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    I temi negati dell’educazione /7

    Mario Pollo

    (NPG 2011-08-61)


    PER UN INTERVENTO EDUCATIVO: L’ANIMAZIONE COME PREVENZIONE

    Il verbo «prevenire» ha sempre avuto nella lingua italiana, a cominciare da Dante, il significato di anticipare, di venire avanti, di fare prima ciò che altri voleva fare o di prendere tali precauzioni da impedire che avvenga checchessia. Il significato più antico, aureo, del verbo prevenire e, quindi, del sostantivo «prevenzione», è attribuibile ad ogni azione che ne renda impossibile un’altra o che, semplicemente, la anticipi.[1]
    Nel caso della tossicodipendenza la prevenzione è sempre stata intesa nel senso di un intervento sulle persone non dipendenti dalle droghe e sull’ambiente finalizzato ad anticipare un evento patogeno, il consumo delle droghe, impedendo che esso si verifichi.[2]

    Non solo «prevenzione»

    Questa concezione di prevenzione, tipicamente sanitaria, si fonda su un modello causale perché presuppone che si conoscano le «cause» che conducono le persone a consumare le droghe e che, quindi, si possa intervenire preventivamente su di esse.
    Purtroppo questo modello così elegante nella sua semplicità e linearità è assai difficilmente applicabile alla prevenzione di un fenomeno complesso come la tossicodipendenza, per il quale non esistono modelli di spiegazione causali semplici. Ma non solo, occorre anche sottolineare che questo tipo di approccio non tiene conto delle interazioni complesse che esistono tra le varie dimensioni che sono alla base del consumo delle droghe da parte di una persona. Non tiene conto, ad esempio, dell’interazione tra l’organismo e la dimensione spirituale.
    Questa constatazione ha portato nel tempo allo sviluppo di una concezione della prevenzione come promozione/educazione. Dove la parola «promozione» indica l’azione di sostegno a che la persona sviluppi il proprio potenziale umano e apprenda modalità utili a fare fronte ai bisogni secondo le proprie aspirazioni, in qualunque condizione psicofisica essa si trovi.[3]
    La promozione, secondo quest’accezione, viene, di fatto, a coincidere con l’educazione.
    Nonostante questa deriva della prevenzione verso l’educazione, sono rimaste nella teorizzazione e nella pratica sociale e sanitaria concezioni specifiche di prevenzione molto articolate e differenziate che ignorano la prevenzione come educazione, essendo prigioniere dei modelli causali, o che cercano di ridurla all’interno di forme di prevenzione che sono definite «aspecifiche». In queste ultime concezioni si può leggere il rifiuto di considerare la prevenzione come un’azione in positivo perché si preferisce pensarla a partire dal negativo, a partire cioè da ciò che occorre evitare affinché la persona non cada vittima della droga.
    In questa concezione c’è, di fatto, un rifiuto dell’educazione perché, come è oramai ampiamente acquisito, è profondamente sbagliato impostare qualsiasi processo educativo su una opzione negativa. In altre parole non si deve educare una persona a non fare qualcosa ma, bensì, a fare qualcosa. Infatti, l’educazione è efficace solo se è svolta in positivo, solo se si pone l’obiettivo di aiutare la persona a crescere, a realizzare il più compiutamente possibile un proprio personale progetto di vita. Progetto al cui interno non c’è spazio, anzi c’è un coerente rifiuto, per i comportamenti che possono condurre alla tossicodipendenza.

    Per una strategia formativa propositiva

    Il tema della prevenzione non può, quindi, essere isolato dal contesto più complessivo di una strategia formativa che ha carattere fondamentalmente propositivo: essa per sua natura tende più a schiudere orizzonti di senso che ad imporre divieti.
    Per questo motivo il conseguimento dell’obiettivo generale dell’animazione, che consiste nella scoperta che il quotidiano – a saperlo vivere e contemplare – è uno scrigno di senso, si inscrive pienamente nella prevenzione delle tossicodipendenze.
    Questo obiettivo è raggiunto quando il giovane supera quella concezione, adolescenziale, secondo cui il senso sta di casa solo nelle avventure eroiche, eccezionali o comunque in una vita assai diversa da quella che il quotidiano offre alla gente comune. Questo perché spesso nella nostra società il quotidiano è visto come luogo della banalità da accettare con spirito di sacrificio e adattamento, senza entusiasmo, sperando che un giorno una vita enormemente più ricca, frutto magari di una illuminazione estatica, possa irrompere all’improvviso salvando dalla routine. Oppure si ha, nei confronti del quotidiano, un atteggiamento che lo considera una parentesi da vivere in apnea, in attesa dell’evasione capace di immettere la persona in un tempo particolare in cui la gioia, la felicità, se non il significato, sono a portata di mano. La vita è, cioè, percepita come uno stato di grigia monotonia in cui, solo con l’aiuto di una sostanza o di altre forme estatiche, è possibile vivere un’esperienza ricca di sensazioni e di vertigini straordinarie. Ora, se è giusto dare valore alla festa, all’avventura, all’esperienza di vita eccezionale, è però alienante fuggire il quotidiano o subirlo semplicemente senza viverlo sino in fondo. Il quotidiano, come si è appena detto, è uno scrigno di senso; basta saperlo scoprire sotto il velo di polvere che lo copre e aprire con la giusta chiave. Nessuna avventura è così affascinante come la scoperta dell’universo di senso in cui è embricato il quotidiano.
    La prevenzione vuole aiutare la persona giovane ad aprire la porta del quotidiano, facendogli scoprire la esaltante e terribile avventura che dietro le spoglie della banalità può vivere sino a ritrovare alla fine se stesso, «uomo nuovo».
    C’è un famoso racconto di Borges, L’aleph, in cui al personaggio protagonista capita di percepire in una misera fessura della scala della cantina, da cui filtra un raggio di luce, la visione simultanea del mondo nella sua interezza. Si potrebbe dire che in un banale frammento di realtà, la fessura nella scala della cantina, un uomo scopre il senso del tutto. Si tratta di un’esperienza estatica che non è frutto né della droga, né della vertigine, né del sesso, né delle costrizioni del corpo, ma della contemplazione.
    Esempi di come un frammento del reale, in circostanze particolari ed eccezionali, possa essere il veicolo di una comprensione dell’essenza più profonda della realtà, si trovano sia nell’esperienza di mistici cristiani che in quella di mistici buddisti. Per non parlare poi dell’arte. C’è un quadro di Van Gogh, «la sedia», che è esemplare da questo punto di vista. Sembra che l’autore abbia voluto condensare nell’immagine di una sedia un po’ sgangherata tutto il senso più profondo dell’universo.
    Viene in mente a questo proposito la domanda che un novizio Zen fa al suo maestro: «Che cos’è il corpo (dharma) del Buddha?». Dove l’espressione «corpo/darma del Buddha» non è che un modo per esprimere l’essenza e la divinità. Il maestro ineffabilmente risponde: «La siepe in fondo al giardino».[4] Questa risposta sta ad indicare che, a saperlo osservare, ogni particolare della realtà porta in sé un significato profondo che lo ricollega al senso del tutto.
    Questo senso del tutto l’animazione lo persegue liberando i tesori di senso che sono nascosti dalla polvere dell’abitudine, dei conformismi e delle paure profonde nella vita quotidiana, attraverso la creatività prodotta dalla conquista di una coscienza emancipata dalla dipendenza da quelle «[...] forze istintuali della vita, mostri del profondo, che incessantemente si divorano, si generano e si combattono»[5] dietro la sua rispettabile facciata, il suo disciplinato ordine morale, le sue buone intenzioni.
    Con un’immagine si può dire che la liberazione creativa del quotidiano nasce quando la persona combatte vittoriosamente contro il drago e libera la prigioniera, o scopre il tesoro, che il drago custodiva nel suo antro.
    Occorre ricordare che il drago è il simbolo «[...]delle forze impersonali presenti nel profondo della psiche umana, che nutrono e sorreggono, oppure inghiottono e distruggono, la debole e indifesa coscienza dell’uomo».[6]
    La lotta contro il drago avviene nell’uomo, oltre che nell’infanzia e nella pubertà, tutte le volte che è necessario un riorientamento della coscienza per affrontare situazioni esistenziali nuove e diverse. La prigioniera, oltre che essere un’immagine dell’anima, è anche la rappresentazione simbolica del nuovo, la cui liberazione rende possibile il progresso e lo sviluppo della condizione umana.
    L’uomo, se vuole avere un approccio creativo con la vita e se vuole continuamente costruire se stesso, deve periodicamente lottare contro il drago. La battaglia contro il drago non è vinta una volta per tutte nell’adolescenza, ma prosegue per tutta la vita.
    Le persone che smettono di combattere il drago, perché credono di aver raggiunto irreversibilmente la maturità cosciente, rischiano di regredire, oppure, più comunemente, di avere un atteggiamento passivo, acritico e conservatore nei confronti della vita.
    La lotta contro il drago, come premessa alla liberazione della coscienza e alla nascita della creatività, sottolinea il legame inscindibile che c’è tra la lotta dell’uomo contro le forze che tendono a tenerlo all’interno di una appartenenza dipendente e inconscia al mondo e la creatività stessa.
    Ma non solo. La lotta contro il drago è il segno della necessità che l’uomo ha di nutrire il proprio agire cosciente con l’energia di vita che ha sede nelle sue regioni psichiche più profonde che, se non sono trasformate creativamente, rischiano di divenire forze della distruttività.

    Un obiettivo, tre strategie

    L’animazione vuole porsi a servizio di questa lotta dell’uomo per aiutarlo a costruire la propria libertà e autonomia di essere autocosciente. Questo obiettivo generale, che si manifesta nella capacità di vivere il quotidiano con ricchezza di senso, si realizza attraverso tre strategie specifiche.
    La prima di queste strategie consiste nel sostegno del giovane nel cammino verso la scoperta e la conquista della propria individualità all’interno dello sviluppo di una appartenenza alla cultura sociale profonda e critica.
    Una appartenenza, cioè, che gli permetta di avere con la cultura un rapporto attivo, partecipe e vitale. La cultura, come si è visto, è lo strumento fondamentale per l’acquisizione della identità, e quindi della coscienza che l’essere umano civilizzato ha a disposizione.
    La seconda strategia particolare riguarda la costruzione di una socialità che, senza abolire l’autonomia e libertà individuale, faccia vivere sino in fondo il rapporto di solidarietà che unisce in un legame indissolubile gli uomini.
    Solidarietà che va al di là dei limiti spaziali e temporali che circoscrivono la vita di una persona e della società alla quale appartiene. Infatti, la solidarietà umana passa attraverso il tempo e lega tra loro anche le persone che vivono in aree geografiche e in epoche storiche diverse.
    La coscienza umana, radicata nella cultura e nella solidarietà sociale, per essere veramente evoluta deve offrirsi alla trascendenza. Questa terza strategia nasce dalla consapevolezza che, senza trascendenza, la coscienza umana rischia di condurre l’uomo a un rapporto arido con la realtà, a una ipertrofia della volontà di potenza o della disperazione esistenziale.
    L’uomo evoluto, dopo aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza, deve ritrovare l’unità con il tutto su basi nuove. Deve riconoscersi come parte di una creazione d’amore a cui, volente o nolente, appartiene.
    Queste tre strategie, che a loro volta si articolano in altre ancora più specifiche, sono nella loro interrelazione al servizio del progetto di un uomo che sa vivere con ricchezza, libertà, autonomia e, perché no, con poesia il suo essere nel mondo. Un uomo aperto, disponibile a verificarsi continuamente, a ridefinire se stesso per essere fedele ad una vita il cui senso è oltre la sua stessa persona.
    Un uomo che non si lascia trasportare dagli eventi ma che vuole, per quanto è nelle sue forze e pur riconoscendo la sua radicale dipendenza dal Dio Creatore, governare la propria vita e intervenire a modificare il corso stesso della storia a cui partecipa.
    Un uomo, cioè, che sa essere un eroe nel quotidiano, nella vita normale, perché ha scoperto che non c’è avventura più grande di quella di essere; pur tuttavia senza rinunciare, se la sorte glielo propone, a vivere con coraggio l’insolito e l’eccezio­nale.
    Quest’uomo non sperimenterà nessuna delle sette attese prima descritte nell’articolo precedente (vedi NPG 7/2011, pp. 71-80), perché saprà vivere senza dipendenze, essendo stato liberato da esse dall’accettazione della sua radicale dipendenza – che invece di renderlo schiavo lo libera – dall’amore di Dio.


    NOTE

    [1] M. Pollo, Prevenzione come educazione, in «Animazione Sociale», 28, 1990: 3-18.
    [2] P. Merenda, Educazione alla salute e scuola, Sei, Torino 1995.
    [3] M. Ingrosso, Ecologia sociale e salute. Scenari e concezioni del benessere nella società complessa, Franco Angeli, Milano 1994.
    [4] G. Tucci (a cura di), Il libro tibetano dei morti, Utet, Torino 1989.
    [5] E. Harding, L’energia psichica. La sua fonte e le sue trasformazioni, Astrolabio, Roma 1977.
    [6] Ivi.


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