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    Feste e vita in festa


    Introduzione a una nuova rubrica

    Carmine Di Sante

    (NPG 1998-09-38)


    Il calendario

    L’esperienza più comune che ognuno ha del tempo è il suo scorrere secondo la duplice scansione del lavorativo e del festivo: dove il primo termine dice l’impegno e la fatica dell’uomo nel suo rapporto con il mondo per mangiare e dare da mangiare, mentre il secondo dice la sospensione del tempo lavorativo e la sua sostituzione con un tempo qualitativo inteso come tempo da fruire in sé e non da finalizzare ad altro, al raggiungimento di uno scopo esterno.
    Storicamente le culture hanno sempre conosciuto, nel senso di vissuto e tematizzato, questi due tempi (o, per meglio dire, questi due momenti dello stesso tempo), e anche se li hanno espressi e interpretati con linguaggi e categorie varie, esse custodiscono tutte una intuizione di fondo originaria che si può così formulare: anche se nel tempo che gli è dato, all’uomo non è possibile sfuggire al negativo, a ciò che egli sente come «peso» e che per questo rifiuta e nega (ad esempio la pesantezza o routine del lavoro, l’ingiustizia, l’assurdo, la malattia, la morte, ecc.), egli comunque non si rassegna ad esso e afferma l’esistenza di un altro tempo come positivo, non più negato ma invocato e istituito come fondamento.
    Questo tempo colto come positivo, come ciò che vale e per questo è «posto», voluto ed affermato, è il tempo sacro o divino, secondo il linguaggio delle religioni; oppure, con il linguaggio laico delle recenti culture secolarizzate (che, comunque, non va mai dimenticato, sono geograficamente limitate), è il tempo qualitativo, lo spazio dove, per l’io, si dispiega la realizzazione delle sue attese e utopie che, nella società postmoderna, si esprimono nel simbolo della libertà, intesa come assenza di vincoli che chiudono ed impediscono l’uscita e il movimento, come le mura al carcerato. La ragione del fascino della libertà – che per Blumenberg è la metafora per eccellenza della modernità, e che, per noi figli della postmodernità, è il presupposto e il fine di ogni pensare ed agire – più che nei suoi contenuti specifici, è in questa carica utopica di assenza di limiti opprimenti che custodisce e nella quale si esprimono i desideri dell’io.
    Anche la tradizione ebraico-cristiana ritma il suo tempo secondo una duplice scansione che, per un verso richiama quella del sacro/profano delle grandi religioni, per l’altro quella del qualitativo-quantitativo della modernità, senza omologarsi però né all’una né all’altra. L’insieme delle modalità con le quali si realizza questa scansione o divisione, forma il cosiddetto «calendario» liturgico: così chiamato («liturgico») per differenziarlo da quello «civile», che sorge con l’epoca moderna, quando si affermano la distinzione e la separazione tra chiesa e stato, e quest’ultimo si «inventa un calendario», un nuovo modo di scandire e ritmare il tempo. La conseguenza è che oggi, nelle società nate dalla modernità, si abitano due calendari, due modi di scandire il tempo, che, anche se dal punto di vista cronologico quasi sempre sono paralleli o coincidono (per cui, ad esempio, la festa di natale è festa sia religiosa che civile), dal punto di vista del significato non vanno contrapposti e neppure omologati ma distinti.
    Scansione temporale del festivo e non festivo, ogni calendario trova il suo nucleo costitutivo nella festa. Ciò vuol dire tre cose contemporaneamente:
    – il vero tempo è quello festivo: tempo dove c’è festa, si fa festa e si è in festa. Là dove non c’è festa, il tempo è triste e vuoto, tempo insensato o senza senso che psicologicamente porta alla domanda: «perché vivo» o «che ci sto a fare»? Il tempo della festa è il tempo del senso e della gioia. Tempo, per questo, che non rimanda ad altri tempi né è finalizzato ad altro, ma si conclude in sé, come tempo pieno, da godere e da fruire, come si gode una danza, un tramonto, un canto, un’amicizia o un amore;
    – in quanto vero tempo, il tempo festivo non è un tempo fra gli altri, ma misura e giudizio di ogni altro tempo, che per questo viene ritenuto e valutato come tempo non festivo. Nel calendario liturgico il tempo non festivo è chiamato tempo «feriale», dove l’aggettivo, pur rimandando al latino «feria», che etimologicamente vuol dire tempo non lavorativo e quindi vacanza (accezione rimasta nelle espressioni «prendersi le ferie» o «le ferie d’agosto), esprime semplicemente l’assenza della festa;
    – in quanto misurato dal tempo festivo, il tempo feriale è attesa e invocazione del tempo festivo. Il tempo feriale non è un tempo che si pone accanto a quello festivo ma tende ad esso, come l’alba al meriggio, e l’at-tende, come la notte l’alba. Il tempo festivo – o la festa – in quanto vero tempo, non solo misura e giudica il tempo feriale, ma è lo splendore che lo illumina e lo alimenta. Etimologicamente il termine festa sembra rimandare a luce o splendore. Più o meno fondata questa ipotesi etimologica, una cosa è certa: per la coscienza umana la festa è la luce del tempo e senza questa esso è oscuro e illeggibile.

    Cos’è la festa

    Ma cos’è la festa intorno alla quale le religioni, le culture e la stessa tradizione cristiana ritmano ed organizzano il tempo? Anche se rispondere a questa domanda è difficile perché di fatto non esiste la festa quanto delle feste storicamente date e differenziate, si può comunque partire da un abbozzo di definizione come questa: la festa è l’insieme di gesti, parole ed azioni ritualizzati, cioè non affidati alla spontaneità dei singoli ma codificati dalla tradizione che li trasmette, con cui la collettività si pone in relazione con una realtà superiore per esprimere ed affermare nei suoi confronti l’esistenza di un legame essenziale dal quale dipende la riuscita della propria vita e della propria sopravvivenza.
    Quattro sottolineature per cogliere e precisare il senso di questa definizione orientativa:
    – la prima riguarda la presenza dell’alterità che la festa istituisce ed attesta. La festa pone in relazione con una realtà superiore: superiore non in senso quantitativo ma qualitativo, che l’uomo non può prendere né comprendere, come si prende un oggetto o si comprende una idea, ma dalla quale è preso, nel senso di sorpreso;
    – la seconda riguarda la radicalità di questa alterità. La realtà con la quale la festa mette in contatto è del tutto differente da ogni altra realtà mondana. È «il totalmente Altro» (das ganz Andere, secondo la definizione di Rudolf Otto (1869-1937), uno dei grandi studiosi del fenomeno religioso: da intendere nel senso neutro di ciò che è irriducibile alle realtà storiche e mondane di cui l’uomo fa esperienza o è soggetto. Diversi sono i linguaggi con cui viene espressa questa radicale differenza o alterità: esseri celesti, dèi, antenati o Dio per le religioni; divino o sacro per il linguaggio concettuale delle scienze delle religioni; trascendenza, alterità o differenza, per il linguaggio della filosofia. A parte le diverse terminologie, ciò che è importante è il senso di questa alterità che la festa attesta: una alterità che non è la produzione o proiezione dell’io ma la sua messa in crisi e il limite ordinatore. La festa afferma la presenza di una alterità la cui vera trascendenza è sulla volontà umana, ad essa vincolata e da essa orientata e misurata;
    – la terza riguarda il tratto personale di questa alterità che, dal di dentro dell’esperienza religiosa, ha sempre i tratti del Tu personale. La realtà di fronte alla quale la festa pone non è un tutto impersonale al quale si appartiene, bensì un Tu il quale parla e al quale si parla. Quando si afferma che la religione parla del Sacro, del Divino, dell’Essere, del Tutto o dell’Armonia, bisogna essere consapevoli che termini come questi più che alle religioni in quanto tali appartengono al linguaggio degli studiosi delle religioni, e che le religioni vissute si rivolgono sempre e solo ad un Tu. Questa affermazione resta vera anche per quelle religioni cosiddette arcaiche o primitive dove ci si rivolge ad una roccia o ad un albero, che, nel momento in cui vengono apostrofati con Tu («Tu sacra roccia», «Tu, albero celeste») perdono la loro dimensione impersonale per diventare metafora di una relazione personale;
    – la quarta infine riguarda la dimensione dell’essere-per dell’alterità evocata ed attestata dalla festa. Se questa pone in rapporto con una realtà totalmente altra, la ragione per la quale viene istituita questa alterità non è per contemplarla o celebrarla in sé, bensì per affermare che la propria esistenza mondana e materiale dipende costitutivamente da essa e che senza di essa il mondo riprecipita nel caos come edificio senza fondamento. Ne consegue che l’alterità, che la festa pone ed afferma, non si contrappone alla realtà mondana e materiale entro la quale e della quale si vive, né si sostituisce ad essa quale alternativa; ne è, piuttosto, il principio di donazione, di illuminazione e di regolamentazione perché permanga nella verità e diventi casa per la collettività. Per esprimere questa dimensione dell’essere-per dell’alterità, le religioni ricorrono a vari termini quali: sollecitudine, amore, provvidenza, bontà e benevolenza. Il senso profondo dell’alterità custodita dalla festa non è l’essere per sé bensì l’essere per l’altro, facendolo essere e donandogli l’essere.

    La festa cristiana

    Il tratto specifico della festa cristiana è di essere appunto cristiana, nel senso originario del termine che rimanda a Cristo. Per la tradizione cristiana ogni festa dice sempre relazione a Cristo, «Alfa e Omega, Primo e Ultimo, Principio e Fine» della creazione, secondo l’autore del libro dell’Apocalisse. Tutte le feste cristiane, anche quando parlano della Madonna o dei Santi, sono sempre cristologiche, incentrate sulla morte e risurrezione di Gesù di cui si fa memoriale in ogni celebrazione eucaristica.
    L’affermazione della dimensione cristologica della festa cristiana dice contemporaneamente tre cose distinte e inseparabili:
    – riferimento a Cristo: a Gesù riconosciuto e proclamato come Cristo. «Per Cristo, con Cristo e in Cristo»: è questa la formula liturgica per eccellenza con cui la liturgia esprime il legame costitutivo tra la festa e Cristo. Le feste cristiane, anche se storicamente derivate da quelle ebraiche, come ad esempio la festa di pasqua e di pentecoste, o da quelle pagane, come ad esempio quella di natale, obbediscono tutte a questo processo di «cristologizzazione» o di «rilettura cristologica», di cui l’anno liturgico è il dispiegamento attraverso il racconto neotestamentario della vita di Gesù e della sua morte e risurrezione;
    – riferimento al Dio di Gesù Cristo. Non basta dire che la festa cristiana è incentrata su Cristo se non si esplicita che il Cristo di cui essa parla è la manifestazione piena del Dio biblico. «Cristo», infatti, è un termine greco che traduce l’ebraico meshiah, da cui «messia»: il personaggio delle scritture ebraiche che Dio sceglie e consacra con l’unzione (Cristo etimologicamente vuol dire infatti «unto») per farne l’interprete del suo volere e restaurare il mondo. Per il Nuovo Testamento Gesù in tanto è «cristo» in quanto svelamento di questo volere di Dio sull’uomo e sul mondo che l’uomo abita: «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1, 18). Per Giovanni Gesù è il rivelatore di Dio, il suo «ermeneuta» o «esegeta»: colui che, come l’interprete di un libro o di un’opera, coglie nel mondo l’intenzione di Dio che lo sottende. Questa intenzione, per Gesù, è l’amore illimitato e il perdono impensato ed impensabile del Padre, di cui, con il dono della sua vita e della sua morte, egli è la trasparenza stessa;
    – riferimento alla reintegrazione del mondo da parte del Dio di Gesù Cristo. Anche l’affermazione precedente resterebbe comunque insufficiente se non si cogliesse che il senso dell’amore illimitato di Dio e del suo perdono impensato e impensabile, evocati e attestati dalla festa cristiana, è nel suo essere «per noi uomini e per la nostra salvezza», come si recita nella professione di fede della messa. In altri termini: il fine e il senso della festa cristiana non è di onorare Cristo in sé e neppure di celebrare l’amore di Dio in quanto tale, bensì svelare e attestare il principio dell’amore e del perdono sul quale si regge il mondo e senza il quale esso riprecipita nel caos. Il racconto neotestamentario di Gesù morto e risorto, che risuona nell’arco dell’anno liturgico, è lo svelamento del principio amore, sul quale si fonda il mondo, e del perdono sul quale si rifonda. La festa, soprattutto la festa cristiana, non disegna uno spazio fuori del mondo, ma è e vuole essere il disvelamento del segreto che lo costituisce e ricostituisce. «Spiritualizzare» il senso della festa, non cogliendone il legame costitutivo con le realtà mondane e materiali (lavoro, istituzioni, rapporti di produzione, politica, economia, ecc.) è fraintendere e occultare il senso vero e profondo della festa. Se questo avviene spesso nella tradizione cristiana, ciò è dovuto all’influsso del dualismo della filosofia greca che colloca il divino in alternativo al mondo invece che farne, come vuole la bibbia, il principio di donazione del mondo e di istanza etica per l’uomo che lo abita.

    Le pagine di questa rubrica

    La rivista NPG intende quest’anno dedicare una rubrica alla comprensione o ricomprensione della festa, partendo da alcune delle feste importanti che ritmano l’anno liturgico cristiano. «Feste e vita in festa», suona il titolo della rubrica.
    Il primo termine («feste») dice l’insieme delle feste della tradizione cristiana che, come note di una melodia, si dispiegano nell’arco dell’anno: dall’avvento, che inizia più o meno nel mese di dicembre, alla festa di Cristo Re, che a seconda dei casi coincide con l’ultima o penultima domenica di ottobre. Dispiegamento del senso della festa, queste feste non si giustappongono le une alle altre, ma formano una tessitura sapiente e delicata costituitasi lentamente lungo vari secoli che, nella struttura attuale di rito romano, è fatta risalire al IV-V secolo dopo Cristo. Generata dal grande nucleo della domenica o pasqua del Signore, su questa «tessitura», come su un ricamo, si disegnano i due momenti più importanti del mistero di Gesù, rivelatore del Padre: la sua morte in croce, come atto di amore; la sua nascita con cui, come ogni bimbo, viene al mondo. Di qui i due poli principali dell’anno liturgico: il tempo pasquale, dispiegamento dell’evento della morte e risurrezione di Gesù; il tempo di natale, dell’evento della sua nascita attesa dall’umanità.
    Il secondo termine («vita in festa») dice il senso delle feste del calendario cristiano. Se queste vengono celebrate è perché la vita dell’uomo sia in festa: degna di essere vissuta, felice, bella, sottratta alla insensatezza, alla stupidità, alla ingiustizia e alla violenza.
    «Sono venuto perché abbiate la vita e l’abbiate in abbondanza», dice Gesù rivolto ai suoi nel capitolo 10 di Giovanni.
    Ogni festa è una goccia di questa vita in abbondanza che Gesù promette e dona, dischiudendo la possibilità di vivere nel mondo da liberi e da uguali, cioè da figli del Padre e da fratelli. Nelle puntate che seguiranno ci si lascerà dissetare da alcune di queste gocce di vita in abbondanza.


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