Franco Garelli
(NPG 1998-02-57)
Settembre è per definizione il mese del vino, con il rito classico della vendemmia e l’organizzazione di molte fiere paesane che rendono più morbido per la gente il ritorno alla normalità dopo la pausa estiva. Quest’anno poi il mondo della produzione vinicola è particolarmente euforico, di fronte alla migliore annata da 50 anni a questa parte. Il «Barolo da ricordare» e il «Brunello a cinque stelle» sono i simboli di un’economia di avanguardia, in cui capacità tecniche, produttive e commerciali vengono messe a servizio di una risorsa materiale e simbolica di cui è ricco il nostro Paese.
Ogni medaglia, però, ha il suo rovescio. Così il vino e l’alcol non solo allietano molte tavole e compagnie e testimoniano il gusto del vivere, ma portano con sé anche vari problemi sociali. Sono numerosi gli incidenti automobilistici, le patologie e i decessi connessi a un uso smodato dell’alcol, una sostanza che crea una delle dipendenze più diffuse. Al riguardo, è ancora assai viva nell’immaginario collettivo la figura dell’autista parigino di Lady Diana e Dodi al Fayed, sul cui cadavere la polizia francese avrebbe rilevato un tasso alcolemico 3 volte superiore a quello consentito. Sullo sfondo di questo incidente «eccezionale», vi sono poi le molti stragi del sabato sera imputabili anche all’abuso di alcol nelle discoteche e dintorni.
Festa, tradizione, abuso, trasgressione... sono termini ricorrenti quando si parla del bere e attestano la sfaccettatura del fenomeno. Per alcuni il vino è una risorsa preziosa, parte integrante della cultura «nostrana», per altri, invece, proprio la legittimazione sociale dell’alcol è alla base dei molti guasti che questa sostanza può produrre nell’attuale società. Di qui l’impegno a contrastare la dipendenza dall’alcol, una delle forme più striscianti (e meno avvertite) in cui si manifesterebbe il disagio giovanile e non.
Eppure, sia nelle culture «bagnate» (dei Paesi mediterranei) che in quelle «asciutte» (Nord Europa), il consumo dell’alcol è da alcuni decenni in forte diminuzione. Rispetto a 20 anni fa, il consumo pro-capite di vino si è ridotto in Italia di oltre il 40%; e ciò pur in un ambiente che continua a essere permeato dalla cultura del vino, privo in questo campo di norme penalizzanti. Secondo i dati più recenti, il popolo dei bevitori nostrani è composto da oltre 35 milioni di individui (su 47-48 milioni di italiani «abili» al bere, dai 15 anni in su). Tra questi, 27 milioni sono i bevitori regolari (quelli che consumano una bevanda alcolica almeno una volta a settimana), mentre altri 7 milioni si caratterizzano per un consumo occasionale. Restano ancora 500-600 mila persone (poco meno del 2% dell’insieme dei consumatori), che alzano sovente il gomito e rappresentano lo «zoccolo duro» del bere e l’area a maggior rischio. In sintesi, il consumo di alcol si riduce sull’insieme della popolazione, anche se la maggior parte della gente continua ad avere varie frequentazioni con bottiglie a gradazione alcolica. Questa riduzione di alcol (sia in Italia sia nel resto dell’Europa) sembra imputabile più ai cambiamenti nella composizione e negli stili di vita nella popolazione che a politiche sociali restrittive o disincentivanti nei confronti del bere. Per cui il minor bere dipende da vari fattori, tra cui una crescita del benessere che orienta alla qualità dei consumi alimentari, il processo di invecchiamento della popolazione, i ritmi di vita che inducono la gente a dar meno importanza ai pasti e al vino, un consumatore più attento che nel passato al richiamo delle diete e alle ragioni della salute. Di qui l’idea che siano le attuali condizioni di vita a spingere molti soggetti verso un consumo temperato di sostanze alcoliche, a far sorgere «spontaneamente» quel modello del bere responsabile cui si riconoscono indubbi vantaggi personali e sociali. Oltre che per il piacere dei sensi e per la compagnia, un consumo moderato di alcol viene oggi rivalutato sia come fattore di integrazione con la cultura locale, sia a livello epidemiologico, quale elemento protettivo rispetto alla morbilità cardio-vascolare. Va da sé che gli «heavy drinkers» si chiamano fuori da questo quadro, esponendosi ai molti costi personali e sociali connessi a comportamenti di abuso cronico.
Ovviamente la riduzione di alcol interessa più alcune sostanze di altre, anche in rapporto ai modelli culturali del bere prevalenti nei diversi Paesi europei. Così, come s’è detto, gli italiani hanno fortemente ridotto negli ultimi 20 anni il consumo di vino, anche se questa sostanza rimane di gran lunga la «regina» tra le bevande alcoliche «appetite» nel nostro Paese. I superalcolici sono poi anch’essi in diminuzione, mentre la domanda di birra appare in leggera crescita. Parallelamente, anche in Germania si riducono nel tempo i consumi alcolici, anche se lo slogan «a tutta birra» sembra ancora del tutto prevalente tra i tedeschi. Gli spagnoli, inoltre, risultano gli europei più versatili nel campo delle bevande alcoliche, presentando livelli di consumo non troppo dissimili delle varie sostanze.
La situazione dei giovani in questo campo si allinea sostanzialmente a quella degli adulti, pur con qualche differenza di rilievo. Nel complesso i giovani bevono di meno dei loro «padri», e si caratterizzano perlopiù per un consumo occasionale o episodico. Inoltre essi si orientano preferibilmente verso bevande a più basso contenuto alcolico. Queste indicazioni sono ormai ricorrenti nelle indagini nazionali, perlopiù realizzate dall’«Osservatorio permanente sui giovani e l’alcol», un organismo promosso nel 1991 dall’Assobirra, aderente alla Confindustria, che mira a una corretta informazione e interpretazione del fenomeno.
L’ultima indagine (su un ampio campione di giovani dai 15 ai 24 anni) ci dice che oltre 1/4 di essi è astemio (con una forte prevalenza di ragazze), mentre 3/4 si caratterizzano per un certo qual consumo di bevande alcoliche. Tra i bevitori, circa la metà si limita a consumare vino e/o birra, mentre l’altra metà si espone anche a sostanze di gradazione più elevata. Tra i giovani che negli ultimi 3 mesi hanno consumato almeno una volta una bevanda alcolica, il 59% ha bevuto birra, il 52% vino, il 31% aperitivi digestivi, il 23% superalcolici. I bevitori regolari (che consumano alcolici più volte la settimana) si orientano per il 20% sia verso la birra sia verso il vino, per il 4% verso gli aperitivi-digestivi, per il 2% verso i superalcolici.
La tipologia del bere ci consegna, in sintesi, quattro tipi prevalenti di giovani (in parte riscontrabili anche nel mondo adulto). Vi sono anzitutto i «bevitori onnivori», prevalentemente maschi e occupati, che si affidano perlopiù alla birra fuori casa mentre preferiscono accompagnare i pasti in casa col vino. V’è poi il gruppo dei «birrofili», composto soprattutto da giovanissimi, ragazzi e ragazze del tutto estranei al vino e che hanno eletto la birra a bevanda alcolica per eccellenza. Il terzo gruppo, più ristretto e composto prevalentemente da maschi, è quello dei «bevitori hard», che si muovono con familiarità tra varie sostanze e che ricorrono sovente anche ai superalcolici. Infine c’è il gruppo degli astemi, o meglio delle astinenti, in quanto perlopiù composto da ragazze. Ancor più delle loro «madri», le ragazze risultano meno attratte dalle bevande alcoliche, vuoi per questioni di linea che per preoccupazioni di salute. In questi casi il bere si orienta verso altri prodotti a preparazione industriale, che da 20 anni a questa parte hanno contribuito a rivoluzionare le abitudini e i consumi alimentari della gente: soft drink, acque minerali, succhi di frutta, tè freddo, ecc.
L’alcol dunque sembra un fattore di rischio solo per una ristretta quota di giovani (i bevitori hard o heavy, appunto), mentre crescono gli astemi e la maggioranza esprime un atteggiamento friendly ma moderato nei confronti del vino. Nonostante ciò, molti operatori sociali denunciano le possibili curve di rischio che l’alcol rappresenta per i giovani d’oggi. Certo non ci si affida più alla bottiglia per manifestare il conflitto o l’opposizione politica, così come l’alcol non può più essere considerato come il fattore scatenante del disagio. Tuttavia, esso è una delle sostanze cui i giovani possono affidarsi per compensare vari insuccessi, per disinibirsi e per recuperare un protagonismo difficile da realizzare nella vita quotidiana. La voglia di trasgressione e la propensione al rischio sono in costante aumento tra i giovani, alla ricerca – per vari motivi – di forme esasperate di affermazione. Di qui il timore che l’abuso dell’alcol si diffonda, in un contesto in cui i cocktail e i long drink costituiscono parte integrante delle feste dei giovani, dei loro riti di passaggio; e in una cultura che sottovaluta nel complesso il rischio di dipendenza connessa al consumo di questa sostanza.
Proprio per far fronte a questi rischi sono in atto da tempo varie campagne di sensibilizzazione, che portano a tappezzare bar e pub di adesivi e di locandine, a diffondere messaggi alla radio e alla tv, a coinvolgere il mondo della scuola e i gestori dell’industria e del divertimento. Che diresti – si chiede ai giovani – a un amico che beve troppo? E le risposte che si ottengono ruotano attorno all’«andiamoci piano!»; «più bevi, meno mi piaci!»; «quando il bere si fa duro, i duri smettono di bere!».
Molte delle considerazioni sin qui fatte sono contenute anche nel recente volume Il bere giovane (Angeli) curato da Amedeo Cottino e Franco Prina, che si compone di vari saggi sui giovani e l’alcol e illustra indagini svolte in Piemonte. Anche in questo caso prevale un modo equilibrato di guardare al fenomeno, attento a rilevare i rischi della dipendenza, ma anche convinto che quella dell’alcol sia una delle forme espressive in cui si manifesta la cultura giovanile.
Di qui l’idea centrale che sia possibile «parlare di alcol per parlare di giovani e parlare di giovani per parlare di alcol». Il libro termina con un elogio del bere moderato. Non è solo il frutto di un’opzione mediana, che non scontenti nessuno. È la coscienza che il bere – a determinate condizioni – può rappresentare più una risorsa che un rischio, in una società carente comunque di elementi positivi di identificazione.
(La Stampa, 25 settembre 1997)