliare questi due poli: la sua sofferenza ingiusta e l'amore di Dio? Tutto il libro di Giobbe cerca di rispondere a questo interrogativo. Giobbe invita Dio a un processo pubblico ed esige come presupposto di un dialogo la conversione di Dio.
Ma Dio tace. E questo silenzio di Dio è interpretato dai tre amici come una condanna di Giobbe e da Giobbe come non volontà da parte di Dio di fargli giustizia.
Tutti e quattro non si accorgono di voler disporre di Dio. Ma Dio interviene e la novità del suo intervento, rispetto ad altri nella storia della salvezza, è che la critica dell'umana sufficienza che Dio fa nella meravigliosa teofania del c. 39 consiste in un dialogo diretto tra Dio e l'uomo. «Rivelandosi a Giobbe, Dio rivela Giobbe a se stesso. Rinunciando alle evidenze troppo limitate della sua sapienza umana e lasciandosi porre in questione dai suoi limiti di creatura, Giobbe si è potuto convertire dal Dio aggressivo che egli faceva a sua immagine al Dio che è, che era e che è venuto per lui nella tempesta. Dio può di nuovo tacere: Giobbe l'ha visto, e questo basta. Ora Giobbe può tacere: il suo silenzio è divenuto il linguaggio della sua fede. Silenzio di Dio. Silenzio dell'uomo. Autentico dialogo dell'amore».[1]
Un Dio «imprevedibile»
L'esperienza sapienziale di Giobbe e del Qoèlet conduce alla scoperta di un Dio «imprevedibile», diverso da come lo presentava la sapienza tradizionale. Dio parla tacendo, si concede negandosi, si incontra con noi scontrandosi. Un'esperienza religiosa negativa che produce una misteriosa presenza e vicinanza di Dio, del vero Dio che giudica e salva, ma che è diverso. Il Qoèlet fa compiere una svolta radicale all'AT: una riflessione che, rispetto alla sapienza tradizionale, esige la rivelazione di un nuovo volto di Dio.
La filosofia del Qoèlet distrugge alcuni punti nevralgici della sapienza tradizionale, quali la fiducia di poter capire la logica dell'agire di Dio; la fiducia di avere nelle mani il proprio destino; la speranza di un futuro terrestre nuovo; la sicurezza del popolo d'Israele di avere nella propria religione la salvezza. Il Qoèlet, come Giobbe, contesta tutto questo ma senza rinunciare alla sua fede in Dio che egli vede come diverso e che esprime nel «timor di Dio». Dio ha tutto nelle sue mani; il suo modo di fare è misterioso, l'uomo non può capire e perciò non può farci nulla. Per Qoèlet il timor di Dio consiste nell'assumere un atteggiamento di lealtà e nell'accettazione dell'esistenza concreta come Dio l'ha fatta: la vita è questa e va accettata com'è. Accettare il mistero di Dio è accettare la propria condizione di uomini.
Ma oltre il Dio che si nasconde e tace di Giobbe e del Qoèlet, l'eco di una preghiera disperata dei salmisti ci tocca personalmente perché il loro grido è un grido di sempre. Ogni uomo nelle ore più oscure vuole che Dio intervenga immediatamente e porti la salvezza. Il salmista vorrebbe che il Dio che egli confessa come salvatore intervenga subito. Ogni esperienza di fede mostra che il desiderio di un intervento immediato di Dio è ritardato senza poter conoscere il momento in cui verrà esaudito.
Dal momento che il salmista vive nel presente e la sua situazione è critica, egli dispone solo della memoria del passato per non dimenticare Dio e del futuro come tempo di speranza in cui Dio si possa manifestare. La fiducia del salmista si basa sul passato e sul futuro, ma questo non toglie niente alla situazione del presente in cui Dio è assente. Il credente deve quindi accettare, se gli è chiesto, di entrare in questa zona di fluidità tra la fiducia in Dio e il dubbio che Dio non intervenga subito. L'esperienza dei salmisti è preziosa perché riflette le condizioni reali di una vera fede in Dio.
Anche l'esperienza cristiana non sfugge a questa situazione del salmista. In Gesù Cristo si è spogliato della sua potenza e della sua gloria. In Gesù Cristo Dio si rivela e si nasconde. Anche Israele ha portato questa esperienza del mistero di Dio che si cela. Su questo punto c'è un legame tra i due Testamenti.[2]
E.R. COME «INCONTRO» CON DIO
Nella Bibbia conoscere significa «amare». A. Gelin ha definito «il biglietto da visita di Dio» il meraviglioso testo di Es 34,6-7 dove Dio si presenta a Mosè:
«Il Signore passò davanti a lui proclamando:
"Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso,
lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà,
che conserva il suo favore per mille generazioni,
che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato,
ma non lascia senza punizione,
che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli
fino alla terza e alla quarta generazione"».
Castiga fino alla terza e alla quarta generazione ma perdona fino a «mille generazioni».
Nella Bibbia l'uomo che fa l'esperienza religiosa incontra un Dio «che ama», un Dio «che è amore», un Dio che vuole essere amato «nel prossimo».
Un Dio «che ama»
La ricerca di Dio diventa incontro con Lui, con un Dio che ama per primo: «perché il Signore vostro Dio è il Dio degli dei, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta regali, rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito» (Dt 10,17-18).
Un Dio che ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio Unigenito. Un Dio che ha amato per primo, che va incontro all'uomo amando. Il Vangelo di Giovanni si apre e si chiude con una domanda fondamentale: «Che cosa cercate» (Gv 1,38), domanda Gesù ai due discepoli del Battista che si mettono a seguirlo.
E a Maria Maddalena chiede: «Chi cerchi?». E fanno l'esperienza di Gesù incontrandosi con lui e cominciando a vivere insieme con lui. Cercano, trovano e rimangono con lui. Ecco il vero nucleo dell'esperienza religiosa. La Prima Lettera di Giovanni ripete continuamente la formula amore-fede-religione-esperienza di Dio:
«Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio [...]. Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri [...]. Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1 Gv 4,7.11.16).
Il punto di arrivo dell'esperienza di Dio è la comunione mistica con Lui. Un Dio che ama l'uomo ma anche un uomo che ama Dio fino al punto da poterlo chiamare Abbà/«padre mio» e di abbandonarsi tra le sua braccia come un bimbo svezzato in braccio a sua madre. Ma su questo aspetto dell'esperienza religiosa come incontro con un Dio che è padre ma che ha sentimenti materni nello stesso tempo vorrei ritornare esplicitamente più avanti.
Dio che vuole essere amato «nel prossimo»
Dicevamo che Dio parla anche per provocare l'esistenza dell'uomo alla pratica della giustizia e dell'amore verso il proprio prossimo. Un grande rabbino dell'antichità, Simon Gamaliel, diceva che la società umana poggia su tre pilastri: la verità, la giustizia e la pace. Gesù dice che alla fine dei tempi saremo giudicati sull'amore. Entrambi erano perfettamente d'accordo con i profeti dell'AT. L'esperienza religiosa dell'uomo biblico comporta quindi anche secondo la sollecitazione dei profeti e poi di Gesù la pratica della giustizia sociale e dell'amore per il prossimo. I profeti non distinguono la religione dalla politica o dalla giustizia sociale, ma hanno una visione unitaria della società. Essi colpiscono i mali sociali che cadono sotto gli occhi di tutti nella vita quotidiana. «Giustizia e diritto» nella Bibbia non possono essere considerati indipendentemente dal significato religioso che essi implicano. L'infedeltà del popolo e dei suoi capi nel campo morale, sociale e religioso viene condannata aspramente ed è presentata come la causa della rovina della nazione. È significativa l'immagine di Is 1,15-17.
Secondo l'esperienza religiosa dell'uomo biblico, Dio rigetta il culto che gli viene tributato perché l'agire del suo popolo non è secondo giustizia. Quelle mani di sacerdoti levate nell'offerta del sacrificio delle vittime, agli occhi di Iahvè grondano sangue non degli animali uccisi, ma degli oppressi, dei miseri, dell'orfano e della vedova. Ciò che Iahvè vuole dagli uomini non sono preghiere e sacrifici, ma un agire retto, il fare la giustizia, il vivere nella giustizia, l'amore del prossimo.
Per questo la condanna dell'ingiustizia sociale è così violentemente dichiarata al popolo e ai capi delle nazioni (Is 3,15).
Chi calpesta i poveri calpesta il popolo di Dio, la giustizia difesa qui da Dio diventerà nel NT il comandamento dell'amore: basta leggere la descrizione del giudizio finale: Mt 25,34-40. È l'attuazione in senso universale di quanto già era rivelato nell'AT (Lv 19,17; Dt 22,1; Gb 1,29.32; Prv 10,12...).
Il volto di Dio si manifesta nel culto; ma l'altra faccia di Dio è l'uomo che bisogna amare, difendere, aiutare, rispettare. Se si separano queste due facce il risultato è un culto vuoto e l'incapacità di amare veramente il prossimo.
E.R. COME INCONTRO CON «DIO-ABBÀ» AVENTE CARATTERISTICHE MATERNE [3]
Esiste una continuità di esperienza fra AT e NT anche nella conoscenza di Dio come «Padre» che prepara l'espressione di Gesù «Abbà». Per Gesù e per quanti diventano discepoli e fratelli di Gesù convertendosi al primato regale di Dio, Dio è «Abbà».
Nell'AT il titolo di «Padre» dato a Dio appare in un numero di testi relativamente ridotto e sono testi quasi tutti tardivi, cioè postesilici. Inoltre il titolo di paternità è attribuito di solito a tutto Israele e non a singoli individui, e quando si dice: «io gli sarò padre ed egli mi sarà figlio» (2 Sam 7,14) si tratta del re e di una formula di adozione con valore giuridico.
Perciò l'AT sembra molto reticente nell'attribuire a Dio questo titolo di «Padre». Niente di strano dunque che questa reticenza sia ancora maggiore se si tratta di attribuire a Dio il titolo di «madre», oltre che per il fatto del contesto culturale anche per quello del confronto con altre religioni coeve dove, pur trovandosi l'attribuzione alla divinità del titolo di padre, esso è ancora più raro.
Il cristianesimo, a partire da Gesù, ha fatto della paternità di Dio, il centro della sua religione. Gesù ha fatto della grande preghiera di incontro di Dio come padre la sintesi dei momenti principali dell'esperienza cristiana. Dio in quanto padre è la radice di ogni iniziativa regale su tutto, deve intervenire in modo provvidente e costante, esprimere la sua grande misericordia, non far cadere i suoi figli nel baratro della tentazione.
Certo Dio non ha mai nella Bibbia l'attributo di «madre», ma alcuni testi lo descrivono come tale anche senza dargli il titolo. La ricerca non è nuova, ma sta il fatto che nelle teologie bibliche la maternità di Dio è completamente assente. Di solito si prende come punto di partenza il testo del Deuteroisaia della madre divina che non dimenticherà mai il suo popolo anche se madre e padre terreno lo hanno ripudiato (Is 49,15) ma la tradizione è molto più antica e risale a Nm 11,11-15:
Mosè disse al Signore: «Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, tanto che tu mi hai messo addosso il carico di tutto questo popolo? L'ho forse concepito io tutto questo popolo? O l'ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: Portatelo in grembo, come la balia porta il bambino lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? Da dove prenderei la carne da dare a tutto questo popolo? Perché si lamenta dietro a me, dicendo: Dacci da mangiare carne! Io non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi; io non veda più la mia sventura!».
Mosè si lamenta con Dio ricordandogli che è lui la madre del popolo. Tralasciamo qui problemi di ordine testuale che metterebbero in dubbio l'antichità del testo, sta il fatto che sulle labbra di Mosè Dio è percepito come la madre di Israele. Così si potrebbero analizzare altri testi come Dt 32, Sal 90, Gb 38. Per questo rimando a studi specializzati. Qui ricordo che nell'AT Dio non ha mai questo titolo di «Padre-Madre». Le ragioni potrebbero essere tante, ma quella che io vedo più significativa è di carattere polemico antipoliteistico alla luce della storia delle religioni. L'autore biblico vuole evitare l'equivoco di far pensare a Iahvè come a una divinità androgina o bisessuata, tanto frequente, per esempio in Egitto.
È importante in ogni caso tener conto che per parlare di Dio la Bibbia ha bisogno di usare un linguaggio umano o antropomorfico, ma Dio non può essere imprigionato in questo linguaggio. Dio non è né uomo né donna anche se alcune volte gli si attribuiscono qualità maschili o femminili. L'immagine di Dio che noi portiamo dentro di noi è segnata dalla nostra esperienza personale, a seconda se siamo uomini o donne. Dio non può essere misurato dalla nostra esperienza umana e dal nostro linguaggio. Il rischio resta sempre quello di costruirci di Dio un'immagine errata e la lettura della Bibbia può aiutarci a correggere un'immagine di Dio troppo angusta. Il linguaggio della Bibbia è antropomorfico e a suo modo testimonia la trascendenza di Dio.
Nel leggere la Bibbia alla ricerca dell'esperienza religiosa dell'uomo biblico non si può non tener conto anche di questo fatto.
E.R. COME INCONTRO CON GESÙ DI NAZARET «IMMAGINE DEL DIO INVISISBILE»
L'intuizione portante dell'intero NT, che le diverse tradizioni sinottiche, giovannee o paoline in un modo o nell'altro riprendono, è la seguente. In Cristo si è manifestata la verità di Dio, la verità dell'uomo e il senso della storia. Gesù di Nazaret infatti è la trascrizione storica, umana, di Dio. Naturalmente non tanto di Dio in sé, quanto piuttosto di Dio nei nostri confronti; e non dell'uomo in sé o, per così dire, nella sua composizione, ma nella sua vocazione; e lo stesso vale per la storia. Dicendo in Cristo si deve intendere concretamente non soltanto le parole di Gesù, ma anche (e soprattutto) la storia che egli ha vissuto e la struttura della sua persona.
Ecco dunque l'intuizione centrale da cui partire per un discorso neotestamentario su Dio, su come cercarlo e su dove trovarlo, sull'esperienza religiosa. Non resta che articolare questa semplice e ricca convinzione delle prime comunità cristiane.
L'inno di Colossesi 1,15-20 (un antico inno liturgico?) definisce il Cristo «immagine del Dio invisibile». Egli è colui che, nella sua persona e nella sua storia, ha reso visibile e vicino il Dio invisibile. L'invisibilità di Dio si è dissolta nell'apparizione storica di Gesù di Nazaret. Mi piace considerare l'affermazione dell'antico inno come una risposta agli uomini che cercano Dio e non lo trovano: Dio non è più invisibile e lontano, non è più nascosto e silenzioso, è uscito dalla sua invisibilità e in Cristo ci è venuto incontro (Gv 1,18).
In quanto incarnato, inserito nella storia, Gesù rivela il Padre, che l'ha mandato. A lui si può arrivare solo con la fede, e con l'umiltà di chi si riconosce cieco e bisognoso della luce della rivelazione. Solo mediante la fede e la nascita dall'alto, come dirà Gesù a Nicodemo, l'uomo entra nella sfera divina dello Spirito e può quindi accedere a Dio. Il Vangelo di Giovanni inizia con la presentazione di «tre personaggi in cerca di...» fede: un maestro in Israele, Nicodemo la cui conoscenza è imperfetta, una samaritana disponibile ad una conoscenza maggiore, un pagano che conosce aderendo con pienezza alla parola di Cristo (Gv 3-4); e il vangelo continua strutturandosi come una conoscenza progressiva di Gesù che si rivela in modo progressivo.
Ma la medesima affermazione di Gv 1,18 può anche essere letta diversamente, e cioè come una risposta polemica nei confronti di tutti coloro (uomini, filosofie, progetti di salvezza) che pretendono aver raggiunto Dio e il senso ultimo delle cose: Cristo è l'unico rivelatore di Dio. È lui solo la vera storia della presenza di Dio fra gli uomini.
In questa prospettiva si colloca la conclusione del prologo di Giovanni (1,18): soltanto l'Unigenito che viene da Dio può parlare di Dio. Lo sforzo dell'uomo, le sue ricerche filosofiche e religiose non sono in grado di strappare Dio alla sua invisibilità. Solo il Figlio di Dio, proprio perché viene da Dio, è in grado di sollevarne il velo.
Le ricerche dell'uomo, persino la Legge che fu donata tramite Mosè (1,17) è preparazione e avvio, in nessun modo conclusione.
Gesù ha parlato del Padre, ma le sue parole sono, per lo più, una spiegazione/commento della prassi che egli ha vissuto. È questo, infatti, il luogo più denso (e polemico) dell'epifania di Dio.
I Sinottici descrivono la prassi di Gesù con tratti precisi e costanti: egli è in perenne ricerca dei poveri e dei peccatori, non fa differenze fra gli uomini, distribuisce a piene mani la Parola e il perdono.
Per i farisei è una prassi scandalosa e irritante: sconvolge i più ovvi criteri pastorali e la più comune concezione di Dio. Per Gesù invece è una prassi che rivela il vero volto di Dio. Questo appare con chiarezza, ad esempio, nel capitolo 15 di Luca: nella prassi di misericordia di Gesù, spiegano le parabole, si fa presente la misericordia del Padre. Lo stile dell'agire di Gesù rimanda a quello di Dio: egli agisce così perché così fa Dio.
Tutta la vita di Gesù è una trasparenza di Dio, ma questa trasparenza ha raggiunto la sua pienezza, e questo mi sembra una ulteriore precisazione di grande importanza, sulla Croce. È senza dubbio l'evangelista Giovanni che ha colto con più lucidità questo aspetto: in Croce non è soltanto un gesto di salvezza, ma un gesto di rivelazione. Mi pare però che questa idea sia discretamente presente anche nel Vangelo di Marco, là dove si racconta che ai piedi della Croce, il centurione «vedendolo morire in quel modo riconobbe: 'Costui è veramente il Figlio di Dio'».
La conclusione è che la rivelazione di Dio passa non semplicemente attraverso l'incarnazione (generalmente intesa), ma attraverso le sue precise modalità storiche. Se il Figlio di Dio avesse vissuto una storia diversa (se avesse, per esempio, assunto le forme dell'imperatore), ancora si sarebbe potuto parlare di «vero Dio» e «vero uomo», ma completamente diversa sarebbe stata la rivelazione di Dio. Come pure sarebbe diversa la lettura dell'epifania di Dio avvenuta in Cristo, se prendessimo come centro ermeneutico della storia di Gesù di Nazaret i suoi miracoli, o la sua venuta alla fine dei tempi in potenza e gloria, anziché invece la Croce/risurrezione.
Ma oltre alle parole di Gesù e alla storia che egli ha vissuto, è rivelatrice di Dio la struttura della sua persona: «il Logos si è fatto carne» (Gv 1,14). Nella persona di Gesù (uomo e Dio), si è pienamente realizzata l'alleanza fra Dio e l'uomo: il Verbo non ha rifiutato nulla di ciò che è umano, ma l'ha assunto e introdotto nella sua persona. E così l'incarnazione è un rifiuto radicale di ogni dualismo. In Cristo il mondo di Dio e il mondo dell'uomo si sono uniti, riconciliati. Il Dio di Gesù Cristo non è il Dio del dualismo, ma dell'assunzione della realtà umana e della solidarietà con la storia. Non abbandona il mondo a se stesso né invita a farlo.
Se si vuole conoscere chi è Dio, chi è Dio per noi e, nel contempo, come cercarlo e dove trovarlo, se si vuole conoscere l'esperienza religiosa come emerge dalle Sacre Scritture, occorre guardare, e questa è la fede del NT, a Gesù di Nazaret e alla sua storia, non altrove. Allora si comprende che Dio è, nella sua realtà più intima e profonda, comunione, dono, solidarietà incrollabile e universale. Ha il volto dell'alleanza.
L'uomo scorge in Cristo una realtà di grazia che gratuitamente si dona. La sua epifania ha i tratti della donazione, del servizio e della solidarietà: in nessun modo i tratti del potere, della competizione e della ricerca di sé.
In questa fede del NT è racchiuso uno «scandalo» per la ragione: la relazione con l'Assoluto è fatta dipendere da un evento storico.
Ma questo scandalo, lungi dall'essere attenuato, è dal NT custodito e continuamente riaffermato. Per l'uomo del NT Dio continua ad essere raggiungibile in luoghi storici, non diversamente: non scendendo nella profondità di se stessi o staccandosi dal mondo per contemplare direttamente il divino, ma nella comunità radunata, nella accoglienza della Parola, nel gesto della fraternità, nella frazione del pane, nella sequela: tutti luoghi storici, concreti e obiettivi.[4]
E.R. DELLA CHIESA PRIMITIVA COME CONTINUAZIONE E TRASMISSIONE DELLA TRADIZIONE APOSTOLICA
Luca ha scritto gli Atti degli Apostoli proprio con lo scopo di mostrare come l'attività di evangelizzazione di Gesù continua in quella della Chiesa. Il compito principale dei primi cristiani, come ci dice Luca, è quello della testimonianza, essere i «narratori» di un'esperienza fatta a contatto diretto con il mistero di Cristo. Si tratta di una testimonianza che viene resa dai discepoli in tutti i luoghi dove essi si trovano ad operare, in tutto il mondo, una testimonianza che ha le caratteristiche dell'universalità, sempre, dappertutto e a qualunque costo; una testimonianza inoltre vissuta nella via della persecuzione e della croce; una testimonianza che è anche impegno concreto nella storia: «Uomini di Galilea, perché state a guardare in cielo?» (At 1,1).
C'è però un elemento nuovo che assicura la continuità fra l'esperienza di Gesù e l'esperienza cristiana e questo elemento si chiama Spirito Santo. È Lui che guida la comunità primitiva nelle sue scelte nella linea dell'universalità, della libertà, della carità e dell'unità. La testimonianza dei primi cristiani si fonda su tre verbi: «vedere, udire, narrare». Se rileggiamo i discorsi di Pietro nella prima parte degli Atti o quelli di Paolo nella seconda parte, ci accorgiamo come i discepoli hanno tramandato la narrazione come primo annuncio del kerigma, ma una narrazione che ha come risultato il far prendere posizione gli uditori: «E ora che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (At 2, 37).
Esemplare è poi l'esperienza paolina. Paolo di Tarso è stato conquistato da Cristo che diventa il centro, l'anima, il sostegno, l'oggetto della sua speranza, la sua vita.
È l'incontro di Saulo con il Risorto sulla via di Damasco che ha segnato per sempre tutta la sua esistenza. Egli ha capito in quel momento, come emerge poi da tutte le sue Lettere, che la logica che guida tutta la storia della salvezza è l'amore gratuito di Dio.
Amore che si è manifestato nella morte e risurrezione del Signore Gesù per la salvezza di ogni uomo. Paolo ha capito che tutti gli uomini, senza distinzione di razza, di cultura o di religione possono essere salvati mediante la fede che opera per mezzo della carità. Per Paolo la fede consiste nel riconoscere il proprio bisogno di Dio e quindi l'incapacità di salvarsi da soli e la ricchezza sconfinata della bontà e della misericordia di Dio.
Il metodo pastorale di Paolo per permettere ad altri di fare la stessa esperienza e di maturare nella fede è presentato in modo occasionale in quasi tutte le sue Lettere, ma è particolarmente significativo nel c. 15 della Prima Lettera ai Corinti. È la fede nella risurrezione, fede intesa non come una verità astratta ma come un nucleo dinamico che trasforma la propria vita. E questa esperienza deve comunicarla anche agli altri.
Ecco come appare la fede per le prime comunità cristiane: è l'accoglienza della testimonianza del Risorto attraverso una catena di persone che lo hanno incontrato e Lui, il Vivente, li ha messi in contatto con Dio.
Basta ripercorrere poi gli Atti degli Apostoli e tutto l'Epistolario Paolino per accorgersi come la missione cristiana che è una dimensione connaturale alla fede prolunga la missione di Gesù, missionario del Padre.
Una missione che mostra come il cristianesimo è un movimento internazionale, aperto a tutti gli uomini, senza discriminazioni di cultura, di religione e di razza.
Gli Atti descrivono la chiesa primitiva nella storia a contatto con gli ebrei, con la società e il potere politico, giudaico e romano.
L'annuncio del Vangelo accoglie e dà una risposta alla ricerca sincera di Dio e dà un annuncio nuovo che si chiama amore e libertà di Dio come si è manifestato nel fatto unico e irripetibile della morte e risurrezione di Cristo, massima rivelazione dell'amore e della libertà.[5]
Conclusione
Il lungo itinerario percorso ha mostrato come non sia facile delineare una descrizione dell'esperienza religiosa dell'uomo biblico, ma nello stesso tempo ha fatto anche vedere che tenendo conto della diversità delle tradizioni letterarie e storiche, delle tradizioni di fede del popolo lungo tutta la sua storia, c'è sempre una ricerca continua dell'uomo da parte di Dio e di Dio da parte dell'uomo.
Più che una «esperienza religiosa» la Bibbia raccoglie diverse «esperienze religiose» che si possono conoscere accostandosi alle diverse figure e personaggi biblici che offrono tutti con la loro esistenza di ricerca-conoscenza-incontro-scontro con Dio la possibilità di delineare, come abbiamo cercato di fare, alcune dimensioni dell'esperienza religiosa di fede nella Bibbia.
La conclusione dell'esperienza religiosa non può essere che la comunione di amore, l'unione eterna dell'uomo con Dio e di Dio con l'uomo in Gesù Cristo. L'uomo che ha fatto l'esperienza di Dio non potrà mai più essere separato da lui.
Ma l'uomo che ha fatto l'esperienza di Dio secondo la visione biblica, come appare soprattutto dal NT, non può tenerla per sé come un geloso segreto, ma sente il bisogno di «narrarla» agli altri con il suo annuncio ma soprattutto con la sua vita.
NOTE
[1] Cf Leveque J., Job et son Dieu, 2(Paris 1970) 532. Inoltre Cimosa M., Temi di sapienza biblica (Roma1989) 103-106.
[2] Cf Briend J., Dieu dans l'Ecriture, Paris 1992, 109-110.
[3] Per un contributo nuovo e originale arricchito da una ricca bibliografia sulla «paternità-maternità» di Dio rimandiamo il lettore all'articolo di Amato A., Paternita-Maternità di Dio. Problemi e prospettive, in Amato a. (ed.), Trinità in contesto (Roma 1994) 273-296. Cf inoltre Briend J., Dieu dans l'Ecriture, 71-90.
[4] Cf AA.VV., Dio nella Bibbia e nelle culture ad essa contemporanee e connesse (Leumann-Torino 1980) 393-396.
[5] Cf Maggioni B., Esperienza spirituale nella Bibbia, in Nuovo dizionario di Spiritualità, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1985, 579-586.