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    Autonomia e maturità dell'esistenza cristiana



    Luis A. Gallo

    (NPG 1990-05-32)


    La tematica che affrontiamo pone in partenza una grossa domanda: cosa intendiamo per «fede adulta»? Tra le molte possibilità di risposta ne scelgo due, che mi sembra possono aiutare la nostra riflessione.
    La prima: fede adulta significa un'esistenza cristiana autodeterminata, autonoma, che si regge sui propri piedi.
    La seconda: fede adulta significa un'esistenza cristiana matura.
    In tutte e due l'aggettivo «adulta» si contrappone a «infantile»: nella prima, si contrappone a infantile nel senso di eterodeterminato, di incapace di reggersi sui propri piedi; nella seconda, a infantile nel senso di immaturo.
    Cercherò di esplicitare successivamente tutti e due questi significati della fede adulta, facendo vedere poi come si possono rapportare tra di loro in questo concreto momento della storia.

    LA FEDE ADULTA COME «ESISTENZA CRISTIANA CHE SI REGGE SUI PROPRI PIEDI»

    L'acuta sensibilità - direi quasi la gelosa suscettibilità - per un'esistenza umana «adulta», è un retaggio della modernità, figlia a sua volta dell'Illuminismo.
    Ed è una preziosa stupenda eredità.
    Essa ha messo l'uomo come soggetto al centro, sottraendolo dalla situazione di oggettivizzazione infantilizzante in cui era stato per secoli tanto nell'ambito umano quanto - e forse ancora di più - in quello religioso e cristiano.
    Ha posto l'uomo «sui suoi piedi».
    Come quando il bambino, abbandonate le sicurezze materne, inizia a camminare da se stesso.
    Gli ha dato la possibilità di emanciparsi, di diventare adulto, di decidere da sé, in base alle sue capacità di ragione critica.
    Non è il caso di soffermarsi a ricordare come si sia originato e sviluppato questo processo. È sufficientemente noto a tutti.
    Come più di uno riconosce, questa tendenza della modernità alla «adultità» è un'eredità che risente l'influsso del cristianesimo sulla cultura occidentale.
    In altre parole: è in gran parte figlia del vangelo.

    «Infanzia spirituale» e sequela da adulti

    A dire il vero, il vangelo loda più di una volta i bambini. Li propone anzi come modello di esistenza per il Regno: «Se non ritornerete come bambini, non entrerete nel Regno dei cieli» (Mt 18,3); «di essi [dei bambini] è il Regno di Dio» (Mt 19,21).
    Su questi testi, e su altri ad essi simili, si è fondata la cosiddetta «infanzia spirituale», di cui abbiamo avuto un magnifico esempio alla fine del secolo scorso in S. Teresa di Lisieux. Una spiritualità che fa leva sulla fiducia illimitata verso Dio, visto soprattutto come Padre, come Amore incondizionato e gratuito.
    Il cristiano è chiamato ad essere, da questo punto di vista, un «in-fante», ossia come un bambino che balbetta appena, ma con estrema fiducia e confidenza, il nome del suo Padre.
    Questo dato indiscutibilmente evangelico non elimina però un altro, ugualmente indiscutibile: i seguaci di Gesù sono chiamati a vivere alla sua sequela da adulti.
    Negli scritti neotestamentari è soprattutto Paolo ad insistere su questa idea.
    Ecco, per esempio, il rimprovero rivolto, nella sua prima lettera, ai cristiani di Corinto: «Io, fratelli, non potrei parlare a voi come a uomini spirituali, ma [...] come a bambini in Cristo. Vi dovetti dare del latte a bere e non del cibo solido, perché non lo potevate ricevere» (1 Cor 3,2).
    L'infanzia è qui collegata alla «condizione carnale» dei Corinzi, manifestata nel fatto delle gelosie e delle contese operanti in seno alla loro comunità. Ma sullo sfondo c'è l'idea di un richiamo a non vivere da bambini in Cristo. Quindi, a vivere da adulti.
    Verso la fine di questa stessa lettera li esorta, infatti, a saper distinguere tra infanzia e infanzia: «Fratelli, non siate fanciulli nel giudicare, ma fatevi bambini nella malizia e uomini maturi nel giudicare» (14,20).
    L'idea è più chiara ancora nella lettera ai Galati. Paolo vi polemizza con i giudaizzanti: quelli che hanno fatto dell'osservanza alla legge, e non di Cristo, la fonte della salvezza.
    In tale contesto, dice: «Ora io aggiungo: l'erede, per tutto il tempo che è minorenne, pur essendo padrone di tutto, non differisce dallo schiavo, ma rimane sotto i tutori e gli amministratori fino al tempo prestabilito dal padre. Così anche noi, quando eravamo bambini, eravamo sotto la schiavitù degli elementi del mondo; ma quando giunse la pienezza dei tempi, Dio mandò suo Figlio [...] affinché riscattasse quelli che erano soggetti alla legge [...]. Sicché tu non sei più servo, ma figlio» (4,1-7).
    La dialettica tra servitù e figliolanza è chiarissima in questo testo. Come lo sono anche l'equivalenza tra infanzia e schiavitù e la vocazione dell'uomo alla libertà, ossia a vivere davanti a Dio da maggiorenne.

    L'agire nella libertà di Gesù

    Paolo non aveva inventato tutto ciò. Lo aveva imparato da Gesù stesso.
    Infatti, nei vangeli troviamo frequenti tracce del modo di agire di Gesù in questa linea, e delle sue proposte ad agire in essa.
    Che Gesù abbia condotto un'esistenza piena di una radicale fiducia e anche di una estrema confidenza nei confronti di Dio, lo dimostra sufficientemente l'espressione - una delle «stessissime parole» sue - con cui si rivolgeva a Lui nella preghiera: «Abbà». Ce ne hanno conservato il ricordo alcuni importanti testi neotestamentari (Mc 16,34; Rom 8,5; Gal 4,16).
    È un'espressione che, una volta conosciuto il significato che aveva nel linguaggio dialettale del suo popolo e del suo tempo, appare come la manifestazione più trasparente di un atteggiamento di bambino nei confronti di Dio. Essa svela il fondo stesso della psicologia umana di Gesù, la sua atmosfera interiore.
    Ma in nessun momento, durante la sua attività, Gesù appare come un minorenne.
    Non lo era anagraficamente: il vangelo di Luca dice che egli aveva circa trent'anni quando iniziò la sua missione (Lc 3,23). E a quell'epoca trent'anni era certamente l'età di un uomo adulto.
    Ma soprattutto non lo era esistenzialmente. Egli appare nei vangeli come uno che agisce con un'autonomia impressionante nei confronti della legge, dei dogmi, delle tradizioni, delle istituzioni religiose, culturali e politiche del suo popolo. Era un «uomo libero» (Ch. Duquoc).
    Basta, per convincersene, esaminare il suo rapporto con la legge di Mosé che regolava la vita comunitaria e personale del suo popolo.
    Per esempio, il suo modo di comportarsi nei confronti della prescrizione del riposo sabbatico: benché ordinariamente la rispetti, non ha nessun impaccio nell'infrangerla quando esigenze ragionevoli lo richiedano.
    In realtà, come sappiamo, non è che la infranga. Ciò che fa è portare a compimento la ragione profonda di tale prescrizione: la possibilità di vita per l'uomo.
    Un altro esempio è la sua maniera di agire nei confronti della legge della purità legale, così pesantemente presente nella vita del popolo: non ne fa il minimo caso quando ci va di mezzo il bene delle persone. Così, per esempio, quando si trova davanti al lebbroso che gli chiede di venir guarito (Mc 1,40-42), o della donna che pativa flussi di sangue che gli tocca di nascosto il mantello per ottenere la liberazione della sua condizione umiliante (Mc 5,25-34).
    Ci sono due casi molto impressionanti da questo punto di vista: la guarigione dell'uomo della mano paralitica (Mc 3,1-6), e quella della donna curva da diciotto anni (Lc 13, 10-16). In tutti e due si vede chiaramente la sovrana libertà con cui Gesù agisce nei confronti della legge del sabato. La liberazione delle persone dal giogo che le opprime è per lui anteriore e più importante di ogni osservanza legale.
    Forse può sorgere una difficoltà a questo riguardo: è quella dell'obbedienza di Gesù a Dio.
    Ne parlano alcuni testi neotestamentari. Per esempio, il conosciuto inno della lettera paolina ai Filippesi (2,6-11). Vi si dice che egli si fece ubbidiente fino alla morte, e alla morte di croce.
    E in quella agli Ebrei si sostiene che egli imparò, da ciò che dovette soffrire, l'obbedienza (5,8).
    Testi come questi, letti poi alla luce di una determinata esperienza culturale, possono portare a pensare a Gesù come quasi infantilmente sottomesso a un volere divino che lo sovrasta.
    L'insieme di ciò che cogliamo nei vangeli non ci permette però di fare una lettura di questo genere, pur se spesso è stata fatta.
    Egli non si sottomette ciecamente ad una volontà imperiosa del Padre. La sua morte è invece l'espressione ultima della sua totale coerenza con un progetto lucidamente abbracciato: il regno di Dio come convivenza veramente fraterna tra gli uomini. Benché decisa dall'ottusità e dalla cattiveria dei potenti del suo popolo, la sua morte non è una fatalità ma, da parte sua, un atto di libera decisione. «Io do la mia vita [...]. Nessuno me la toglie, ma la do io da me stesso», gli fa dire il vangelo di Giovanni (10, 17-18).

    Il discepolo «adulto»

    Sappiamo inoltre dai vangeli che Gesù non solo visse in questo modo, ma che invitò anche i suoi discepoli a fare altrettanto. Il solo fatto di vivere da adulto davanti ad essi, senza nascondere la sua condotta emancipata, è molto significativo.
    Alcuni manoscritti antichi hanno conservato un brevissimo racconto che esprime molto bene questo suo modo di procedere. Si narra in esso che egli incontrò un uomo che arava il campo di sabato e, rivolgendosi a lui, gli disse: «O uomo, se sai ciò che stai facendo, benedetto tu sia; se invece non lo sai, sia tu maledetto».
    Al di là del linguaggio un po' strano, una cosa appare con chiarezza: la condizione perché l'azione compiuta da quell'uomo, in evidente contraddizione con la prescrizione del riposo sabbatico esigito dalla legge, sia benedizione, è che egli «sappia» ciò che fa; ossia che sia conscio del senso profondo di ciò che sta facendo, una consapevolezza che sola può rendere libero dalla legge.
    Aveva bene afferrato quest'orientamento evangelico S. Tommaso d'Aquino quando, nel commento alla seconda lettera ai Corinzi, affermava: «Chi evita un male non perché è un male, ma in ragione di un precetto del Signore, non è libero» (Comm. in 2Cor 3,17). Poteva dire equivalentemente: «questi non è adulto».
    Vista alla luce di questi dati, quindi, l'aspirazione fondamentale di tutta la modernità all'emancipazione e all'autonomia dell'uomo da tutto ciò che lo può rendere minorenne, non è in realtà un grido di ribellione contro il vangelo di Gesù Cristo. Anzi, esprime una delle sue linee di tendenza essenziali.
    Non si possono certamente ignorare le ottusità che, più o meno colpevolmente, hanno portato lungo i secoli alcuni uomini di Chiesa a osteggiare una tale aspirazione.
    Si potrebbero citare anche documenti importanti del magistero della Chiesa, specialmente del secolo scorso, in questo senso: essi hanno voluto arginare ad ogni costo l'avanzare di quest'aspirazione, giudicata pericolosa o addirittura antievangelica. Non si può neanche negare che un certo modo di proporre o anche di imporre la fede cristiana in passato - anche nel presente? o «di nuovo» nel presente? - ha portato e porta i cristiani a vivere la loro esistenza di credenti in certo qual modo da minorenni, incapaci di autodeterminazione.
    Non certo i grandi o piccoli veri credenti che sono stati sempre capaci di «non rimanere sotto i tutori e gli amministratori», come diceva Paolo ai Galati. Ma tantissimi altri uomini e donne che sono vissuti o vivono senza crescere nella fede, prolungando magari fino alla fine dei loro giorni il tempo «in cui l'erede è bambino». E hanno perfino difeso un tale modo di vedere le cose appellandosi ai richiami del vangelo.
    Tuttavia, ciò non può portare a dimenticare le istanze genuinamente evangeliche a vivere un'esistenza credente da «figli adulti» e non da servi.

    Un Dio che «mette in piedi»

    La brama di autonomia e di emancipazione della modernità occidentale trova un «complice» nel vangelo di Gesù Cristo. Un vangelo che provoca l'uomo a vivere da maggiorenne alla presenza di Dio. Appunto perché si tratta di un Dio che sin dagli inizi della sua storia con gli uomini si è rivelato come Colui che spezza i gioghi e fa camminare il suo popolo «a testa alta» (Lv 26,13). Un Dio, quindi, che «mette in piedi».
    Il vangelo è, quindi, senz'altro una proposta emancipatrice. Lo è però con una propria originalità. È su questo che vorrei ora richiamare l'attenzione. Perché non sempre né dappertutto tale originalità è stata tenuta presente dalla modernità occidentale.
    Ed è probabilmente questa la causa per la quale essa è andata accompagnata da innegabili «effetti perversi». Innegabili almeno per chi «ha occhi per vedere».
    Ne sanno qualcosa i paesi poveri del mondo. Essi sono impediti di accedere alla propria autonomia e alla propria autodeterminazione dall'incontenibile corsa all'emancipazione dei paesi ricchi e sempre più benestanti. Quelli, precisamente, che hanno fatto della soggettività e quindi dell'emancipazione la loro bandiera.
    In parole più chiare: il mondo occidentale diventa adulto, padrone delle sue decisioni economiche, sociali, politiche, culturali e anche religiose, a spese della non padronanza delle proprie decisioni dei paesi poveri in quelli stessi ambiti. Le decisioni che riguardano i destini di questi ultimi sono prese in larga misura altrove, e spesso contro i loro genuini interessi.
    Le teologie, le pastorali e le catechesi rinnovate del mondo occidentale hanno raccolto - finalmente, e a dire il vero, con abbastanza ritardo - le sfide della modernità.
    Si sono impegnate a dare una risposta. Sono riuscite a far camminare la fede verso una vera emancipazione da tanti gioghi del passato: leggi, canoni, tradizioni dottrinali e pratiche... Hanno anzi convertito la stessa fede in un magnifico strumento di emancipazione. L'hanno fatta diventare adulta.
    Gli effetti sono stati ammirevoli. Il Vaticano II è stato il luogo privilegiato dove tali effetti si sono manifestati a livello di Chiesa universale.
    C'è da domandarsi, tuttavia, se esse hanno conservato in tutto ciò l'originalità propria del vangelo di Gesù nella sua proposta di esistenza adulta davanti a Dio e agli uomini
    Se la loro emancipazione non comporta e non favorisce anche quegli effetti perversi dei quali si è sopra parlato.

    LA FEDE ADULTA COME ESISTENZA CRISTIANA MATURA

    È importante quindi chiedersi, a questo punto, in che cosa consista essere maturi nella fede alla luce del vangelo.
    Credo che la cosa migliore per cercare una risposta a questa domanda, sia quella di «fissare lo sguardo» (Eb 12,2) sulla «nuvola di testimoni» che di questa fede sono vissuti: i grandi credenti che ci mette davanti agli occhi la Bibbia e, soprattutto, come è evidente, colui che ne è «l'autore e il realizzatore in pienezza» (Eb 12,2), Gesù Cristo.

    Gli antecedenti

    Nell'Antico Testamento, uno di questi testimoni viene presentato come il credente per eccellenza: Abramo.
    C'è senz'altro molto di simbolico nella sua figura. Ma forse è precisamente per questo che ci è più utile.
    Egli, dice di lui la Bibbia, «credette, e ciò gli fu imputato a giustizia» (Gen 15,6; Rom 4,3.22).
    In che cosa consistette la sua fede? Abramo viene presentato come un uomo che è alle prese con la morte: non ha terra propria, non ha sicurezza contro i suoi assalitori e, soprattutto, non ha figli. Per un uomo di allora non avere figli, e soprattutto figli maschi, era sinonimo di non-sopravvivenza, quindi di morte. I figli costituivano, in definitiva, la vittoria sulla morte.
    Dio irrompe nella vita di quest'uomo per aprirgli un orizzonte di speranza e di vita. Non solo di vita, ma di vita straripante: io ti darò questa terra (Gen 12, 7; 13, 15), io sarò il tuo scudo (Gen 12,3; 15,1), i tuoi figli non si potranno contare, saranno più numerosi delle stelle del cielo (Gen 15,5) e della polvere della terra (Gen 13,17).
    Abramo si sente descrivere l'impossibile. È un seminomade errante sotto tende per i deserti, senza neppure un palmo di terra propria, a mercé delle bande di assalitori impietosi, anziano, e con una moglie sterile. E gli si promette terra, sicurezza e protezione, e soprattutto discendenza innumerevole.
    Egli crede, sulla Parola del suo Dio, che quell'impossibile è possibile.
    E non solo crede in cuor suo ma, in forza di quella parola-promessa ascoltata, «si mette in cammino» (Gen 12,4), alla ricerca del futuro e della vita.
    Poi Dio mette alla prova la sua fede. Gli chiede di sacrificare il figlio della promessa, quel figlio che avrebbe reso possibile l'impossibile sua vittoria sulla morte.
    Ed Abramo si accinge a realizzare il sacrificio (Gen 22,1-19). Commenta l'autore della lettera agli Ebrei: «Egli era convinto che Dio è tanto potente da risuscitare anche i morti» (11,19).
    Ecco un modello di fede che, in qualche modo, compendia l'intera esperienza di fede dell'Antico Testamento.
    Si potrebbero elencare tantissimi altri casi che coincidono sostanzialmente con quello di Abramo, «il nostro padre nella fede» (Rom 4,11). Mosè, Davide, Geremia, Maria la madre di Gesù.
    Si potrebbe soprattutto esaminare la fede dell'intero popolo nel momento della sua necessità, l'esperienza dell'esodo dall'Egitto. In tale momento esso manifesta di avere una fede simile a quella di Abramo; crede, aggrappandosi al suo Dio Jahvè, e alla sua parola-promessa comunicatagli per mezzo di Mosè, che l'impossibile futuro di libertà e di vita è possibile, nonostante tutte le circostanze avverse che dicono il contrario. E si mette in movimento per conquistarla.
    La sua fede si esprime in questo suo camminare nella direzione dell'impossibile per farlo diventare possibile.

    «Colui che ha portato a maturità totale la fede»

    La lettera agli Ebrei dice che Gesù è «colui che ha portato a pienezza la nostra fede» (12,2). Potremmo tradurre questa affermazione così: Gesù è colui che ha vissuto per primo e in pienezza una fede matura; è il primo pienamente e maturamente credente.
    Un'affermazione del genere avrebbe dato delle preoccupazioni qualche tempo fa (forse le dà ancora a qualcuno) a più di un teologo.
    Una certa concezione della fede in chiave prevalentemente intellettualistica faceva formalmente di essa un'adesione della mente a delle verità irraggiungibili di per sé con le sole capacità umane (cf Vaticano I).
    A ciò si aggiungeva un'impostazione cristologica che accentuava unilateralmente la divinità di Gesù, a scapito della sua vera e reale consistenza umana.
    Tutto ciò portava a concludere che Gesù non poteva essere un credente, non poteva avere la fede. Se si affermava perfino di lui che già durante la sua vita terrena aveva la «visione beatifica», come si poteva ciò conciliare con la fede? Tipico caso di una teologia costruita a spalle del dato biblico.
    Se invece ci lasciamo guidare dai vangeli, letti sullo sfondo della grande esperienza di fede dell'Antico Testamento, siamo portati a constatare che Gesù si colloca nitidamente nella linea dei grandi credenti che lo precedettero, portando gusta fede alla sua maturità piena.
    Per cogliere cosa intende lui per fede, è indispensabile tener presente il quadro globale di riferimento nel quale si colloca la sua esistenza e la sua attività.
    Lo sappiamo: è la causa del regno di Dio. Un regno di Dio che, come si è avuto occasione di chiarire più di una volta, consiste concretamente nella pienezza di vita degli uomini E poiché la morte regna nei corpi, nella psiche, nel cuore, nei rapporti e nelle strutture sociali, economiche, politiche, religiose degli uomini, la causa del regno di Dio converte Gesù in terapeuta, in esorcista, in perdonatore dei peccati, in denunciatore dei rapporti e delle strutture antifraterne.
    Perché ama appassionatamente, come suo Padre, la pienezza di vita degli uomini, egli ama la loro salute, la loro serenità, ama la loro fraternità e la giustizia.
    Vuole la trasformazione di tutto ciò che a questa pienezza si oppone, sia negli individui sia nella società.
    Gesù vive di questo e per questo. Ogni suo pensiero, ogni sua parola, ogni sua azione sono ispirati a questa causa e si orientano alla sua realizzazione.
    È all'interno di quest'orizzonte che egli parla spesso della fede.
    Più di una volta troviamo nei vangeli esortazioni simili a questa: «In verità vi dico: se avrete fede quanto un granello di senapa, direte a questo monte: 'Spostati di qua a là', ed esso si sposterà; e niente vi sarà impossibile» (Mt 17,20).
    È interessante la circostanza in cui pronuncia queste parole; ha dovuto espellere la morte che si annidava nella psiche e nel corpo di un ragazzo epilettico, ha restituito quel ragazzo alla vita e alla gioia di suo padre, ha fatto regnare Dio dove regnava la morte; i suoi discepoli non hanno potuto farlo perché sono «una generazione incredula» (Mt 17,17). Al padre del ragazzo, che lo supplicava di guarire il suo figlio, egli disse: «Tutto è possibile a chi crede» (Mc 8,23).
    Troviamo pure le lodi che egli rivolge a chi, dentro o fuori d'Israele, dimostra di avere fede in ciò che lui appassionatamente e ostinatamente persegue.
    La donna cananea crede, nonostante tutto, che egli può restituire la salute alla sua figlia; il centurione romano crede, pur non essendo giudeo, che egli può espellere la morte dal corpo del suo servo; la peccatrice che gli bagna i piedi con le sue lacrime crede, nonostante la sua condizione d'impurità legale praticamente insuperabile, che egli può liberarla e restituirla alla sua dignità; la donna vittima dei flussi di sangue crede, al di là della sua condizione di impurità, che la forza vivificante di Gesù può cambiare radicalmente la sua situazione di malattia e di emarginazione...
    Sono tutti casi in cui qualcuno agisce sotto la spinta della ferma convinzione che ciò che sembra realmente impossibile - in concreto, il superamento della morte - può diventare possibile. E Gesù dice sempre loro: «La tua fede ti ha salvato».
    Ma ancora più impressionanti di queste sue parole è il suo modo di comportarsi: egli dimostra di essere profondamente convinto che, malgrado tutta la cruda realtà con cui è a contatto, la vittoria della vita sulla morte, del bene sul male, della giustizia sull'ingiustizia è possibile. E questa convinzione lo porta anche a giocarsi la propria vita per la causa abbracciata.
    Egli sa per esempio che il lebbroso è un morto che cammina; sa che oltre alla morte corporale agiscono in lui la morte psichica, sociale, e perfino religiosa. Ma è profondamente convinto che la vita è più forte della morte. E lo guarisce (Mc 1,40-41).
    L'intensità della sua convinzione, fondata nel suo intimo rapporto con il Dio della vita, fa possibile la sua vittoria sulla morte.
    Uno dei casi più impressionanti, da questo punto di vista, è quello della guarigione dell'indemoniato di Gerasa (Mc 5,1-10): l'indomabile forza di morte che si annida in quell'uomo, espressa attraverso la figura plastica dei duemila porci che annegano nel lago, viene annientata dalla parola piena di forza vivificante di Gesù: «Esci da quest'uomo!». Egli ha più forza che la legione che abita l'uomo. La sua forza gli viene dalla sua profonda certezza nella potenza della vita.
    Gesù sa bene, ancora, che la sua proposta di trasformazione dei rapporti interpersonali e sociali, affinché ci possa essere vita per tutti, cozza con mille ostacoli: l'egoismo radicato nel cuore degli uomini, l'attaccamento alla propria situazione di privilegio da parte di coloro che li possiedono, il peso dei condizionamenti culturali ancestrali, la stupidità che spesso impedisce di cogliere il vero senso delle cose, ecc. Eppure non cessa di agire proponendo, con le parole e con la condotta, l'invito a cambiare.
    Notevole, in questo contesto, il suo modo di affrontare i conflitti esistenti nella società del suo tempo. Sono tutti conflitti che creano emarginazione: dei cosiddetti peccatori, da parte dei sedicenti giusti; dei poveri, da parte dei ricchi e potenti; delle donne, da parte degli uomini Peccatori, poveri, donne sono tutti esseri umani più o meno radicalmente deprivati dalla loro soggettività e dalla loro possibilità di autodecisione, e ridotti ad oggetti manipolati da altri.
    Gesù è lucido davanti a questa situazione. Il suo appassionato amore per la vita della gente concreta lo rende perspicace e acuto: sa che in questi rapporti si annida la morte. E lotta. Tutto - atteggiamenti delle persone, abitudini secolari, strutture inveterate, ecc. - sembra rendere impossibile la trasformazione. Ma egli crede. E agisce, inventa, trasgredisce, scuote.
    Sappiamo che in fondo sta qui la causa storica della sua morte in croce. Le forze reali della morte si sono accomunate contro di lui cercando di eliminarlo. E ci sono riuscite. Almeno per il momento. Ed è precisamente allora che la sua fede si è manifestata in tutta la sua maturità: come Abramo, «ha sperato contro ogni speranza» (Rom 4,18), ha tenuto fermo alla sua profonda convinzione sull'invincibile forza della vita.
    Così, la sua morte in croce è stata la suprema espressione della sua fede: non ha ritenuto avidamente per sé la sua vita, ma l'ha data per la causa della vita di tutti, e specialmente di quelli che ne sono più privi.

    FEDE ADULTA O FEDE MATURA?

    Arrivati a questo punto dobbiamo riprendere brevemente il filo del nostro discorso iniziale.
    Ci interessava chiarire in che cosa consistesse una fede adulta. Abbiamo cercato di descriverla alla luce del grande movimento di emancipazione provocato dalla modernità. Un dato genuinamente evangelico, dicevamo, ma realizzato storicamente in forma non sufficientemente evangelica.
    Abbiamo allora interpellato il Vangelo per cercare di scoprire in esso in che cosa consiste la maturità della fede. Ci è venuto incontro la stupenda figura del credente per eccellenza, l'uomo della fede veramente matura, Gesù Cristo.
    Come coniugare ora le due cose? Penso così: riprendendo ciò che è valido nel movimento d'emancipazione della modernità occidentale, e ripensandolo alla luce della proposta globale di Gesù.
    Cosa ne risulta?
    Questo: l'emancipazione o «adultità», che è una forma storica concreta del trionfo della vita sulla morte, non va cercata mai egoisticamente, creando marginalità ed esclusione-, ma sempre il più comunionalmente possibile. E ciò in ogni ambito, dal più ristretto al più largo. Fino ad abbracciare il mondo intero.
    Concretamente ciò significa, anzitutto, che le teologie e le pastorali e le catechesi occidentali dovrebbero aiutare a prendere coscienza della situazione a cui ha portato l'appassionata ricerca di autonomia della modernità, a evidenziare naturalmente il suo risvolto evangelico, ma anche quello non-evangelico.
    Altrimenti esse continueranno, consapevolmente o no, a favorire un'emancipazione collettivamente egoistica e addirittura tracotante. In definitiva mortificante e non vivificante per milioni e milioni di esseri umani, i più poveri e deboli precisamente, quelli cioè di cui si occupò con prioritaria cura Gesù di Nazareth.
    E significa anche - ed è più importante ancora - che esse dovrebbero aiutare i cristiani, giovani o adulti che siano anagraficamente parlando, a maturare la loro fede in questa direzione.
    A dire il vero, esse hanno già collaborato a superare una concezione di fede di tipo prevalentemente intellettualistico; hanno già contribuito anche, e malgrado tante difficoltà incontrate su questa strada nella stessa Chiesa, a fare che i credenti «si reggessero sui propri piedi», liberandosi sempre più decisamente dalle tutele precedenti.
    Ora hanno davanti questa nuova sfida: fare in modo che questo reggersi sui propri piedi non sia riservato solo al mondo occidentale, ma possa essere condiviso da tutti gli uomini e le donne del mondo.


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