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    La Bibbia riesce a fare dei cristiani?



    Cesare Bissoli

    (NPG 1989-06-75)


    La domanda, emersa in un recente seminario di catechesi, rivela una perplessità e insieme manifesta una pretesa: una perplessità perché non pare che la pretesa riesca a realizzarsi.
    La perplessità potrebbe essere espressa così: il rilancio della Bibbia così vistoso e imponente non pare ottenga frutti aspettati. Se, da una parte, da essa si ricavano informazioni decisive sulle origini, e quindi sulla autenticità della religione cristiana, dall'altra sembra ci si debba arrendere come davanti a una distanza quasi incolmabile e insieme provare la sensazione di un tradimento continuo.
    È la innegabile distanza culturale, per cui parole di Gesù medesimo (ad esempio sull'aiutare i poveri mediante l'elemosina) non avrebbero che scarse possibilità di affermazione se si tiene conto del mondo attuale (ad esempio quanto al modo oggi di essere poveri, nelle cause e nelle soluzioni); si aggiunga la non infrequente infedeltà al dato evangelico, quando, come capita, la potenza sconvolgente del suo annunzio (cf Rom 1,16-17) sembra cadere nelle trame di un livellamento che tutto smussa, tutto appiattisce, proponendo piuttosto discorsi di sapienza mondana che lo shock dei fatti, in primis quello «stolto» della croce (1 Cor 1,17 ss).
    Che cristiani stanno generando le nostre catechesi di massa (che in verità si rivolgono perlopiù a un piccolo gregge, ma senza la coscienza coraggiosa e umile di minoranza)? E le nostre liturgie così grondanti Bibbia per quanto incidono, se una recente indagine nazionale ci viene a dire che soltanto una piccola frazione riesce a cogliere verità e valore delle pagine proclamate?
    La perplessità e disagio di chi semina molto e pare raccogliere poco si radicano in fondo sulla pretesa che riconosciamo al Libro sacro: l'essere, e non solo il contenere, la Parola di Dio o, se si vuole, il testimoniare la Parola di Dio in una maniera specifica: come testo (= textum, tessuto, ossia intreccio di molteplici fili); come opera letteraria, quindi elaborata, organica; come scritto, quindi come messaggio stabile e palese. Via da me il pensiero che la perplessità sul prodotto comprometta la bontà della causa. La parabola del seminatore, e ogni altra parabola del Regno, sta a dimostrare che senza fatica, senza smentita, senza sconfitta quasi, la Parola di Dio non produce frutto (cf Mt 13). Ma rimane vero che dobbiamo ripensare la strada del nostro incontro con la Bibbia e metterci una domanda più a monte: come la Bibbia riesce a fare i cristiani?

    COME LA BIBBIA RIESCE A FARE I CRISTIANI?

    Ci rendiamo conto che l'entusiasmo della prima volta per la Bibbia tramonta presto, se mai c'è stato. Né è questione di quantità, di volume massiccio di informazioni (che finisce sovente con l'indigestione dell' esegetismo), ma è problema di qualità.
    Si dirà: è problema di fede. Ma è discorso ancora troppo generico. Preciserei in questo modo: è problema di qualità della fede, di una fede che si adegua alle prospettive o contenuti che la Bibbia propone, e accetta le condizioni per appropriarsi tali prospettive.
    Questo delle condizioni per cogliere la potenza della Parola è l'argomento che merita sia affrontato per primo, in quanto appuriamo dalla Bibbia certi criteri di procedura che garantiscono la correttezza nell'assumere i suoi contenuti o messaggio di verità. O se si vuole, il cristiano chiamato a vivere oggi la sua fede, la vive e la matura se conosce anche le modalità nel farlo. Quelle modalità che nascono da una precisa ragione: dall'essere la Bibbia ciò che è nella struttura di rivelazione del cristianesimo.
    Ecco in sintesi tre preliminari che chiedono di formare la mentalità del credente nel Dio di Gesù Cristo.

    La Bibbia come memoria vitale

    La Bibbia si pone, e quindi va accolta, come memoria di fondazione e come annuncio fondante.
    Vi sta sotto il pensiero che la Bibbia come tale, e così come è, si offre come unità di misura della fede, nel senso che contribuisce a costituirla come fides quae e come fides qua, come contenuto e come atteggiamento.
    È memoria di fondazione (cioè i fondamenti sono riproposti alla facoltà vitale della memoria) il cui esercizio rende contemporanea e attuale, per la fedeltà di Dio, la Parola di salvezza che fu di ieri. L'incontro con il testo scritto porta la grazia sostanziale dell'oggettività. Ma ciò esige una pratica reale dell'ascolto, dell'apertura all'Altro come altro da me. Fides ex auditu (cf Rom 10, 14 s). La Parola investe tutta la mia soggettività, se viene riconosciuta come grazia, come dono cui affidarsi e a cui ubbidire.
    Come allora non restare impressionati della straordinaria trascendenza che rappresenta la lettura della Bibbia, per cui il passato sempre più remoto nel piano di Dio diventa profezia sempre ricorrente del nostro cammino verso il futuro!
    Memoria di fondazione dell'evento cristiano, la Bibbia rimane annuncio fondante, cioè pretende, per la priorità di rivelazione che porta in sé, di farsi fondamento, norma, criterio valutativo di ogni altro contenuto della fede, di ogni pur necessaria e mai finita elaborazione successiva, lunga quanto la storia della chiesa nel tempo.
    Da quanto detto nasce un duplice impegno del cristiano (e di educazione per esserlo veramente):
    - sapere la totalità della fede secondo la visione, le dimensioni, l'animus della Bibbia (come accenneremo parlando del secondo e terzo fattore per una retta mentalità), in primis la gerarchizzazione dei contenuti stessi (di verità e di prassi) così come li propone il Libro sacro;
    - fare (e aiutare a fare) dell'esercizio della memoria biblica (che è lo studio, l'approfondimento critico, la ricerca anche minuta...) talvolta così arido, sempre culturalmente esigente, non la tassa di passaggio per arrivare al «dopo» del contenuto, alla polpa sotto la scorza, ma la prima esperienza del contenuto stesso, la percezione, accolta nella disponibilità generosa della fede, che si tratta della parola del Deus absconditus, così poco frutto di illuminazioni categoriche e irreformabili, ma piuttosto termine di incessante approssimazione, compagno di viaggio, come a Emmaus, che è gustato quando sparisce dalla vista, memori delle parole che Gesù disse: «Cercate e troverete» (Mt 7,7), dove in certo modo il trovare non sta dopo il cercare, ma dentro lo stesso cercare. Niente di più centrato del detto di Agostino (in bocca a Dio): «Non mi cercheresti se non mi avessi già trovato».

    La Bibbia come Parola Incarnata nella storia

    Se la Bibbia come memoria esprime la grazia della oggettività e trascendenza della fede, della trascendenza dell'oggettività o non manipolabilità del dono di Dio, e dell'oggettività della trascendenza per cui la Parola di Dio è veramente «sua», un secondo tratto della sua identità chiede di intervenire nel modellare la fede del cristiano, o perché il cristiano abbia la fede: è la Bibbia in quanto storia, grazie a cui la fede si fa attuale, il cristiano cammina oggi con Dio, nella garanzia di camminare giusto e e camminare oggi.
    Chiediamoci: cosa significa fare esercizio di memoria incontrando la Bibbia? Memoria di che? Attingiamo forse da un deposito bloccato di rigide verità da ripetere, adattandole per quanto si può, ma sostanzialmente aderendo al passato, e come i gamberi, in atteggiamento di nostalgia e di timore intendiamo camminare non di faccia, ma di spalle verso il presente e il futuro, tollerando la storia post-biblica in quanto quella biblica sarebbe l'unica che vale?
    Caricando così le tinte sarà facile dire di no. Ma vi può essere un certo feticismo biblico, un culto archeologico della figura originale (che pur bisogna conoscere), una sacralizzazione della cultura semitica, una rigida sosta sulla Parola di ieri, che sembrano far coincidere completamente la storia della Bibbia con la storia della salvezza, bloccando questa sul dato biblico, indispensabile sí, ma la cui grandezza storica è non più di un segmento. Lo Spirito santo dei tempi escatologici resta in qualche modo confiscato nella prima Pentecoste, i miracoli appartengono esclusivamente alla stagione palestinese di Gesù.
    A questa grave impasse che fa del cristianesimo una religione del Libro e tutto sommato della conservazione, si risponde in due direzioni: guardando all'interno della Bibbia e poi rapportando la rivelazione in essa codificata con la rivelazione globale, ossia leggendo la stessa Bibbia nel quadro che essa enuncia.
    Guardando con amore alla Bibbia, luogo della propria memoria vitale, il cristiano trova sí un libro, ma non di teoremi immutabili, né un disegno meccanico da rifare in serie.
    All'interno del suo Libro di fede, il credente trova la «fissazione impossibile» del tumulto della vita, il dialogo incontenibile fra Dio, con il suo disegno ineffabile, e l'uomo, anzi molti uomini, un popolo, lungo secoli di storia burrascosa, dai mai sopiti conflitti e dalle mai definitivamente compiute speranze.
    È più fedele alla Bibbia, e quindi biblicizza correttamente la propria fede, colui che, accogliendo tale struttura dialogica della realtà con le sue componenti di fondo, ne fa in sé la prova, vi lascia coinvolgere la propria storia, che non colui che registra analiticamente e sa dire esattamente come sono andate le cose.
    La Bibbia comunica le sue verità fondanti attraverso la dinamica di un processo ermeneutico permanente, il cui fine e contenuto insieme è ridire, anzi magnificare il senso di Dio nella verità contingente dei tempi, delle situazioni, delle culture. Essa ci consegna come compito la continuità di questo processo donandoci negli uomini biblici, al vertice in Gesù Cristo e nella comunità degli inizi, i criteri di una buona attualizzazione, le indicazioni per un nostro personalissimo e sempre inedito cammino con Dio al seguito di Gesù, e non la programmazione predeterminata dei passi che dobbiamo fare e delle parole che dobbiamo dire. Si dovrebbe accettare con. più libertà e grandezza di spirito lo sfolgorante paradosso che niente come la Bibbia, il luogo della nostra necessaria memoria, vuole creatività, senso di futuro, esercizio di libertà per essere fedele, per vivere fedelmente la Parola che essa ci comunica.
    Perché appunto la Bibbia questo testifica come Parola di Dio: un Dio in cammino con un popolo nella imprevedibilità delle vicende, ma sotto la promessa di un amore fedele che attende ascolto e accoglienza gioiosa, e eticamente impegnata da parte del popolo.

    La Bibbia in una storia di salvezza che continua

    Poniamo come terzo fattore di una fede rigenerata alla sorgente della Bibbia e criterio ineliminabile per un'esistenza cristiana, il fatto che la Bibbia appartiene a un mondo più grande di sé e che continua storicamente, e con pari efficacia salvifica, oltre la propria storia, la propria cultura.
    Non si tratta di un mondo successivo alla Bibbia, ma generato da essa, come la pianta dal seme. Oltre la contingenza inesorabile di tempi e di luoghi, vi è un piano di Dio che sopravanza in avanti la storia biblica: Dio e il suo popolo verso il punto omega. Cristo è risorto, quindi contemporaneo e attivo, il suo Spirito agisce ancora per la venuta definitiva del Regno di Dio.

    Storia della fede della chiesa

    In termini teologici si parla di Tradizione vivente come canale, diverso dalla Bibbia ma insieme ad essa, dell'unica Parola di Dio.
    È il senso della Chiesa come prima eredità biblica e garanzia di una vita cristiana solidamente ancorata alla Bibbia. È fedele alla Bibbia chi è fedele alla Chiesa, chi questa fedeltà riconosce, accoglie, nutre, verifica a partire dalla Bibbia, dall'assoluta fedeltà al Signore Gesù testimoniato e parlante attraverso gli apostoli.
    Ne deriva tutto il problema della ecclesialità della fede, ma che, prima di essere problema da investigare, è conferimento di grazia da accogliere. Quali siano i tratti essenziali di tale ecclesialità, testi come Atti 2, 42ss ce lo indicano in misura impressionante: ascolto intelligente della Parola che si organizza in simbolo di fede; celebrazione liturgica che attraverso i segni sacramentali dona al Gesù di Palestina di estendere la «bella notizia» a ogni uomo; la comunione di vita nell'agape e nel servizio ai poveri quale modo di esprimere la relazione di amore che Dio tiene con gli uomini.

    Storia del mondo

    Ma non ridurrei solo alla Chiesa visibile lo spazio che la Bibbia ha aperto dopo di sé. Di fronte a essa sta, gigantesca, a volte impenetrabile, la storia del mondo, la storia dell'uomo come tale. E chi legge la Bibbia, specialmente l'AT, sa quanto sia appassionato, anche se aspro, ma mai di irrevocabile condanna, il confronto con le «nazioni». Tanto più da quando Gesù attraverso i suoi discepoli ha fatto la scelta delle «nazioni» perché abbiano a lodare il nome di Dio (cf Rom 9-11).
    Ecco un tratto gagliardo ed esaltante di una fede secondo la Bibbia: saper discernere nella realtà, nella vita anzitutto dell'uomo, nelle molteplici manifestazioni dello spirito, della cultura, della tecnica, non soltanto il timbro del peccato, ma quel possente respiro di Dio, il ruah, il suo Spirito, a proposito del quale si apre la Bibbia nella sua prima pagina (Gen 1,1-2).

    Storia aperta al futuro

    Non lasceremo di accennare infine a un terzo elemento che sporge oltre la Bibbia partendo da essa: è la promessa con cui la Bibbia si chiude, manifestando quindi in certo modo il suo restare aperta in attesa di compimento: la rivelazione definitiva del Regno di Dio nella venuta seconda di Cristo.
    Fa da nostro traguardo e ha la funzione essenziale di «riserva escatologica», che vuol dire insieme abbattimento dei muri dei successi che ci diamo come definitivi, ma anche abbattimento dei muri degli insuccessi giudicati come irreversibili.
    Il cristiano della Bibbia è essenzialmente un cristiano della speranza, ossia della «crisi» e del «confronto». Una speranza che non nasce dalla contemplazione statica o disinteressata del reale («vada come vada, tanto ci pensa Dio»), ma si legittima e cresce «camminando con Dio», nella logica di amore, di intervento diretto a favore del povero, così come Cristo ha insegnato.

    ESSERE OGGI CRISTIANI SECONDO LA BIBBIA

    All'interno della struttura di realtà che la Bibbia propone come struttura di base, come mentalità di fondo dell'essere cristiano, si muovono diverse componenti che concretizzano il grande orizzonte. Più che contenuti si possono chiamare nuclei generatori, temi vitali da elaborare badando alla situazione di vita dei soggetti.
    Ebbene, muovendoci entro una certa comprensione del nostro tempo, come tempo postcristiano (dominato dal funzionalismo degli scopi, dalla frantumazione dei punti di riferimento, e ciononostante da una certa nostalgia metafisica), mi sembra che della Bibbia vada sottolineato il credo monoteistico, la visione messianica, l'istanza etica. Il cristiano secondo la Bibbia oggi si raccomanda come uomo monoteista, messianico, morale.
    Altri elementi vengono necessariamente taciuti, ma non esclusi. Cosí, la figura di Gesù Cristo resta essenziale luogo di raccordo e di incarnazione delle tre qualità sopradette. Ma almeno di questo si può presumere l'intangibilità: il cristiano è il discepolo di Gesù Cristo.
    Le tre caratteristiche qui messe in luce vorrebbero essere una sorta di accentuazione dentro il più organico discorso cristocentrico.

    Il cristiano, uomo di un solo Dio

    È stato notato come oggi la tensione non si ponga tanto, o soltanto, fra credenti e atei, ma fra monoteisti e idolatri.
    In altri termini, sotto l'enorme spinta della pressione sociale (mass-media) si rinnova un rigonfiamento così intenso dei desideri da far sí che le risposte proposte siano elevate a vere e proprie forme aggiornate di «vitello d'oro», di idoli che assumono il ruolo di Dio e hanno come tali il potere di riempire, apparentemente, la vita.
    Sia la disponibilità economica, sia quella politica o quella ideologica; si manifesti in accontentamenti di basso profilo (l'edonismo in qualche sua forma) o sotto il manto di elaborati sistemi radicali di significato, fra i quali l'omologazione del diverso come principio di verità insindacabile, in ogni caso l'idolo è li a coprire un cattivo uso della razionalità (che pur si dice di voler adoperare spregiudicatamente), la quale, se accolta in verità, avrebbe dentro di sé un categorico richiamo al senso del limite, anzi della miseria del povero uomo da solo.
    Ora, quasi per simmetrica contrapposizione, ci viene proprio dalla Bibbia un vigorosissimo richiamo al Dio uno (Deut 6,4), ed è Jahvé. Il Deuteronomio, il profetismo (specialmente il II Isaia), molti salmi hanno affermazioni irresistibili a questo scopo Siamo anche oggi in epoca di baalismo diffuso, di culto della fecondità o produttività, con una rilevante componente erotica che ci riporta in misura stupefacente alle denuncie violente di Elia e di Osea.
    Il monoteismo a questo punto non appare come posizione del Dio unico da costatare dentro la religione biblica. E piuttosto affermazione di contestazione.
    Risuona ultimamente come salvezza dell'uomo, nel momento che lo critica senza pietà, perché da semplice mortale, fatto di argilla, osa farsi Dio, vivendo sproporzionatamente la propria condizione creaturale.
    È il dramma della Genesi, che essendo così posto come primo libro della Bibbia, fa da solenne profezia per tutto il defluire della storia. E a quanto pare, gli idolatri sotto tutti i cieli e in tutte le forme non sembrano siano stati capaci di vincere il male.
    Il Dio solo, di cui si parla, andrà evidentemente identificato secondo la rivelazione, di cui Gesù di Nazareth è il vertice. Ma il suo volto sarà sempre protetto dal solenne precetto: «Non avrai altro Dio all'infuori di me» (Er 20, 2s).

    Il cristiano, uomo messianico

    Se il monoteismo afferma la verticale religiosa dell'uomo, che è l'unica perché corrisponde a Dio che è unico, il messianismo biblico è il modo di concepire l'appuntamento con Dio: anzitutto che esiste un incontro con Lui, l'Inaccessibile, qui nella nostra storia, e che tale incontro si manifesta per segni sacramentali di salvezza, di giustizia e di pace, portati avanti da una figura eminente, mandata da Dio, chiamato Messia, Cristo, che è Gesù di Nazaret nel NT.
    Accettare la qualità messianica della fede è accettare di vivere nella storia, e di vivervi riconoscendo i lineamenti non del caso né della volontà di potenza dell'uomo, ma di un progetto utopico di liberazione e di pienezza di beni ( = shalom, pace) che Dio mette in essere come un seme sulla soglia della storia umana, con la promessa che avrà frutto definitivo nel futuro escatologico, ma che già da ora si evidenzia in alcuni anticipi, imperfetti, ma reali.
    La vita di Gesù di Nazareth, i molteplici segni da lui compiuti verso i poveri, testificano un orientamento di marcia del tutto evidente al proposito. Il cristiano in un mondo fatto di prigionieri, ciechi, zoppi, lebbrosi, morti, poveri, sente di portare nel suo stesso nome una qualifica impegnativa, quella che storicamente sembra dare ancora chance contro l'irrisione dolorosa del mondo. Si riconosce come uno di Cristo, un seguace del Messia, un uomo messianico, che come Gesù di Nazareth di fronte ai derelitti annuncia di essere venuto a portare il lieto annuncio della liberazione (Lc 4,16ss).
    Alla fame di funzionalità del mondo, il cristiano oggi non risponde con la pigrizia dell'indifferenza o dell'ignavia, magari contrabbandandola come contemplazione, o come contemptus mundi, ma con un'altra funzionalità più radicale e quindi più efficace: i segni e le opere messianiche di Gesù detto il Cristo. Non è un'impresa facile, ma è comandata e resa possibile dalla sequela del Maestro.
    Come si sa, ha di mira l'uomo, non le cose: curare l'uomo in nome della decisione di Dio di fare del mondo il suo Regno. Il messianismo dovrà pure farsi intervento «politico», partecipazione all'esperienza... Tutte implicanze di notevole valore e gravità. «Dimmi che segni fai, ti dirò che cristiano sei». «Avevo fame e mi avete dato da mangiare ... » (Mt 25, 35).

    Il cristiano, uomo morale

    Il Dio unico della Bibbia è un Dio eminentemente morale. Può salire alla sua santa montagna, entrare nel santuario davanti al suo volto non tanto chi fa impeccabili gesti rituali, ma chi ha «mani innocenti e cuore puro» (Sal 15).
    L'intenzionalità messianica di Dio è di coltivare l'uomo a partire dal suo cuore, dal suo io profondo (cf Ez 36, 26). Nel testo citato di Ezechiele vi è proprio una stretta connessione tra la «purificazione» o sterminio degli «idoli» e il dono del «cuore nuovo», dello «spirito nuovo», del nuovo principio vitale. In tal modo il popolo potrà «vivere secondo gli statuti di Dio», con una specifica condanna di ogni «spargimento di sangue» (cf Ez 36, 16ss).
    Non tocca qui esporre le caratteristiche di una morale cristiana, ma sottolineare, in un mondo frammentato nei suoi valori, come per la Bibbia l'uomo è religioso e gradito a Dio quando il bene, secondo parametri oggettivi, viene conosciuto e liberamente praticato.
    Due codici autorevolissimi lo testimoniano, da Gesù Cristo avallati e perfezionati: i dieci comandamenti e il discorso della montagna. Sarà facile cogliere che la casistica ivi espressa sottostà ad una ispirazione unitaria; l'agape che avvolge Dio e il prossimo senza fratture.
    È anche facile come i problemi più assillanti e drammatici del nostro tempo, dalla fame alla minaccia nucleare, dall'oppressione dei poveri all'inquinamento dell'ambiente, trovino nell'orizzonte biblico non delle ricette precise, ma un comando, motivato dallo stesso amore di Dio di porre tutte le umane risorse affinché, sostenute dal medesimo amore, giungano a concrete azioni risolutrici.
    La salvezza di fatto, per scelta di Dio, passa normalmente per via etica, ossia grazie a quanto l'uomo intende impegnarsi a favore della vita secondo l'ampiezza e la profondità del volere di Dio medesimo.


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