Carmine Di Sante
(NPG 1996-08-5)
All'invocazione «rimetti a noi i nostri debiti» l'orante fa seguire una motivazione audace e sconvolgente: «come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Il motivo per cui egli chiede a Dio di perdonarlo è perché anche lui fa altrettanto nei confronti degli altri. Ma una affermazione come questa non suona blasfema oltre che incosciente? Come è possibile presentarsi al cospetto di Dio - quel Dio di fronte al quale il profeta Isaia confessava la sua radicale indegnità e «impurità» di labbra (Is 6,5) - proclamandogli la propria «fedeltà» e «giustizia» invece che la propria «infedeltà» e peccato? E non ha Paolo, nella leggera ai Romani, smascherato come illusoria qualsiasi «autogiustificazione» di fronte a Dio, sostenendo con forza che «tutti», giudei e greci, sono sotto il dominio del peccato» (cf Rm 3,9)?
Dall'essere perdonati al perdonare
La risposta a questo interrogativo viene da tutto il contesto neotestamentario, per il quale il perdono di Dio non è la risposta al perdono dell'uomo ma la condizione che lo dischiude. Il perdono dell'uomo, dal punto di vista teologico, non solo non è la causa del perdono di Dio ma il segno della sua irruzione e della sua presenza. Chi, infatti, è stato incontrato dal Dio perdonante è chiamato a sua volta a farsi lui stesso perdonante, rimettendo «i debiti», così come gli sono stati rimessi. È nel farsi perdonante dell'uomo che si trascrive e traspare il perdono ricreatore di Dio, per cui se c'è il primo è perché ci si è aperti al secondo. È per questa esperienza di perdono comunitaria e circolante che l'orante, mentre invoca il perdono di Dio («rimetti a noi i nostri debiti»), testimonia anche che, in forza di esso, anche lui è fatto capace di fare altrettanto («come noi li rimettiamo ai nostri debitori»).
La pagina neotestamentaria più alta che coglie il legame esplicito tra l'evento del perdono divino e quello umano è la parabola di Matteo nota come «parabola del servo spietato» (18, 21-32), inserita entro un contesto volto a descrivere il comportamento ideale della comunità seguace del messia, e introdotto da un breve dialogo tra Pietro e Gesù: «Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: 'Signore, quante volte?'. E Gesù gli rispose: 'Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte settÈ» (21-22).
Le espressioni «sette volte» e «settanta volte sette» vogliono dire la stessa cosa, e ambedue, significano sempre. La domanda di Pietro è, quindi, retorica (egli sa che deve perdonare sempre, come Gesù gli conferma puntualmente) e, a livello di contenuto, più che alla quantificazione del perdono («quante volte devo perdonare»?) introduce alla sua spiegazione («perché è necessario perdonare sempre»?). È questo l'interrogativo al quale intende rispondere la parabola di Gesù che, lasciando apparentemente da parte la domanda di Pietro («Signore quante volte dovrò perdonare al mio fratello»?), risponde al perché bisogna perdonare sempre e dovunque. E la ragione per cui bisogna perdonare sempre è perché, per l'evangelo, Dio è un Dio perdonante che, costituendo l'uomo come perdonato, lo rende capace di farsi a sua volta perdonante. Per l'evangelo il perdono non è solo la categoria per eccellenza rivelativa del divino, ma anche quella rivelativa dell'umano, essendo l'uomo, contemporaneamente e indissolubilmente, il perdonato perdonante, colui che in tanto è perdonato da Dio in quanto reso capace di fare altrettanto.
Cosa vuol dire perdonare
Anche se spesso viene assimilato al condono o all'oblio, il perdono biblico non ha nulla a che fare né con l'uno né con l'altro: perché questo, in profondità, non riguarda né la pena dell'offensore (come nel condono) né la sofferenza dell'offeso (come nella dimenticanza), ma il modo con cui quest'ultimo guarda al primo.
Se si volesse racchiudere in una frase come il cuore perdonante vede l'altro, si potrebbe dire: senza più il volto della esclusione e dell'inimicizia. Perdonare l'altro è superare la sua immagine come nemico, avversario o ostile, per coglierlo oltre l'orizzonte del suo essere «pro» o «contro».
Si narra, in una leggenda chassidica, che «dei ladri si introdussero nella notte in casa di Rabbi Wolf e rubarono quello che venne loro sotto mano. Il rabbi li stette a guardare dalla sua camera e non li disturbò. Quando ebbero finito presero, insieme con altre suppellettili, un boccale in cui prima era stata portata a un malato la pozione della sera. Rabbi Wolf corse loro dietro: 'Buona gente', gridò, 'ciò che avete trovato da me consideratelo come mio dono. Ma fate attenzione, vi prego, a codesto boccale: vi è rimasto attaccato l'alito di un malato e potrebbe contagiarvi'. Da allora ogni sera prima di andare a letto diceva: 'Io regalo a tutti ciò che possiedo'. In quel modo, se fossero tornati dei ladri, voleva togliere loro ogni colpa" (Buber, I racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano 1979, pp. 204-05).
Per Rabbi Wolf il ladro (figura e metafora di ogni uomo vissuto come nemico) non è più tale: invece che malvagio, egli viene colto come buono («buona gente») e la sua azione, anche se indebita appropriazione e violenza, viene sottratta all'orizzonte della punibilità («ciò che avete trovato da me consideratelo come mio dono») e della colpa («in quel modo, se fossero tornati dei ladri, voleva togliere loro ogni colpa»).
Ma il significato cruciale e paradossale della parabola è nel cogliere il principio in forza del quale Rabbi Wolf opera il superamento dell'inimicizia restituendo il ladro all'orizzonte della gratuità, oltre la colpevolezza e oltre la punibilità. Per Rabbi Wolf questa metamorfosi non avviene automaticamente o magicamente, ma attraverso il reale cambiamento del suo io. È questi che, modificandosi e recuperando, per così dire, la giusta «vista», si accorge, all'improvviso, che «il ladro» non c'è più e che, se prima era un nemico, era solo per una distorsione percettiva. Rivelandosi illusorio l'orizzonte del «ladro», si rivela pure illusorio, contemporaneamente e necessariamente, l'orizzonte della sua colpa e della sua punibilità («... se fossero tornati dei ladri voleva togliere loro ogni colpa») e se ne dischiude uno nuovo, quello originario, del dono e del gratuito: «Buona gente, gridò, ciò che avete trovato da me, consideratelo come mio dono».
La parabola del Rabbi Wolf, lungi dall'essere un racconto utopico o ingenuo, è il dischiudersi, in linguaggio negativo, della possibilità del gratuito come possibilità oggettiva di spessore etico e metafisico; ed è soprattutto l'oggettivazione, sempre in chiave narrativa, della possibilità di una nuova nascita offerta all'io: un io che muore alla produzione dell'inimicizia e rinasce alla visione dell'amicizia.
Per il Nuovo Testamento invocare da Dio il perdono («rimetti a noi i nostri debiti....») è operare questo tipo di morte e di rinascita.