Luis A. Gallo
(NPG 1998-06-28)
Un forza vivificante si sprigionava da lui
L’evangelista Luca dipinge a grande pennellate una scena per così dire «di attuazione» del regno di Dio da parte di Gesù prima del suo discorso sulle beatitudini. Egli racconta che una grande folla, venuta da ogni dove, si era riunita per ascoltarlo e per trovare mediante lui la guarigione dalle malattie. E aggiunge ancora che «tutti cercavano di toccarlo, perché usciva da lui una forza che sanava tutti» (Lc 6,17-19).
Un altro episodio, raccontato questa volta dai tre vangeli sinottici con sfumature diverse, permette di cogliere la medesima impressione causata da Gesù nella gente. Si tratta della guarigione della donna emorroissa, guarigione operata durante il tragitto verso la casa di Giairo, capo della sinagoga, dove lo attendeva la figlioletta di circa dodici anni, morta, che egli avrebbe poco dopo restituito alla vita (Mt 9,18-26; Mc 5, 21-43; Lc 8,40-56). La condizione in cui versava la donna emorroissa che gli si avvicina era davvero straziante. Anzitutto dal punto di vista corporale, per via della sua malattia che la rendeva debole e fragile, ma anche dal punto di vista economico, dal momento che «aveva sofferto molto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando» (Mc 5,25), e dal punto di vista sociale e perfino religioso, perché la sua malattia la includeva automaticamente nella lista di quelle persone che dovevano essere evitate, pena il contagio dell’impurità rituale in cui esse incorrevano, e che impediva loro di partecipare alle celebrazioni cultuali (cf Lv 15,25). Si potrebbe quindi dire che la morte era presente in lei in svariate maniere e che la teneva sotto il suo dominio.
Quando questa donna, piena di speranza e di fiducia, tocca il lembo del mantello di Gesù, essa sente immediatamente che il flusso di sangue si arresta e che la salute e la vita ritornano nel suo corpo infermo. Risulta molto illuminante ciò che segue nel racconto: Gesù si volta verso la folla per chiedere chi l’ha toccato, e alla reazione stupita dei suoi discepoli i quali gli fanno notare che è quasi schiacciato da tutte le parti dalla gente, risponde: «Qualcuno mi ha toccato. Ho sentito che una forza è uscita da me» (Lc 8,46). È possibile che questa frase non sia testualmente sua, ma che esprima piuttosto la certezza acquisita a poco a poco dai discepoli circa la presenza in lui di questa energia divina che, uscendo dalla sua persona, comunicava vita sconfiggendo la morte. Ma una cosa è certa: tale convinzione si fondava su qualcosa di molto concreto da essi colto a contatto con lui. Poco dopo, infatti, il racconto culmina nella scena in cui egli si incontra faccia a faccia con la figlia di Giairo ormai morta, e con la stessa energia, prendendola per mano, le dice: «Talità kum, che significa: Fanciulla, io ti dico, alzati» (Mc 5,41). E la ragazza si alzò viva e fu restituita alla gioia dei suoi.
Gli antecedenti biblici
Le prime comunità cristiane arrivarono presto a riconoscere, in questa energia divina vivificante che sgorgava da Gesù e produceva tali effetti sorprendenti, la manifestazione dello Spirito di Dio che avevano imparato a conoscere dalla tradizione biblica. Solo che ora lo vedevano in una luce nuova e nella sua piena manifestazione.
Il termine «spirito» (ruah), con il quale tutta la Bibbia lo designa, proveniva originariamente dall’esperienza del popolo ebraico a contatto con la natura. Comportava diversi significati. Significava anzitutto il vento, da quello leggero alla bufera violenta, che dai contadini veniva ricondotto a Dio come creatore e conservatore di tutte le cose (Gen 1,2; 1 Re 18,45; Sal 33,6; ecc.); ma significava anche il soffio vitale degli esseri viventi, il respiro, la vita, e in quanto tale veniva considerato una proprietà di Dio (Gen 2,7). Trasferito dall’esperienza del mondo alla sfera divina, era inteso come potenza divina invisibile che tuttavia vivificava tutto (Sap 1,7; Sal 139,7), cioè l’intimità dell’uomo e la storia del popolo.
Gli studiosi della Bibbia fanno rilevare che il modo in cui il popolo dell’Antico Testamento intendeva lo Spirito di Dio andò maturando lentamente lungo la sua storia. Nei primi tempi, ai tempi dei Giudici, ossia appena iniziato il processo di assestamento nella terra della promessa, pensava che lo Spirito di Dio conferiva a quegli uomini e donne scelti una particolare forza fisica per la salvezza del popolo stesso (Gdc 13,25; 14,6.19; 15,14), forza che li rendeva atti alle imprese belliche con cui il popolo riconquistava la sua libertà dopo averla perduta (Gdc 3,10; 6,34; ecc.).
Più tardi i Profeti, per evitare il rischio di contaminazione con altre concezioni del profetismo presenti nei popoli che attorniavano Israele, spesso di natura prevalentemente magica, preferirono far riferimento piuttosto alla Parola di Dio anziché al suo Spirito. Con delle eccezioni, tuttavia. Si trovano infatti dei brani profetici in cui lo Spirito occupa il primo piano. Tra questi spicca un testo di Ezechiele, uno dei grandi profeti del tempo dell’esilio d’Israele in Babilonia. In essi egli vede un’enorme pianura interamente coperta di ossa inaridite, e una voce, quella di Dio, gli ordina: «Profetizza allo spirito, profetizza figlio dell’uomo e annunzia allo spirito: Dice il Signore Dio: ‘Spirito, vieni dai quattro venti e soffia su questi morti, perché rivivano’ « (Ez 37,9). L’effetto di queste parole è sorprendente: «Io profetizzai come mi aveva comandato e lo Spirito entrò in essi e ritornarono in vita e si alzarono in piedi» (Ez 37,10). Il contesto permette di capire che si tratta espressamente della risurrezione del popolo esiliato alla speranza nel futuro promesso da Dio, ma è chiaro che lo Spirito viene pensato in esso come una straordinaria forza vivificante che fa uscire dalla morte per passare alla vita.
Infine, nell’ultimo periodo dell’Antico Testamento si cominciò a parlare soprattutto del futuro Messia come di colui che sarebbe stato il definitivo portatore dello Spirito (Is 61), e dei tempi messianici come di tempi dell’effusione universale dello Spirito (Gl 3,1-5).
Lo Spirito vivificante nelle comunità dei discepoli
I discepoli videro realizzate in Gesù le profezie messianiche (cf At 2,16-21), e perciò riconobbero in lui la presenza di quella forza divina vivificante che era stata all’opera nei secoli precedenti, e che in lui si manifestava in pienezza. Lo ritennero cioè pieno di Spirito Santo sin dal primo istante della sua concezione (Lc 1,35). Riconobbero quindi questa presenza dello Spirito vivificante in lui, ma anche, tramite lui, in loro stessi. Ciò risulta evidente soprattutto nel libro degli Atti degli Apostoli. Si dice in esso che appena i discepoli «furono pieni di Spirito Santo» (At 2,4), si lanciarono in mezzo alla gente facendo le stesse cose che aveva fatto Gesù. Anche da essi usciva una forza che guariva e risuscitava i morti.
Il racconto della guarigione dello storpio presso la porta del Tempio chiamata «Bella» ne è un esempio. Esso segue immediatamente l’esperienza della Pentecoste. A quel povero storpio, nel cui corpo si annidava la morte sin dalla nascita, Pietro rivolge la parola per dirgli: «Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!», e poi «presolo per la mano destra, lo sollevò». Il testo dice che «di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e balzato in piedi camminava; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio» (At 3,6). Si tratta, come si vede, di un’autentica risurrezione, di un trionfo della vita sulla morte operata nel nome di Gesù, il Messia di Nazaret, presente nella forza dello Spirito.
Più avanti il libro continuerà raccontando i prodigi operati dallo stesso Pietro nei seguenti termini: «Portavano gli ammalati nelle piazze, ponendoli su lettucci e giacigli, perché, quando Pietro passava, anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro. Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti immondi e tutti venivano guariti» (At 5,15-16). Non risulta difficile cogliere in questi testi un parallelo con quanto i vangeli raccontano dell’operato di Gesù.
Le manifestazioni dello Spirito riempiono non solo il libro degli Atti, ma anche un po’ tutti gli scritti del Nuovo Testamento. Particolarmente le lettere paoline, nelle quali esso si rende presente donando a tutti e ognuno dei membri delle comunità ecclesiali i suoi doni «per la comune utilità» (1 Cor 12,7). È la forza divina che muove tutto e tutti nella direzione della vita. Come dice Paolo, «a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell’unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro la varietà delle lingue; a un altro infine l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole» (1 Cor 12,8-11).
Alla constatazione della presenza dello Spirito in ciascuno e nelle comunità segue anche l’esortazione ad assecondare la sua mozione, lasciandosi muovere dalla sua forza che spinge verso la vivificazione di tutti e di ognuno. Purtroppo, tuttavia, questa mozione dello Spirito può essere ostacolata impedendole di arrivare a ciò che aspira. Lo stesso Paolo ammonisce i cristiani a lasciarsi guidare da lui, e non invece da altre forze o tendenze. Ecco alcune delle sue parole: «Quelli infatti che vivono secondo la carne, pensano alle cose della carne; quelli invece che vivono secondo lo Spirito, alle cose dello Spirito. Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace» (Rm 8,5-6). Per Paolo «carne» è sinonimo di debolezza, concretamente, di quella debolezza radicale dell’essere umano che è l’egoismo, il quale è sempre fonte di morte. Qualcosa di analogo si ritrova in due altre testi paolini. Nel primo si legge: «E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione» (Ef 4,30); nel secondo, con ancora maggior concisione: «Non spegnete lo Spirito» (1 Tes 5,19).
Ma forse le parole più incoraggianti da questo punto di vista sono quelle della lettera ai cristiani di Roma, nella quale l’Apostolo afferma enfaticamente che «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5), e poi, con logica consequenzialità, aggiunge: «Tutti quelli […] che sono mossi dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio» (Rm 8,14).
Lo Spirito divino che è stato riversato nel cuore trasforma l’uomo in un figlio di Dio e lo spinge ad operare «spiritualmente», e cioè a dare vita. Come dirà qualche secolo più tardi S. Gregorio di Nazianzo, «noi siamo stati battezzati per convertirci in una forza vivificante per tutti gli uomini».