Severino Cagnin
(NPG 1999-02-56)
Qualche nota di riflessione sull’Expo di Lisbona ’98 (22 maggio – 30 settembre) per offrire spunti a chi lavora nell’educazione giovanile nel tempo della cultura di massa.
Anzitutto due premesse.
L’Expo esprime a livello mondiale la cultura di massa di fine millennio, il meglio cioè che gli alti livelli di ogni stato, delle organizzazioni internazionali e del mondo intero sanno e vogliono esprimere circa la qualità del progresso e della vita individuale e sociale raggiunta dall’umanità.
È questo l’obiettivo e lo spirito dichiarato dal BIE (Bureau International des Expositions), che a tale scopo ha ingaggiato pensatori, artisti, tecnici di tutto il mondo e coinvolto i massimi responsabili diretti dei governi nazionali e delle istituzioni internazionali.
Lo sforzo di esibire il massimo risultato positivo dell’umanità a fine millennio, e non tanto i problemi, le difficoltà e i fallimenti, è in linea con la storia di questa manifestazione, che iniziatasi in Inghilterra fin dalla metà del Settecento, al nascere dell’età industriale, ha visto numerose edizioni, tra cui alcune rilevanti e particolarmente espressive di uno specifico momento storico, raffigurato anche da un monumento-segno del risultato conseguito. Si pensi alla Tour Eiffel nell’Expo di Parigi del 1889, all’Italia con le esposizioni legate alle manifestazioni dell’unità nazionale, nel decennale del 1871 e nel centenario di Italia ’61 a Torino e all’edizione bellica del 1942 all’EUR di Roma; all’Atomium di Bruxelles nel ’58, a quella di New York del 1900 e alle più recenti di Montréal (1967), Osaka (1970) e Siviglia nel 1992, centenario colombiano.
Ma l’Expo intende proporre anche il futuro. Il tema di Lisbona lo afferma: Gli oceani, patrimonio del futuro. Qualcuno ha espresso dubbi circa la scelta; altri pensavano a internet, alla genetica, alla energia nucleare. Il Portogallo è stato incaricato di trattare l’oceano perché fu il primo stato ad uscire dal continente europeo all’inizio del nostro millennio, a scoprire e successivamente interagire con i continenti africano, asiatico ed americano.
Ma il tema dell’oceano appare più come un soggetto, su cui innestare gli sviluppi di argomenti concettuali, quasi un pretesto per dire al mondo d’oggi ciò che si ritiene importante sulla vita e il destino dell’uomo. Perciò, oltre alle analisi e documentazioni circa i mari e i problemi connessi, il visitatore è stato letteralmente «indottrinato» circa alcuni contenuti specifici che l’Expo intende oggi affermare. Tali contenuti, tradotti in messaggi attraverso la imperante comunicazione multimediale, costituiscono un bilancio consuntivo, ma soprattutto un programma di vita per il XXI secolo.
Una seconda annotazione iniziale sottolinea il fatto che l’educazione tiene conto della cultura di oggi. Ogni eventuale progetto educativo, da chiunque proposto (famiglia, scuola, chiesa, stato, associazioni civili, gruppi giovanili), non può operare ignorando la realtà attuale sul piano sociale, culturale e massmediale. Un educatore deve conoscere l’oggi, tenerne conto senza dipenderne, assumere e filtrare da esso ciò che concorda e serve alla realizzazione del progetto educativo, secondo una visione antropologica assunta. In particolare, uno che opera con e per i giovani di oggi, non può essere fuori dell’oggi.
Anche se non condivide molte o alcune posizioni dei giovani del nostro tempo, un educatore non può far a meno di conoscere, di condividere con un atteggiamento di accettazione più largo possibile, di partire dal livello in cui il soggetto si trova e di far leva su quelle forze e spinte che l’attuale società gli offre.
Mi sembrano teoriche affermazioni scontate, ma ancora non è accettato da tutti coloro che operano nel settore dell’educazione che per poter fare qualcosa in una qualsiasi situazione (si pensi alle discoteche, al valore del linguaggio musicale, alla emarginazione della droga e della strada, alla difficile ricerca del senso religioso, ai blocchi per molti giovani circa l’apprendimento scolastico...) il primo passo sia per l’adulto, genitore, professore, prete, studiare seriamente e liberamente la situazione di fatto.
Poi verranno le ipotesi di lavoro, le scelte di percorsi e, se necessario, le valutazioni con le conseguenti decisioni ed iniziative concrete.
CONTENUTI CULTURALI DELL’EXPO
Prima di tutto la vita
Passate le prime sorprese, al visitatore appare chiaro che gli stanno mostrando non tanto informazioni e dati di oceanografia o di geografia generale, ma che gli stanno facendo un discorso di esaltazione della vita. L’acqua, le spiagge, i pesci, le sorgenti termali e minerali, il vento e la luce delle riviere, tutto viene utilizzato a convincere della primaria importanza della salute, dell’alimentazione, della utilizzazione del mare per il benessere fisico e morale: l’acqua, insomma, come condizione di vita felice, dai giochi dei bambini alle cure degli anziani.
Dai megaschermi, dalle immersioni subacquee simulate, alla sperimentazione di spruzzi, di temperature ideali e di suoni naturali piacevoli, il visitatore esce convinto che la vita è il più grande bene che lui e l’umanità possiedono.
Questo messaggio, inoltre, viene ripetuto e amplificato solamente sul versante positivo, ispirato ad un vitalismo ottimistico, che la realtà immediatamente si incarica di mettere in crisi, quando, usciti dall’aria condizionata, ci si trova al caldo di luglio, in cerca di ombra perché gli alberelli piantati per l’occasione sono giovani e, anzi, basiscono loro stessi; similmente è difficile trovare una fontanella di acqua (fresca) per dissetarsi: per avere un bicchiere di tutta quell’abbondanza di acqua salutifera, vista nei sei percorsi del Padiglione del Futuro, bisogna pagarlo (caro) ad uno dei 60 chioschi, in cui ti imbatti ogni cinquanta metri.
Non a caso, associazioni internazionali come Greenpeace, il WWF, Amnesty International e molte altre proprio in difesa ed aiuto della vita, come quelle per la ricerca sul cancro, sulla mucoviscidosi, sulla lotta alla lebbra, non sono presenti all’Expo. Evidentemente i loro problemi, di fronte alla situazione reale della sanità nel mondo, risultavano estranei e disturbatori del programma ottimistico della manifestazione.
Il tema ecologico
La difesa della natura, soprattutto marina, ricorre con insistenza, quasi troppo ripetitiva, nei grandi padiglioni generali, in modo più particolarmente riferito alla situazione locale del paese espositore e in altri supporti generali non meno importanti per la massa dei visitatori. Mi riferisco alla Passeggiata degli Oceani, lungo la quale scorre un flusso rinfrescante di acqua pulita, con numerosi addetti che ne ripescano cartacce e lattine, con sei alte fontane a cono, che irregolarmente spruzzano acqua sui passanti (è il numero più frequentato dai bambini) con piscine, piazzole e giardini con diffusori di piacevoli annaffiate. Alcuni interventi specifici ci sono: le cause dell’inquinamento nel padiglione del Portogallo, esempi di depuratori, ricostruzioni di stazioni marittime di controllo, ma la convinzione generale che lo spettatore porta con sé è quella, già nota, di conservare il bene delle acque, non inquinarle, usarle a casa o in vacanza, per il benessere e la produzione agricola. Anche qui è stata scelta la visione positiva dell’argomento con il facile riflusso in una retorica ecologista per cui tutti affermano, leggono nella stampa, sostengono (anche gli studenti sui temi) la assoluta necessità della difesa dell’ambiente, ma contemporaneamente le stesse persone fumano, usano auto e motorino, gettano rifiuti ovunque, esigono i prodotti dell’industria, della chimica e della plastica.
La globalizzazione in atto in un mondo senza frontiere
Nell’Expo l’unità della geografia fisica e antropica è dichiarata come uno dei fatti importanti di fine millennio. Non sono evidenziate differenze né di continenti, né di razze, né di età, sesso, religione e cultura in vista di un progresso generale e di un utilizzo dei beni del mondo. Ripetutamente è affermato e fatto assumere dai visitatori che l’oceano è uno solo, non i cinque tradizionali; l’acqua è un bene di tutti, il cui mantenimento è compito e responsabilità di tutti gli stati; che le tecnologie di ricerca, di sfruttamento e utilizzazione delle risorse terrestri sono diffuse in ogni angolo del mondo; per lo meno, sono alla portata di ogni stato, anche quello che si trova in condizioni geografiche ed economiche difficili. Alcuni esempi di vittoria dell’uomo sulle difficoltà naturali vengono presentati come risultati esportabili e applicati in altri paesi del mondo, come la formazione dei polders olandesi, le avanzate tecnologie giapponesi di pesca, i sistemi di irrigazione che in alcune zone del Nordafrica hanno fatto fiorire il deserto.
La concezione globale della realtà umana è simboleggiata bene – mi sembra – dalla mascotte Gil, il bambino vestito da onda. Mentre il logotipo richiama il tema dell’oceano, con la E delle onde bianche sul mare azzurro, il pupazzo è raffigurato dovunque, nei dépliant illustrativi, nel giornale quotidiano della mostra, nella guida ufficiale, in molte svariate posizioni: Gil saluta, balla, salta, cavalca delfini, beve Coca-Cola: è l’uomo giovane e felice del terzo millennio. Non ha razza, non ha fisionomia, ma assomiglia ad una silhouette di internet, non ha nazionalità né storia dietro di sé; è felice, ma non esprime sentimenti e tra tutte le raffigurazioni in cui è presentato non c’è un Gil che parla, né pensa, né legge e scrive, né prega o disegna qualcosa. È l’uomo di domani questo bambino-onda, quando sarà cresciuto; ma chi sarà? da dove viene? cosa pensa e cosa deciderà? ha possibilità di fare delle scelte? Forse è troppo chiedere questo ad una mascotte da Expo, ma in altri casi un significato più umano c’è stato; ad esempio, pensiamo solo ad un Pinocchio italiano, al Cristoforo Colombo per l’esposizione spagnola e a quello che significò la Torre Eiffel nel 1889. In ogni caso a Lisbona ha prevalso il senso della universalità della figura umana, giovane e felice all’inizio del nuovo millennio, uguale per tutti gli uomini del mondo, senza alcuna differenza.
Le differenze e la loro utilizzazione
Se la globalizzazione geografica, sociale ed economica è presentata come un dato di fatto, le diverse modalità concrete in cui vivrà l’umanità futura non si possono nascondere. Nei padiglioni geografici la flora e fauna delle terre polari sono del tutto diverse da quelle tropicali ed equatoriali. Anche le città, i modi di abitare e convivere, le tipologie fisiche e psicologiche dei popoli, i prodotti tipici dell’agricoltura e dell’artigianato, i canti e le danze, le forme di comunicare e di divertirsi. Nessuna modalità diversa e particolare viene taciuta, ma non viene valorizzata in sé, né spiegata nelle sue cause, a volte importanti, di tipo storico o economico.
Perché vari popoli di continenti extraeuropei parlano la lingua portoghese e mantengono un legame particolare con il Portogallo? Non è spiegato e la gente comune non lo sa, né se lo chiede. Perché alcuni prodotti tessili o metallici o in materiali speciali sono lavorati in quel paese e in quelle forme, colori e figure diverse? La grande parte dei visitatori non sa che dietro c’è la civiltà maya o quella ellenica, l’arte dei geroglifici arabi o la pittura del Terzo Impero dell’antica Cina. La gente non lo sa, la mostra non lo dice: tutti girano, guardano, si meravigliano, comperano e si divertono.
Le differenze specifiche dei popoli, che costituiscono la loro ricchezza storica e culturale, non vengono evidenziate e spiegate, come era l’obiettivo delle esposizioni passate, il cui scopo era quello prevalentemente di conoscere proprio le differenze, documentarle, capirle e assumerne gli elementi utili e positivi. Basta pensare quanto nel passato, lontano o anche più recente, una potenza europea come Venezia abbia preso dai Turchi nella edilizia, nelle feste, nei menu o la asburgica Vienna dai Balcani o l’Inghilterra dall’India.
Oggi la grande varietà di prodotti e di elementi diversi fa parte di un enorme spettacolo, di cui ognuno ammira ciò che istintivamente più gli piace o passa oltre, e di uno svariatissimo supermercato, dove acquista ciò che gli è utile o desidera conservare. In questa prospettiva l’attività che predomina in questi stand nazionali, o almeno in qualche parte della loro esposizione, è il turismo. Si direbbe che nel Duemila la gente girerà il mondo a godere i climi dei Caraibi, le sensazioni dei deserti e dei poli, i grandi centri storici ed artistici del passato.
LA FILOSOFIA DELL’EXPO
Evidentemente le linee culturali dell’Expo e i messaggi globali, ripetuti e distribuiti a vari livelli, sono frutto di un preciso progetto, voluto dal comitato organizzatore, con i politici, gli economisti, gli intellettuali che ci stanno dentro. Sono state fatte delle precise scelte di fondo, che hanno già fatto parlare alcuni osservatori internazionali che ne hanno rilevato, pure in Portogallo, gli aspetti positivi, ma anche i limiti e i pericoli.
In Italia la stampa e la TV hanno quasi ignorato l’Expo, eccetto qualche breve e critico intervento, passato inosservato all’opinione pubblica.
La concezione dell’uomo, nella storia e nella concreta realtà terrestre, è decisamente ottimista. La natura fisica degli oceani è mostrata nella sua bellezza e nelle possibilità di godimento e utilizzazione
La realtà è un bene globale, su cui l’uomo moderno, dotato di potenza scientifica e tecnologica, è in grado di dominare. Lo scopo del rapporto uomo-natura è il godimento del mare, dell’acqua, della luce e dello spazio.
Nelle relazioni con gli altri prevale il momento ludico, e verso i popoli lontani lo sbocco naturale è il viaggio e il turismo. Si potrebbe definire una concezione antropologica fondata, e limitata, ad un naturalismo utilitarista ed edonista.Altre concezioni, che si richiamano a filosofie diverse, sono del tutto assenti. Pensiamo alla realtà ancora problematica, pure a livello internazionale, del mondo del lavoro con il diritto all’occupazione, al rapporto dell’uomo verso la macchina, al ruolo dello stato rispetto al privato nell’economia: quanto ha scritto e tentato la concezione socialista; oppure sui diritti dell’individuo, sull’emarginazione sociale, sui movimenti femministi fin dall’inizio del secolo e sulle minoranze: quanto ha lottato la concezione radicale, anche negli ultimi decenni; o pure una visione del mondo fondata sullo sviluppo della persona nelle sue qualità spirituali e aperta alla solidarietà e al trascendente come ulteriore contributo alla verità e qualità della vita, secondo quello che tante esperienze religiose europee ed orientali, dall’Islam al Buddismo, hanno storicamente mostrato.
Si può affermare, anche che se esigerebbe ulteriore approfondimento, che questo naturalismo utilitaristico ed edonista di Lisbona ha tanti aspetti piacevoli, validi e positivi, ma che a confronto con la realtà è limitato, necessita di essere completato, con il rischio di apparire una felice utopia. Tale risultato è legato nell’Expo anche ad una scelta, che privilegiando ed usando quasi esclusivamente un tipo di comunicazione multimediale esperienziale-emotiva, non chiama in causa la razionalità e la responsabilità etica del visitatore, per cui la concezione del mondo che ne risulta è edonistica, senza fondamento razionale ed etico.
LA COMUNICAZIONE MULTIMEDIALE ESPERIENZIALE
Sembra che gli organizzatori dell’Expo siano partiti dal presupposto di dover presentare un argomento, così vasto e complesso, senza richiedere alla massa dei visitatori uno sforzo mentale di comprensione. Nelle esposizioni universali precedenti, e in quelle attuali di ogni tipo, il visitatore, per conoscere e capire, deve usare occhi, orecchie e mente, cioè deve metterci un certo impegno e fatica per acquisire qualcosa di nuovo alla propria cultura personale. Si pensi alle grandi mostre d’arte nel mondo, a rassegne e festival musicali, cinematografici e teatrali, alle massime fiere ed esposizioni del settore tecnico e scientifico. Lo scopo di tali manifestazioni, ipotizzato su di un determinato tipo di partecipazione da parte del visitatore, è quello di accrescere le conoscenze e la cultura, oltre ad altre finalità commerciali o politiche, come di solito avviene.
A Lisbona la gente è stata condotta, quasi sempre in gruppo e in fila, a subire percorsi programmati, ad assistere a filmati e spettacoli multimediali e folcloristici, a vedere e meravigliarsi, a provare emozioni, ad assorbire infine quei messaggi e contenuti culturali predisposti. Luci, suoni, finzioni, esperienze artificiali, filmati tridimensionali hanno fatto provare delle esperienze sensoriali-emotive per far uscire i visitatori convinti della bontà delle idee, che il padiglione si proponeva di trasmettere.
Non è stato chiesto lavoro alla mente, ma non è stato chiamato in causa il pensiero e la cultura del singolo, né un suo possibile ragionamento, né il suo senso critico nel porsi delle domande, nel chiedersi il perché di quello che veniva rappresentato, né le cause o le conseguenze o le eventuali difficoltà.
La conseguenza più grave, perché limitativa delle qualità umane, è di non coinvolgere l’interlocutore in una possibile partecipazione con il discorso che si sta facendo, né di condurlo a decisioni di accettazione o rifiuto o di parziale adattamento: viene escluso il piano etico, che nasce dalla conoscenza, dalla valutazione e dal senso di responsabilità che una persona si pone di fronte ad un fatto. La comunicazione esperienziale si ferma alla percezione sensoriale globale, mira a convincere il soggetto, senza richiedergli alcun suo intervento cosciente di conoscenza e responsabilità, trattandolo cioè come soggetto passivo da strumentalizzare a fini precostituiti, fossero questi anche socialmente ed economicamente ottimi, ma tuttavia inaccettabili dal punto di vista umano in quanto in ogni tipo di comunicazione il recettore è una persona e in quanto tale va rispettata, sia nelle modalità della comunicazione stessa e sia negli scopi a cui si vuole portarla. Sarà così la comunicazione del Duemila? Allora si verificherebbe quello che pensatori del Novecento hanno già segnalato come un grave pericolo: la comunicazione di massa attuerà una generale spersonalizzazione e una società passiva o politicizzata di un solo colore (vedi 1984 di G. Orwell) o con un sistema democratico solo apparente, perché i cittadini voterebbero il padrone delle TV nazionali, come ha minacciato duramente Karl Popper, cioè funzionerebbe il medesimo meccanismo con cui i cittadini scelgono gli acquisti seguendo la pubblicità, ma, e ciò sarebbe più grave, adottando comportamenti, mentalità, criteri morali e decisioni importanti secondo le convinzioni di massa, imposte dai modelli televisivi e pubblicitari.
Sarebbe, nel caso peggiore (ma in parte ci siamo già dentro e su questa china), il predominio del consumismo come concezione di vita, che porta a spendere al massimo e oltre le possibilità, imponendo un’illusione di vita felice e colma di ogni bene, salvo a far capire a quei pochi, che riusciranno a liberarsene e a riflettere, che tutto questo mondo, creato da tale tipo di comunicazione (con la corrispondente politica, economia ed etica alle spalle), è soddisfacente solo in apparenza, ma in realtà non risponde alle esigenze più vere e umane di ciascuno.
Infatti lo stordisce, non gli permette di pensare, ha eliminato il silenzio, ma gli lascia nel fondo del cuore una insoddisfazione radicale, perché oppresso dalla solitudine anche nel frastuono, poiché non gli dice i perché di ciò che sta facendo, non gli indica la strada per trovare se stesso e l’altro da conoscere e con cui costruire assieme qualcosa, perché sostanzialmente questo sistema consumistico non gli dà il senso della vita, di cui prima o dopo ognuno ha bisogno. Queste sono prospettive catastrofiche e generalizzate, che naturalmente all’Expo di Lisbona non appaiono vincenti, anche se la megaimmagine, il frastuono e l’immersione emotiva sono state le componenti dominanti di questo tipo di comunicazione.
L’ABITANTE DEL NUOVO MILLENNIO SARÀ L’HOMO FELIX?
Dunque, dalle osservazioni fatte, se l’analisi dell’Expo nel suo profondo è sostanzialmente vera e verificabile, e soprattutto il tentativo di interpretazione da parte mia tiene una sufficiente coerenza, propongo due conclusioni che potrebbero servire a chi vuol rendersi conto in quale cultura stiamo entrando e cosa può tentare un educatore che intenda operare secondo un proprio progetto educativo. A Lisbona, quindi, si vede presentato prevalentemente un uomo del futuro, potente, capace di dominare la natura e servirsene a propria utilità e benessere. Il prototipo dell’individuo in ogni parte del mondo è un atleta, sempre esplodente di salute, sorridente e simpatico, gioioso e semplicemente felice. Gil, la mascotte di Lisbona ’98, ne è la vera rappresentazione. È raffigurato in tutte quelle posizioni di gioco, di spensieratezza e di felicità che ritroviamo dominanti e sviluppate nei padiglioni e negli stand nazionali. Gil presenta l’ideale dell’uomo del Duemila, sempre in festa e felice. Non è tuttavia difficile capire che c’è bisogno anche di chi lavora, di chi progetta e organizza, di chi pensa e dirige. È chiaro anche supporre che non in tutta la giornata né nell’intera settimana, ovunque nel mondo, si potrà vivere in continuità questa festa. Nel modello pubblicitario dell’Expo tali componenti integranti non sono esplicite. Si preferisce puntare su questo progetto umano, evidenziandone questo solo aspetto, quello della felicità e lasciandone da parte altri, che nel passato invece hanno avuto spazio ed impegno notevoli: si pensi ai problemi e alle novità del mondo della scienza, della tecnologia e del lavoro (dal settore meccanico di Parigi a quello nucleare di Bruxelles) o alle sperimentazioni della biologia genetica dei pomodori perfettamente cubici di Osaka o i diritti individuali dell’uomo e della donna; altre volte sono state evidenziate componenti importanti della vita umana come la cultura, la sessualità, la scienza, l’arte, che nelle esposizioni passate avevano tenuto posti di primo piano e che ora sono state messe da parte per esaltare il punto di arrivo finale del percorso umano: essere felici. Ci chiediamo di fronte a questa enorme parata del sorriso: sarà possibile? cosa comporterà nella realtà, reale e non virtuale, delle singole persone e dei singoli stati? È tutto un’operazione pubblicitaria di marketing per far spendere? È un sogno, bello, ma ancora non realizzabile, se soltanto buttiamo lo sguardo alle cronache dei giornali?
Allora, alla conclusione di tutto, si può indicare un paio di specifici interventi educativi, per brevi spunti e a titolo di ipotesi, rimandando a studi e interessanti contributi che sul tema esistono e devono essere utilizzati a confronto, conferma o a correzione di quanto affermato.[1] Infatti il tema della felicità come ideale di vita è eterno quanto l’uomo, è insito nell’uomo e nel suo destino, in quanto essere personale, diverso dalle stelle, dai fiori e dagli animali. Egli vive per essere felice e la filosofia di ogni tempo, come la poesia, l’arte, la psicologia e le scienze economiche e sociali moderne, ne hanno trattato.
La tendenza alla felicità che ognuno porta profondamente in sé si concretizza in uno dei modi più comuni nella società attuale nelle manifestazioni che vengono chiamate feste. Anche se il Gil di Lisbona sembra uno che fa festa a sé, da solo, senza un motivo particolare, senza date o ricorrenze speciali, possiamo ipotizzare che, come oggi, anche nel prossimo futuro ci siano feste legate a date personali e avvenimenti familiari, ci saranno feste civili, professionali, religiose, si moltiplicheranno le occasioni di festa con le attività sportive, con le ferie e con il turismo. Se procediamo su questa tendenza, le feste aumenteranno a scuola, nell’ambiente di lavoro, in città, in campagna e in villeggiatura, nei luoghi d’arte e di culto, all’interno di piccoli nuclei parentali e amicali, e tra persone e gruppi di diverse nazionalità e razze.
Se l’educatore vuole raggiungere lo scopo di far maturare – nel soggetto e nel gruppo su cui egli incide – un senso reale e completo della festa in vista di uno sviluppo autonomo ed integrale delle persone in crescita, egli dovrà porre le condizioni di riflessione e di esperienza su tutte le componenti della festa e non solo sul suo consumo in fase conclusiva. E ciò anche per contrastare una certa prassi invalsa nella stessa pastorale giovanile di utilizzare la festa in senso unicamente ludico-espressivo, ancorato all’effimero. Si dovrà capire e sperimentare che la vita non è solo festa, ma anche lavoro e perfino dolore e sacrificio per la maggior parte dei giorni, come documenta il grande psicologo Vicktor Frankl nell’ultimo suo lavoro Homo patiens, contrapposto all’Homo ludens.[2] La festa stessa esige rinunce, costa energie, tempo e denaro nella preparazione e nella gestione; qualche volta domanda di accettare difficoltà e perfino amarezze, nell’ambito stesso del momento celebrativo. Si dovrà far comprendere che la festa è costituita da elementi esteriori, visivi e sonori, addobbi e musica, consumazioni e altro, ma che è importante la partecipazione: la festa deve essere concretamente possibile a tutti e richiede la partecipazione di tutti coloro che vi intervengono. La festa inoltre è fondata necessariamente su di una situazione interiore di serenità e di gioia, per non finire in una falsa esteriorità. Per ognuno deve risultare un arricchimento nel rapporto con gli altri e nella crescita personale: la festa, in senso pienamente positivo, non si esaurisce infatti nel consumo anche felice e gioioso di ciascuno, ma contribuisce all’accrescimento di energie vitali per realizzare meglio un proprio piano di vita.[3]
Da qui risulta allora che il momento esistenziale della festa ha bisogno di essere sperimentato secondo determinate concezioni teoretiche e condizioni concrete nei diversi momenti della vita. Allora le due proposte conclusive di queste riflessioni rivolte all’educatore, pedagogista od operatore, sarebbero: fare festa e formare una particolare antropologia in cui il giovane inserisce realisticamente e armonicamente l’esperienza della festa.
In molti ambienti ed occasioni l’educatore può trovare l’opportunità per un’educazione alla festa, sia a livello di formazione mentale, di acquisizione di valori e di organizzazione operativa. Nella scuola sia l’insegnamento delle discipline che la vita comunitaria offrono interessanti occasioni in proposito. Anche gruppi e associazioni, la vita familiare, dove molte cose importanti e difficili da dire si possono comunicare nei giorni di festa anche solo con un gesto o con un fiore; i mass-media, canzoni e giornali, anche i piccoli notiziari locali e di gruppo hanno numerose possibilità; la catechesi, le iniziative della vita parrocchiale, l’insegnamento della religione possono anche contribuire a capire un senso della festa più completo e profondo, mentre spesso è svuotato dalle celebrazioni ufficiali e superficiali, come il Natale, la Pasqua, la festa del patrono cittadino e altre. Perfino il giorno della domenica può essere riqualificato sul piano dell’esperienza festiva, sia come divertimento che come espressione globale cristiana di una festa senza tramonto, oltre la vita terrena.[4] Non vado oltre nelle esemplificazioni, perché l’attuazione operativa è chiara e possibile in numerose occasioni, tanto che per qualche persona speciale, come alcuni santi, ogni giorno era festa. Andare ad ulteriori specificazioni e modalità concrete rischia il banale o il generico, ma rimane chiaro anche che per educare alla festa in questa prospettiva è indispensabile un piano di vita, maturato e fondato su convinzioni antropologiche sicure. Dentro una determinata concezione dell’uomo e del suo destino, del valore della persona e della sua realizzazione nel rapporto con gli altri, nell’accettazione armonica del sacrificio e anche del dolore e della sconfitta come momento di positività nel cammino umano, il momento della festa e il desiderio della felicità possono diventare elementi costruttivi. Sarà uno degli aspetti importanti e universali del Duemila? Lisbona sembra dire che quella è la meta e che il mondo ce la fa. L’oceano di ottimismo è un patrimonio del futuro.
Con queste riflessioni, da verificare e completare, si potrebbe dire di sì a Lisbona, ma con una domanda di partecipazione più attiva da parte della persona, nelle sue magnifiche capacità conoscitive e morali, capaci di costruire una festa più felice, perché più umana.
NOTE
[1] Vedi voce «Festa» in: J. M. Prellezo–C. Nanni–G.Malizia, Dizionario di scienze dell’educazione, SEI-LDC, 1997, p. 417, a cura di G. De Nicolò, con bibliografia aggiornata al 1993. Successivamente si può vedere: S. Cavazza, Piccole patrie. Feste popolari tra regione e nazione durante il fascismo, 1997, Il Mulino; P. Pastori, La festa di San Giovanni nella storia di Firenze. Rito, istituzione e spettacolo, 1997, Polistampa; I. Porciani, Festa della nazione. Rappresentazione dello Stato e spazi sociali nell’Italia Unita, 1997, Il Mulino; C. Antiero, Guida alle feste popolari in Italia. Suddivise per regione, mese dell’anno, città, 1997, Datanews; A. Arino-L.M. Lombardi Satriani–A. Perri, Utopia di Dionisio, 1997, Meltemi.
[2] Vicktor Frankl, Homo patiens, Piemme 1998.
[3] La rivista Note di Pastorale giovanile ha trattato l’argomento «festa» in numerosi articoli con supporti antropologici ed esperienze pratiche. Si vedano i contributi di C. Grossini (1981, 4), F. Floris (1981, 6), I. Cortassa (1984, 9), T. Lasconi (1989, 7), G.B. Bosco (1993, 7), D. Sigalini (1996, 2).
[4] Tra gli articoli di Note di Pastorale Giovanile alcuni trattano il senso festivo e religioso della domenica. Vedi C. Martino (1983, 2), M. Pollo (1983, 4), K.Rahner (1983, 4). L’aspetto teologico, pastorale ed umano della domenica è sottolineato nella lettera apostolica di Papa Giovanni Paolo II, Dies Domini, del 7.7.1998.