Luis A. Gallo
(NPG 1999-03-58)
I vangeli attestano non solo che Gesù di Nazaret visse un intenso e singolare rapporto filiale con Dio, al quale si rivolgeva affettuosamente chiamandolo «abbà», ossia «babbo», ma che anche invitò gli altri a fare lo stesso. Propose così un’immagine di Dio dal volto intensamente benevolo e familiare per tutti e per ognuno.
«Padre mio e Padre vostro»
Verso la fine del vangelo di Giovanni si può leggere un racconto molto toccante: quello dell’apparizione di Gesù risorto a Maria di Magdala (Gv 20,1-2.11-18), la donna dalla quale egli aveva cacciato «sette demoni» (Lc 8,2). Affascinata dalla sua persona e dalle sue parole, essa lo aveva seguito da vicino in tutte le sue vicende, ed era stata anche ai piedi della croce quando lo giustiziarono (Mt 27,56; Mc 15,40; Gv 19,25). Dopo la frettolosa deposizione del corpo martoriato nel sepolcro, essa, non potendo resistere alla dolorosa separazione, si recò alla tomba la domenica di buon mattino, quand’era ancora buio, non appena glielo permisero le circostanze regolate dalla legge mosaica, e vide che la pietra di chiusura era stata ribaltata. Corse a dirlo a Pietro e Giovanni, che si diressero velocemente al sepolcro, constatando l’assenza del corpo seppellito nel pomeriggio del venerdì precedente. Rimasta da sola a piangere, Maria intravide prima due angeli con i quali sfogò la sua pena, e poi uno che a lei sembrò essere il custode del giardino, ma che poi riconobbe dalla voce: era il suo diletto Maestro! Gettatasi ai suoi piedi, si sentì dire da lui queste parole:
«Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: ‘Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro’» (v. 17).
Cosa che ella si premurò di fare, convertendosi così nella prima annunciatrice della risurrezione.
Il messaggio da dare a quelli che Gesù chiamò «i miei fratelli» fu precisamente questo: «Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». Molto si è lavorato teologicamente su queste parole del Risorto.
In genere si è fatto leva su di esse per far risaltare la differenza fra la figliolanza di Gesù nei confronti di Dio e quella degli altri uomini e donne: egli, si sostenne, mise in risalto con queste parole una chiara distinzione tra la sua condizione filiale e quella degli altri, appunto perché non disse «salgo al nostro Padre», ma «salgo al Padre mio e Padre vostro».
Una figliolanza «adottiva»?
In parte questo modo di intendere tali parole di Gesù Risorto si dovette all’influsso di S. Paolo e dei suoi scritti; ma, se li si considera attentamente, questi scritti, al di là della loro maniera di esprimersi, sottolineano piuttosto la profonda comunione esistente tra Gesù e quelli che lui chiama i suoi fratelli nell’unica figliolanza.
Paolo, infatti, nelle cui lettere la gioiosa convinzione della divina figliolanza dei credenti in Gesù è spesso accennata, utilizza per riferirsi ad essa una terminologia peculiare.
Dio, dice, ha voluto fare agli uomini il grande dono della «figliolanza adottiva», li ha voluto costituire suoi «figli adottivi» (Rm 8,15.23; 9,4; Gal 4,5; Ef 5,1).
Letteralmente, il termine «adozione» da lui adoperato significa «porre qualcuno come figlio, al posto di un figlio». Sa, quindi, almeno a primo acchito, di giuridico. L’adozione, come è ampiamente noto, era un istituto legale vigente nel mondo ellenistico, e particolarmente in quello romano nel quale si muoveva Paolo. Mediante esso, qualcuno che non era stato generato biologicamente da un capofamiglia, era incorporato come figlio nel suo ambito familiare, con tutti i diritti che da ciò derivavano. Si trattava, come si vede, di una specie di «finzione giuridica», grazie alla quale a qualcuno veniva riconosciuta una condizione che non gli era naturale. In qualche maniera gli rimaneva posticcia.
Il senso tuttavia che Paolo attribuisce al termine nei suoi scritti non ha niente di giuridico. Lo vedremo subito. La teologia invece scorse in esso un modo di fondare la differenza tra la figliolanza di Gesù e quella degli altri. È probabile che su ciò abbia influito la lotta che la Chiesa antica dovette sostenere contro l’eresia chiamata del monarchianesimo adozionista, la quale sosteneva che Gesù non era figlio di Dio se non perché era stato adottato da Lui come tale in qualche momento della sua esistenza (concezione, battesimo, risurrezione), con lo scopo di effettuare mediante lui la salvezza dell’umanità.
Paolo, da quel che si desume dai suoi scritti o da quelli che a lui si ispirano, con l’uso dell’espressione «adozione a figli» ha voluto sottolineare il carattere di gratuità di tale dono. Uno scritto in cui ciò si coglie chiaramente è il prologo della Lettera agli Efesini. In esso, iniziando la grande preghiera di benedizione che risponde alle sei benedizioni effuse da Dio sull’umanità, si dice:
«Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto» (Ef 1,3-6).
Come si vede, la prima grande benedizione di Dio, «il Padre del Signore nostro Gesù Cristo», consiste nell’elezione e predestinazione degli uomini a essere suoi figli adottivi. E questo, «secondo il beneplacito della sua volontà» (v. 6), ossia per una libera decisione del suo amore «prima della creazione del mondo» (v. 4), cioè sin dall’eternità. Si tratta, quindi, di un puro dono suo, di una «grazia» come dice il testo (v. 6), che precede qualunque iniziativa umana.
Ma il dono fatto da Dio è quello di una vera figliolanza, con tutte le caratteristiche di quella del Figlio diletto (v. 6). Infatti, per ben due volte nelle sue lettere Paolo si rifà all’esperienza filiale di Gesù per parlare di quella di coloro ai quali si rivolge. Nella Lettera ai Romani afferma enfaticamente:
«E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: ‘Abbà, Padre!’. Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» ( 8,15-16).
E nella Lettera ai Galati dice similmente:
«E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: ‘Abbà, Padre!’» (4,6).
Così, quindi, come Gesù si era comportato da figlio, con un atteggiamento che lo portava a gridare, anche nei momenti più dolorosi, «abbà» (Mc 14,36), in modo analogo sono invitati a comportarsi coloro che sono figli e figlie come lui.
Dio è «abbà» nostro
Le parole del Risorto a Maria di Magdala si possono pertanto capire come un modo di affermare che lo stesso Dio che è Padre suo, è anche Padre nostro. Più di una volta, d’altronde, l’espressione «Padre vostro» è messa in bocca a Gesù nei vangeli sinottici (15 in Matteo, 1 in Marco, 5 in Luca). E, secondo l’attendibile opinione di alcuni studiosi, si dovrebbe supporre che la maggior parte delle volte in cui questi ultimi riportano la parola «Padre», originariamente si trovava invece la parola «abbà». Gesù avrebbe detto, quindi, per esempio:
«Quando pregate, non sprecate parole […], perché il vostro Babbo sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate» (Mt 6,7-8).
Oppure:
«Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il vostro Babbo celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il vostro Babbo celeste infatti sa che ne avete bisogno» (Mt 6,26).
Questi dati costituiscono un vero «evangelo», ossia una «buona notizia», per noi: attraverso di essi Gesù ci fa sapere che ciò che Dio fu ed è per lui, lo è anche per noi; che anche noi possiamo vivere la nostra vita immersi in quell’atmosfera filiale in cui era immersa la sua. Come lui, pure noi possiamo dire a bocca piena: Dio è mio Babbo!