Luis A. Gallo
(NPG 1999-02-42)
In Gesù di Nazaret, come si diceva concludendo il tema precedente, la ricerca del volto di Dio da parte dell’umanità raggiunse il suo apice. Egli è la Parola di Dio per eccellenza anche su Dio stesso. Ora, c’è un tratto che contraddistingue in modo particolare la sua religiosità: egli visse un rapporto singolarissimo di figliolanza nei confronti di Dio.
Un dato sconvolgente
Alcuni scritti neotestamentari ci hanno tramandato un dato sconvolgente sul modo in cui Gesù si rapportava con Dio: si rivolgeva a Lui chiamandolo «abbà» (Mc 14,36; cf Gal 4,6; Rm 8,15). Si è oggi largamente d’accordo tra i biblisti nel riconoscere in questo appellativo una delle «stessissime parole di Gesù».
Come è noto, gli studiosi dei vangeli sono arrivati alla conclusione che più di uno dei discorsi attribuiti a lui nei vangeli non siano usciti letteralmente dalla sua bocca. Ciò si capisce se si tiene conto del modo in cui si originarono e furono scritti i vangeli stessi. Sono, infatti, frutto della fede maturata nei discepoli dopo la risurrezione, momento in cui arrivarono a scoprire tutta la vera e piena identità di Gesù. Una volta pervenuti a tale fede, essi poterono ricomprenderne alla sua luce l’intera vicenda, e cioè i suoi atti e le sue parole. In qualche modo, si potrebbe dire, li raccontarono trasfigurandoli, ed esprimendo così il loro vero spessore umano-divino. In possesso ormai del suo stesso Spirito, non ebbero perciò difficoltà a mettere sulla sua bocca delle parole e degli interi discorsi, forse da lui mai pronunciati, ma che esprimevano bene il suo modo di pensare. Era d’altronde un modo di scrivere molto corrente all’epoca.
Dell’appellativo «abbà» si è dimostrato, invece, che è stato usato da Gesù stesso. E si può con ragione affermare che in esso è racchiusa tutta la densità della sua esperienza religiosa. Utilizzandolo, egli esprimeva appunto il suo modo di concepire e di esperire Dio.
Si tratta di un termine che ai suoi tempi era adoperato dai figli, specialmente dai figli piccoli (ma non solo da essi) per rivolgersi, nell’ambito familiare, al proprio genitore. Aveva quindi una carica affettiva molto accentuata. Va pertanto tradotto come «babbo», «babbo carissimo», e non semplicemente come «padre».
Che Gesù l’abbia adoperato per rivolgersi a Dio e abbia invitato anche altri a farlo, come vedremo in seguito, costituisce una delle novità più sconvolgenti che caratterizzano la sua persona e la sua vicenda. Lo si coglie meglio se si tiene conto che il senso della trascendenza del Dio tre volte santo (Is 6,3) era andato crescendo in tale modo col passare del tempo nella coscienza religiosa d’Israele, che da qualche secolo il suo sacrosanto nome – il tetragramma YHWH – non era più pronunciato. Solo il Sommo Sacerdote, una volta all’anno, quando attraversava la tenda che separava il Santo dei Santi dal resto del Tempio per compiere il rito della purificazione (Lv 16), osava pronunciarlo, e lo faceva con grande timore e riverenza. Tanto che, uscendo, celebrava con un banchetto l’esserne sopravvissuto.
Nessun giudeo a quei tempi avrebbe avuto mai l’ardire di violare quest’usanza; ne andava di mezzo la sua stessa vita. Gesù invece la infranse audacemente: invocava Dio con l’appellativo con cui, nella sua esperienza familiare, si era certamente rivolto a Giuseppe. Accostare questi due termini – «Dio» e «babbo» – significava produrre una specie di cortocircuito imperdonabile, secondo la mentalità allora imperante in Israele. Ma se egli osò farlo, fu perché ciò rispondeva alla sua intima esperienza religiosa personale. Dal modo in cui si rivolgeva a Dio trapela, infatti, quale sia stata la sua maniera abituale di rapportarsi con Lui: un rapporto fatto di intimità e fiducia, di familiarità estrema.
Il dato colpisce ancora maggiormente se si tiene conto della sua condizione di uomo adulto (aveva attorno ai trent’anni quando iniziò la sua attività pubblica, secondo Lc 3,43 e Gv 8,57), non appartenente alla classe sacerdotale (cf Eb 7,13) più abituata al tratto con Dio nel culto, ed intensamente impegnato in un’attività travolgente. Non si trattava quindi di un bambino o di un adolescente, nei quali prevale di solito l’emotività, né di un esaltato misticheggiante, ma di un uomo maturo e indiscutibilmente dotato di grande realismo, come si può cogliere leggendo i vangeli.
L’esperienza filiale di Gesù
Nella Lettera agli Ebrei si dice che Gesù si fece «in tutto simile ai fratelli» (Eb 2,17), e che fu «provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). Basta leggere senza pregiudizi i vangeli per averne una conferma. Essi non fanno di Gesù un superuomo, un figlio di Dio nello stile delle mitologie ellenistiche, ma lo dipingono nella sua vera umanità, senza nascondere nulla di ciò che potrebbe oscurare benché minimamente la sua figura. Neppure i momenti terribili di angoscia passati nella vicinanza della morte sono taciuti (Mt 26,37; Mc 14,33; Lc 22,44).
Egli però visse tutto ciò in maniera intensamente filiale, perché lo Spirito di Dio era in lui e lo muoveva costantemente in tale direzione. Era figlio di Dio, senz’altro, ma ancora in qualche modo lontano dal Padre (Gv 16,28). Si potrebbe dire che era figlio «in fase di apprendistato» della sua figliolanza, secondo quello che, con un linguaggio alquanto audace, insinua la stessa Lettera agli Ebrei quando dice che egli «pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8).
Va notato, tuttavia, che questo suo atteggiamento filiale non appare mai in lui come un infantilismo irresponsabile. Infatti, in nessun momento lo si vede delegare le sue responsabilità al Padre, scaricando il peso delle sue decisioni su di Lui. È vero che, come si può desumere dal suo modo di pregare e di passare anche notti intere in dialogo con Dio (Lc 6,12), egli deve aver confrontato spesso il suo modo di vedere le cose con quello del Padre, e deve avergli anche chiesto la forza per portare avanti la sua missione, ma questo non lo dispensò certamente dal prendere le sue decisioni personali e dal farsi carico delle proprie responsabilità. La sua sofferta preghiera nell’orto sta a dimostrarlo (Mt 26,36-44; Mc 15,35-29; Lc 22,40-45).
Che egli abbia mantenuto questo atteggiamento filiale fino alla fine lo confermano le narrazioni della sua crocifissione. In quella di Matteo, Gesù, in piena lotta contro le tenebre che avvolgono il suo cuore alla vista del fallimento della sua missione, prorompe in un’esclamazione presa dal Salmo 21: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (v. 1). Essa esprime, in fondo, una radicale fiducia in Colui al quale si rivolge nel tremendo momento che sta vivendo. Nel racconto di Luca viene posto in bocca al Gesù morente un altro versetto salmodico, che esprime con ancora maggior chiarezza un atteggiamento di fiducia incrollabile: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Sal 30,6).
Un Dio dal volto paterno
L’esperienza di Gesù ci svela, quindi, quale sia stata la concezione che egli aveva di Dio, una concezione che dava senso e orientamento a tutta la sua vita e che egli annunciava con gioia ed entusiasmo appassionato agli altri.
Per lui, Dio non era quella realtà superiore e terribile che decideva capricciosamente il destino degli uomini, o che richiedeva da essi sacrifici di ogni genere per sentirsi placato nel suo sdegno per le offese ricevute o per venire incontro alle loro richieste, come si pensava in certe religioni dei popoli circostanti; e non era neppure un essere lontano e indifferente alla sorte del mondo, come pensavano le religioni greche. Ma neanche era il Dio leguleio che i farisei cercavano di onorare con l’osservanza rigorosa della Legge, o il Dio che creava barriere tra gli uomini giusti e i peccatori, tra ciò che era puro e ciò che era impuro, come pensavano i maestri della Legge.
Egli pensava Dio come un «babbo», con tutta la ricchezza che questa parola racchiude: fonte di vita e di energia, vicinanza sollecita e costante, attenzione solerte, desiderio incontenibile di bene. Questo Dio era come l’atmosfera che lo circondava e che impregnava tutti i suoi pensieri, i suoi affetti, le sue parole e le sue azioni. Era come l’aria che respirava e lo manteneva in vita. Si spiega così come egli abbia agito in un certo modo nei confronti delle persone con cui era a contatto, e come abbia avuto anche la lucidità e la forza per affrontare certe maniere di onorare Dio che offuscavano il suo volto. In definitiva, se lo misero in croce, fu anche e principalmente perché, secondo i suoi avversari, egli «bestemmiava» (Mt 26,65; Mc 14,64). Nella mentalità dei suoi connazionali di allora, infatti, proporre una concezione di Dio differente da quelle ufficiale era, appunto, una bestemmia.
Il bello è che, «bestemmiando» in questo modo, egli rivelò al mondo nella maniera più alta possibile i tratti del volto di Dio, rivelazione grazie alla quale si produsse finalmente l’agognato incontro tra la ricerca dell’umanità e la risposta di Dio.