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    Educatori e giovani, un rapporto nuovo



    Domenico Sigalini

    (NPG 2000-03-39)


    Il bicchiere è sempre mezzo pieno

    Se si tratta di fotografare i giovani e di constatare che sono un bicchiere solo a metà, è sicuramente mezzo pieno. Il primissimo impatto con il giovane non può che essere una dichiarazione di fiducia. Sono troppe le cassandre che popolano il mondo, ma non solo da oggi. Hanno iniziato prima che si potesse scrivere quanto dicevano e al primo papiro che hanno potuto imbrattare (almeno 5.000 anni fa) ci hanno scritto: «le giovani generazioni sono smidollate, se andiamo avanti di questo passo, chissà dove finiremo». È sempre stata una moda quella di accostare i giovani con disprezzo. Siccome non ripetono ciò che è già accaduto, devono sicuramente essere di meno: di meno nell’espressività, di meno nella bontà, di meno nell’impegno, di peggio nello spirito di sacrificio, di peggio nella creatività, di peggio nella fede e nella bontà. Le statistiche a questo riguardo sono sempre impietose, ma per fortuna i giovani non sono riducibili alle statistiche, alle ricerche, ai numeri e alle percentuali. Le ricerche fatte di istogrammi, di item, di scarti quadratici, offrono una possibilità di entrare nella vita giovanile, ma non ne esauriscono la lettura o la stessa fotografia. Meglio oggi sono le riflessioni fatte attraverso storie di vita, dialoghi in libertà che permettono al giovane di dirsi fuori dagli schemi preparati da noi adulti e riferiti al nostro modo di leggere la realtà. È un classico ormai quell’errore di alcuni anni fa che le indagini hanno perpetuato per anni, se non decenni, di leggere i giovani solo alla luce dei criteri del ’68. Oggi quello l’abbiamo superato, ma atteggiamenti ideologici ce ne sono ancora, vedi per esempio rispetto alla domanda religiosa, al rapporto con le istituzioni, con la sessualità, con la cultura della notte. Mai come con la realtà giovanile di oggi si può correre il rischio di non accorgersi dei mutamenti sociali, culturali, esistenziali, delle sensibilità, dei linguaggi, dei vissuti e dei problemi che devono affrontare. Nella sua vita si scopre sicuramente ambivalenza, cioè possibilità di rispondere alla vita sempre sul crinale di due versanti non ambedue veri, ma ambedue possibili, C’è bisogno di lettura positiva, interpretazione e non osservazioni icastiche; c’è sempre un lato sconosciuto, celato, che funge da valore, in cui i giovani cercano ragioni di vita. L’educatore legge il mondo giovanile per cercare una qualsiasi, anche solo iniziale, voglia di vivere. Basta quella per iniziare una lettura educativa, quella è la chiave per decodificare tutte le descrizioni e le tabelle.

    I giovani astratti e compatti non ci sono, c’è lui e, per giunta, solo

    L’universo giovanile è impossibile da trattare come una realtà omogenea. Generalizzare è sbagliare bersaglio, la pressione di conformità è molto tenue. Ciascuno si ritaglia il suo mondo, si isola nella sua Play station, definisce i caratteri degli eroi con cui vuol giocare, si inventa ruoli, storie, avventure, progetti, ideali, si fa la sua pagina web come meglio gli aggrada. Esistono grandi contenitori come uno stadio, un concerto, una discoteca, una piazza, una passeggiata, dove ciascuno va alla sua bancarella. Nessuno è disposto a seguire un corteo anche se ti sembra che stiano tutti insieme. Ciascuno ha il suo mondo, il suo modo di vivere la notte, il suo modo di passare la giornata, la sua ricerca di impiego e la sua agenda, la sua concezione della politica e della religione, i suoi tempi di decisione e le sue solitudini. Queste forse sono quelle che li caratterizzano maggiormente. Passano le giornate rinchiusi nei loculi del virtuale, con tutti i comfort possibili, incapaci di bucare lo schermo della comunicazione, con tutti i possibili telefonini e paraboliche, ma sempre con la penna in mano o il cellulare per scrivere al giornale o telefonare alla radio del cuore. Vivono ancora in gruppi e bande, ma se credi che lì dentro tutti pensino alla stessa maniera, tutti decidano assieme che cosa fare, dove andare a passare il pomeriggio, come reagire a quello che capita, prendi un abbaglio. Le decisioni di tutti te le devi conquistare ad una ad una. In un gruppo ci stanno tutti: quelli che credono, quelli che si dichiarano atei convinti, chi è stato a Medjugorie, chi è devoto di P. Pio, chi crede a X files, chi va dal mago e chi si fa fare le carte, chi guarda le stelle in attesa della next age... per parlare solo della domanda religiosa.

    Difenditi dai quotidiani e dalle interviste

    I giornali si concentrano sui giovani solo quando compiono alcune demenzialità; allora si scatenano, vanno a rivangare nel passato nelle loro amicizie, nelle abitudini, nelle loro solitudini e connivenze. Interrogano il vicino di casa, da cui si è sempre tenuto alla larga, vanno dal preside, perseguitano i genitori sperando che parlino male pure loro del figlio, ma soprattutto vanno dagli specialisti. E gli specialisti sono sempre gli operatori delle comunità di ricupero. I giovani sono sempre e solo visti come casi patologici che vivono un disagio conclamato. L’unica figura educativa apprezzabile è la crocerossina, o lo psichiatra o l’operatore caritas. Un normale educatore di oratorio o di parrocchia o un insegnante della scuola non è contemplato nei giri di interviste. Oppure diventano specialisti miss Italia, il calciatore del momento, l’attrice che passa in quei giorni sul set di Cinecittà, la conduttrice di varietà. I giovani allora sono mammoni, senza spirito di sacrificio, senza progetti, legati al denaro, approfittatori. Si mettono i giovani al centro per impietosire o per esecrarli. Le interviste vogliono sapere tutto e subito, giudicare e possibilmente condannare. Si esaspera un problema a scapito di una visione globale della vita dei giovani, si scopre l’acqua calda, si fanno passare per novità le situazioni più normali della vita dei giovani. Non siamo ancora riusciti a mettere a disposizione di tutti una informazione corretta sui giovani, a farli diventare partner di un dialogo massmediale dignitoso, a conoscerli non per esasperazioni, ma per consuetudine nella vita quotidiana. Un educatore o scopre la quotidianità del rapporto come sorgente di sempre più aggiornata conoscenza, pure vagliata e messa a confronto con letture specialistiche, oppure sarà sempre vittima di esasperazioni: una volta l’ecstasy, l’altra volta la frase demenziale dello striscione dello stadio, poi è la volta della messa nera, lo stupro collettivo e la buona azione di riconsegna del borsello scippato alla vecchietta. Inoltre non dimenticare che un buon osservatorio della vita quotidiana riceve un colpo d’ala se lo arricchisci della letteratura fatta di romanzi, film, racconti, canzoni, pezzi teatrali che i giovani stessi sanno comporre con un’arte del tutto rispettabile.

    Prepara istituzioni, ma vivi nei loro spazi informali

    Full immersion nel mondo giovanile è necessaria ancor più oggi che si va allargando la creazione di spazi giovanili paralleli a quelli degli adulti anche se non indipendenti da essi. Sono gli spazi informali del loro girovagare, del divertimento, dello stare quasi in apnea di fronte a tutto. Qui dove si stabiliscono delle relazioni un po’ più libere, un poco più leggere, un poco più scelte, qualificate, legate alle aree di preferenza, di qualità, di rassicurazione della situazione emotiva – le aree appunto dell’informale – i giovani giocano il rischio di cominciare a dare forma alla propria libertà, ad una espressività che non si limita soltanto ad essere consumo di occasioni di tempo libero, ma che diventa anche itinerario di messa a fuoco di alcuni orientamenti di vita, della stessa professione e vocazione.
    Entro i luoghi formali, ad esempio la scuola, la famiglia, la parrocchia invece fa molta fatica ad avvenire tutto questo. I luoghi istituzionalmente predisposti all’orientamento, all’accompagnamento, al prendere forme e decisioni su di sé non riescono a produrre ciò che invece nell’informale si realizza in una maniera interessantissima. All’educatore è richiesto di lavorare in questa normalità, di offrire alcuni strumenti, alcuni accompagnamenti, di lanciare alcune proposte, anche molto esigenti, perché la ricerca di vita che lì dentro avviene possa prendere forma, rappresentazione, visibilità. Questi spazi per molti giovani sono l’unico luogo nel quale è possibile fare l’esperienza pratica di piccole comunità di senso, di piccoli luoghi di elaborazione di un significato condiviso. Da qui poi l’educatore deve darsi da fare per mettere in rapporto comunicativo-dialogico, di riconoscimento reciproco, queste piccole comunità di senso, questi piccoli luoghi di elaborazione del significato con gli altri luoghi classici di elaborazione del significato della comunità, della parrocchia, della città e del territorio.
    Prepara e coltiva i luoghi istituzionali che sono assolutamente necessari, ma non senza gli spazi della quotidianità. Dicono del resto i vescovi italiani che occorre «superare i confini abituali dell’azione pastorale, per esplorare i luoghi, anche i più impensati, dove i giovani vivono, si ritrovano, danno espressione alla propria originalità, dicono le loro attese e formulano i loro sogni» (cf Educare i giovani alla fede, CEI febb. 1999)

    Coltiva i sogni con loro

    C’è ancora uno sporgersi dalla parte dei giovani che oggi si rivela essenziale: la condivisione di visioni utopiche della realtà, caratterizzate da tanta ingenuità, ma passaggi indispensabili a una presa di distanza dal materialismo imperante anche nelle figure educative, genitori compresi, dalla riduzione della vita a schemi predefiniti, dall’adattamento al ribasso, dalla compressione del nuovo che, se pur deve fare i conti con la realtà e la cultura, ha sempre qualcosa di vitale da proporre, non fosse altro che per confermare e riesprimere in maniera originale i valori che già si vivono. Generazioni di giovani sono state addormentate dal principio di realtà, dall’aver ascoltato la raccomandazione di tenere i piedi per terra fatta da adulti timorosi. L’abolizione della pena di morte, la liberazione dalla schiavitù della prostituzione, il condono del debito ai paesi poveri, la convivenza di etnie, religioni, culture distanti e contrapposte, la fine delle guerre regionali, pregare assieme tra religioni diverse, un mondo più pulito sono sogni della stessa natura che aveva qualche anno fa l’utopica caduta del muro di Berlino, l’utopica unità europea, l’utopica comunicazione globale senza limiti di Internet, l’utopica messa al bando delle mine antiuomo, (anche se non è ancora finita la battaglia), l’utopica convergenza di tutte le chiese cattoliche su un progetto pastorale come la preparazione al Giubileo... Poche cose? Coltivare i sogni è rischioso; si finisce per fare il giovanilista, si cerca audience, oppure ci si misura sempre con la tensione interiore dell’uomo, che Dio ha seminato in tutti, e che un po’ alla volta tutti mettono a tacere, quando si comincia a diventare adulti? Per coltivare bene i sogni bisogna darsi alcuni semplici criteri, come il sognare assieme, il distinguerli dai bisogni, il metterli in sinossi con la Parola di Dio, il non spaventarsi se in essi si delinea la croce, perché stanno diventando realtà.

    Proponi con coraggio e determinazione una vita cristiana piena

    Il primo sogno da coltivare è Gesù Cristo. Ne ha i contorni, i rischi, la provocazione, l’utopia, la forza, l’orizzonte, la magia, l’attrazione, l’invincibilità di fronte a tutte le riduzioni, ma anche la non riduzione a qualsiasi di essi. Se c’è qualcosa che i giovani di oggi chiedono a chi fa professione di religione, ai guru, ai santoni, alla gente schizzata per un ideale è il centro della sua fede, non i fronzoli. E quando si propone la ragione, il centro, non si può fare la faccia da bulldog, fare il professionista che estrae gli schemini per semplificare l’approccio, che fa sconti sulla difficoltà, che ammansisce la decisione, che fa il mestierante, che confonde il centro con l’organizzazione, con la stessa morale, con incrostazioni culturali e comodità di tradizioni. Ma la proposta di Cristo deve affascinare. Ci sentiamo sul collo il fiato dei giovani che non negano di star bene anche senza di lui, di avere una vita valida e grintosa anche senza «andare a messa», di trovare soddisfazione e valori in molte espressioni dell’umanità, nell’arte, nella musica, nello sport, nella stessa comunità degli uomini, di fare profonde esperienze di dono e d’amore anche indipendentemente da Cristo e fuori della Chiesa. Cristo non si è mai imposto sui fallimenti umani e non si è mai proposto come alternativa obbligata; non è una vetrina da rompere in caso di incendio, anche se non si tira indietro nell’offrirsi come speranza per la disperazione, compagnia per la solitudine, pienezza per l’esperienza di vuoto. È affascinante perché è lui, è attraente per la sua bellezza, irrimediabilmente convincente per la sua gratuità. Bellezza, gratuità, fascino, amore sono strade da percorrere e da approfondire in un mondo di giovani che sembra non avere bisogno di nulla, di aver conseguito una autonomia e autosufficienza, ma non certo mai rispetto all’amore. La crescente domanda religiosa dei giovani, anche se molto confusa, è segno di una inquietudine esistenziale che riemerge sopra ogni sicurezza e dentro ogni autosufficienza.

    Non risposte, ma scommesse nella ricerca della verità

    La solita ricorrente tentazione di ridurre l’educazione alla fede, la stessa proposta di Cristo a una somma di contenuti, di risposte ad ogni problema, di verità da accettare, anche oggi riprende vigore. Sarà l’ignoranza di informazioni, sarà la contrazione se non addirittura l’eclissi e la sparizione degli elementi base della socializzazione religiosa che ci mettono paura e che ci fanno saltare le tappe di uno sforzo educativo, sta comunque il fatto che ancora crediamo di essere utili ai giovani se offriamo loro risposte preconfezionate, dati sovrapposti al vissuto. Occorre invece entrare nella logica del procedimento, dello scavo della corteccia verso il nocciolo, della ricerca, dell’approfondimento, dell’indicazione di mete ulteriori; occorre aiutarli a scoprire per sé e da sé che cosa offre la vita, stimolarli continuamente alla curiosità, che tutto sommato è esigenza di interpretare il vissuto con maggiore radicalità.
    Scommettere è l’operazione contraria del dare risposte preconfezionate. Chi ha il coraggio oggi di dire a un giovane: tu sei fatto per questo, ascolta me che quello che ti serve è quest’altro, io ho ben capito che cosa ti serve? I suoi desideri e le sue domande sono buche da coprire con tombini o sono invocazioni da allargare per cavarne tutte le promesse di pienezza che Dio vi ha posto dentro e che non vengono mai liberate per ristrettezza di orizzonti? Scommettere nella direzione della ricerca della verità è far crescere l’umanità di ogni giovane, aiutarlo a riappropriarsi della sua vita, ridargli la parola per scavare dentro e fuori di sé, trovare e aprirsi a un massimo di accoglienza del dono che è la fede. Ripeto il mio vecchio paragone. Se un ragazzo ti domanda il pallone, domandati perché te lo chiede, allarga i suoi desideri, aiutalo ad approfondire la consapevolezza della sua richiesta; non dargli però in risposta un’ora di adorazione perché tu credi che a lui giovi di più la preghiera che il gioco, ma dagli il pallone, in maniera però che il clima in cui lo collochi, gli amici che gli metti attorno, gli spazi che gli apri, la compagnia che gli offri, le ragioni con cui accompagni i tuoi gesti sono tali che quando avrà giocato a pallone (concretamente) avrà fatto esperienza di qualcosa di molto più grande che non avrebbe nemmeno lontanamente immaginato di sperimentare quando è venuto da te con la sua semplice domanda di un pallone. È possibile riportare l’educazione alla fede alla sorpresa della gioia, della ricerca, della verità e della sua contemplazione che è molto oltre la conoscenza pura di un dato dottrinale? Occorre però come non mai ritornare al nostro buon modello circolare, che da anni proponiamo. Quella famosa integrazione fede e vita, nella sorpresa della vita che sempre si rinnova e della fede che sempre si approfondisce, non lo dobbiamo mai abbandonare. Non siamo pelagiani, né semipelagiani, e nemmeno i talebani del cattolicesimo, ma crediamo che Gesù Cristo è il destino divino dell’uomo e che la sua gloria è questo giovane che sa camminare diritto, è capace di prendersi in mano la vita e la apre sempre in maniera nuova al dono della fede.

    Testimone sì, ma guida pure e amico

    È nota la frase di Paolo VI, il cui concetto dice pressappoco così: «Il mondo di oggi ha più bisogno di testimoni, che di maestri». Ne siamo perfettamente convinti. Il tema della testimonianza va assolutamente ripreso pur nelle difficoltà della vita di ogni giorno. Gli educatori non sono esenti dalla difficoltà culturale in cui vivono i giovani. Dico spesso che non ci sono animatori giovani o preti giovani, ma giovani che fanno i preti, giovani che fanno gli animatori, per indicare quanto è determinante la componente giovanile nella conduzione anche di responsabilità formative ad ogni livello. Riuscire a vivere e presentare vita cristiana è precedente al discettare, al dire, al comunicare, all’insegnare. I giovani apprendono di più dalla coerenza che dall’intelligenza. È importante però farsi carico della necessità che oggi i giovani hanno di guide, di gente che sa accompagnarsi, sa fare strada assieme, sa proporre sempre mete alte, anche se l’educatore non le sa ancora vivere. Certo per vivere questo atteggiamento in profondità occorre saper investire anche sulla debolezza.
    La debolezza dei giovani d’oggi, le loro povertà interpellano il modo di porsi degli educatori e formatori: non è detto che presentarsi brillanti, senza problemi, al di sopra di ogni difficoltà, sia una risposta positiva per la mentalità del giovane d’oggi. Incarnazione significa scendere, abbassarsi a queste situazioni, redimerle dal di dentro, come ha fatto Gesù che ha preso carne, ha piantato la sua tenda in mezzo a noi. I problemi del giovane d’oggi appartengono anche alle persone che formano ed educano – soprattutto se giovani – e questo può diventare una risorsa, più che un «problema». Non è possibile disgiungere la proclamazione della passione di Dio per l’uomo, la sua forza redentiva, senza che si veda che questa è passata dalla propria umana debolezza: non si tratta di confidenze da fare sulla propria vita, di mettere in piazza difetti, magari per farsi compatire, ma di un modo di essere: colui che ha compiuto qualche passo in più nella fede (e questi deve essere l’educatore) non è un «salvatore», ma una persona redenta, e quindi può accompagnare altri in questo cammino di redenzione a partire dalla propria. Troppo spesso ci si fa incontrare «redentori» e non redenti, «salvatori» e non salvati, «capaci di perdonare» ma non perdonati. Allora se questo è vero si possono rivalutare anche le relazioni interpersonali. In un cammino spirituale – oggi più di un tempo – gioca un ruolo centrale l’accompagnamento spirituale, ma anche l’amicizia, quella profonda. In una situazione dove le istituzioni perdono la loro forza di coesione, mentre incalzano forme di tentazioni ad ogni angolo della strada, l’amicizia costituisce una rete di forze in grado di essere sostegno e spinta per autentici cammini spirituali. In un cammino spirituale, le relazioni profonde di amicizia paritetica possono incoraggiare e far diventare motivo di condivisione il superamento dei propri problemi. L’amicizia profonda, quando diventa spirituale, permette una «buona gestione delle proprie povertà», perché diventi «gestione di risorse». Il bisogno di amicizia è una esigenza forte, una specie di antidoto all’assenza di punti di riferimento, e una scommessa per l’insopprimibile desiderio di essere capiti e aiutati senza essere giudicati e demoralizzati. Oggi, l’aumento delle povertà spirituali, può diventare aumento di relazioni spirituali.

    Fai della comunità cristiana una casa dei giovani e falla vivere come luogo di salvezza

    Detto in pastoralese, si tratta di vedere chi sono i soggetti della pastorale giovanile; detto tra noi, dobbiamo capire a nome di chi lavori, se te li hanno affittati perché hai un debole per loro e perché intanto che sei in attesa di fare altre cose, puoi perdere ancora tempo con i giovani. Tieni conto però che comunque siano le intenzioni di chi ti ha chiesto di educare i giovani alla fede, se l’atto pastorale è ex natura sua, essenzialmente, strutturalmente un atto ecclesiale, quando anche l’ultimo dei soggetti pastorali è impegnato a favore dei giovani, è sempre implicato il mistero della santa Madre Chiesa. E siccome il rischio di chi è impegnato febbrilmente nell’attività pastorale è di interpretarla e di realizzarla in modo troppo superficiale, diventa indispensabile scendere a questa profondità misterica per leggere in maniera autentica l’azione pastorale, che si pone a livello di «essere» prima ancora che a livello di «agire», o di organizzazione esteriore. Si tratta di aspetti che tra di loro sono profondamente congiunti, ma non si può dimenticare che il primato è dell’essere, e comunque non c’è dubbio che ciò che importa è la partecipazione reale viva e concreta alla missione della Chiesa, all’evangelizzazione e testimonianza della carità prima ancora di tante organizzazioni, strutture, singole e puntuali iniziative, pur necessarie per la concreta realizzazione della pastorale giovanile.
    Questo non rimanere in superficie, ma scendere in profondità e leggere secondo il mistero della Chiesa l’agire pastorale, si riflette anche nella interpretazione adeguata dei diversi soggetti della pastorale giovanile: la parrocchia o l’associazione, i preti, le suore, i religiosi, i laici, i giovani, ecc. Questi soggetti si configurano tutti e ciascuno come segno e, in un certo senso, sacramento della Chiesa. A partire da qui la Chiesa è la casa dei giovani ancora prima di avere qualche spazio anche geografico in cui potersi incontrare, qualche tessuto di relazioni che permette di sconfiggere la solitudine. All’educatore spetta di rendere parlante, esplicito sperimentabile tutto questo. La prima preoccupazione dell’educatore è di tirar fuori dalla comunità tutte le energie che essa ha, perché da tutti siano offerte ai giovani ragioni di vita e di speranza.
    E questa comunità cristiana diventa spazio da amare, per cui spendersi.
    Ancor prima di essere il luogo in cui i giovani possono dare gambe ai sogni che coltivano, la chiesa è sempre il luogo in cui esperimentare l’incontro sacramentale con Cristo, vivere e celebrare la compagnia con il Risorto, essere per tutti gli uomini, per ogni cultura e religione, la freccia puntata verso il Regno di Dio.

    Spenditi per la missione e non per la conservazione

    Gli spazi asfittici di un gruppo chiuso su se stesso durano poco, aiutano solo all’inizio a trovare quel caldo nido in cui farsi crescere le penne, ma poi toglie il respiro. Molti giovani abbandonano la comunità cristiana perché manca loro l’aria. In una cultura aperta all’universo, stiamo ancora ad abitare sacrestie, a difendere campanili. Missione è orizzonti grandi, confronto con le grandi religioni, consapevolezza di potersi dire cristiani senza paura e senza imposizioni.
    Per arrivare a questo occorre per lo meno operare in alcune direzioni:
    – ritenere che la formazione non è qualcosa che viene prima e la missione dopo, per cui prima bisogna formarsi e poi si può essere missionari, ma che essa è contestuale alla missione. Non c’è formazione che non apra alla missionarietà e non c’è missionarietà che non sia formativa. Se si tratta di conoscenze da approfondire, di verità da sistematizzare, può esserci forse una priorità temporale, ma è solo concettuale, perché la vita non è divisa così. Ci si forma dentro la vita concreta, abitata da tanti giovani che non conoscono ancora la bellezza del vangelo; non c’è miglior formazione della missione; la fede, se la doni, si rinforza; se hai crisi di fede, non stare a guardarti allo specchio, ma dona quello che sei per fede agli altri, il dubbio o la crisi svanirà come di incanto;
    – predisporre spazi formativi non selettivi. L’unica selezione possibile la compie la fede, non la compiono l’organizzazione, la struttura, lo scarso numero di educatori, la condotta, le tessere o le iscrizioni, gli ambienti o le aggregazioni, la simpatia o il censo...;
    – investire su nuovi modelli formativi che tengono conto della mutata situazione culturale e della pluralità di esperienze religiose compresenti sul territorio. Ogni giovane oggi non può non confrontarsi con altre religioni, che hanno pretese di universalità, di esclusività, di unicità oppure con altre esperienze di fede cristiana. La qualità della formazione richiesta non è questione solo di conoscenze e di coerenza, ma è sfidata dal dialogo, dal confronto e dalla profondità.

    Educare i giovani significa stare dalla parte della legge del seme

    Intanto è necessario predisporre una progettualità che abbraccia ragazzi, preadolescenti, adolescenti e giovani. Non è possibile lasciare ciascuna di queste particolari età isolata da un progetto che aiuta a far crescere una figura di giovane credente. Una comunità, una associazione, un movimento devono farsi carico di ogni singola età e dei necessari passaggi come gradino di una crescita nella fede. I classici problemi di fuga sono spesso dovuti a impostazioni che, senza volerla, la preparano o perché esageratamente orientate a celebrazioni dei sacramenti, o perché attorcigliate su di sé, avendo come unica prospettiva quella di creare animatori che ricadono sulle età precedenti. Ma soprattutto è importante impostare l’educazione alla fede come educazione, cioè come azione formatrice che si basa sulla legge del seme. Sonda il terreno, lo predispone, ne cura il contesto, offre forza, abbonda nella semina, ne cura i primi passi, esalta la bellezza del momento che si vive, senza ritenerlo sempre in funzione del successivo, ha molta pazienza, perché vive con trepidazione l’attesa e si apre alla novità che ogni vita esprime. Non forza i tempi, ma nemmeno si adagia al dato scontato. Investe sul futuro e non sradica dal passato e poi fa come dice la parabola del vangelo: aspetta in preghiera sicuro che il Signore della messe sa far crescere il suo seme anche se la zizzania tenta di soffocarlo.

    Custodire la memoria

    C’è un episodio nella vita del popolo ebreo che ci aiuta a capire l’importanza di un patto educativo tra le generazioni. È il contesto di una tavola imbandita, attorno a cui si consuma un pasto «strano», con un rituale altrettanto inusuale: in piedi, pronti per la partenza, con erbe amare, pane azzimo... È il pasto della fretta di partire per fuggire dall’Egitto. Così lo hanno fatto gli adulti quella notte in cui Dio li ha liberati. Che cosa penseranno mai le giovani generazioni di questi gesti privi di utilità pratica tanti anni dopo nel benessere, nell’abbondanza della Terra promessa sperimentata e sicura? Quando un tuo figlio domani ti chiederà: «Che cosa significa questo»? tu gli risponderai... Con la potenza della sua mano il Signore ci ha liberati... Se siamo qui, se oggi possiamo progettare il nostro futuro è perché Dio guida la nostra storia, la tua, la mia; perdona le nostre miserie, non si stanca di noi, ci sta davanti con una luce che illumina il cammino, ci protegge dai terrori della notte, si rivela a noi sempre come senso, non ci permette di perdere la direzione della vita, è più grande delle nostre tecnologie. C’è una storia che ci precede, fatta di infedeltà e di tenacia. Noi abbiamo provato a seguirlo. Ci sarebbe piaciuto essere degni almeno qualche volta dell’amicizia di Dio, ma abbiamo pur sempre fatto esperienza della sua affidabilità. La triste esperienza generalizzata della generazione giovanile è di essere di fronte a degli adulti che, anche loro malgrado, anche senza saperlo, sono sradicati da un passato che non sanno più raccontare e ladri di un futuro, per il quale non vogliono responsabilizzare i giovani, ma se lo contendono come contemporanei di età diversa. Il passato va raccontato e il futuro affidato; oggi invece il passato è rinnegato per stare alla moda e il futuro è occupato per paura di diventare adulti. Il passato è pur sempre una esperienza che insegna, anche se i tempi la superano; è fatto di passi significativi, cui non bisogna ancorarsi, ma che devono essere con calore trasmessi alle giovani generazioni, perché siano loro a staccarsene con consapevolezza. A loro servono da pista di lancio, altrimenti continueranno a puntare e a sgommare nella sabbia.


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    per i giovani
     Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
    spighe


    Un giorno di maggio 
    La canzone del sito
    Margherita Pirri 

     

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