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    Educazione e politica



    Carlo Nanni

    (NPG 1991-3/4-14)


    Come ricorda il documento della Commissione episcopale francese per la scuola e l'università, reso pubblico nel maggio 1989, da sempre l'educazione si è mossa tra integrazione e libertà. Domanda sociale di formazione e esigenze soggettive di sviluppo pressano sull'educazione e spingono a determinare fini, contenuti, metodologie d'azione.
    Ogni funzione educativa per un verso lavora per preparare bambini e giovani ad entrare nella società di appartenenza, integrandoli nella cultura, nelle norme, nelle tradizioni, nei riti sociali; per altro verso si dà da fare per permettere il pieno sviluppo delle potenzialità, dei dinamismi e dei centri di interesse di ognuno, stimolando e suscitando le personali capacità di libertà.

    L'educazione tra integrazione e libertà

    L'azione educativa fluttuerà sempre tra questi due poli, accentuando ora più l'uno ora più l'altro: ponendo l'enfasi ora più sulla trasmissione dei contenuti formativi, ora invece piuttosto sulla realizzazione dell'individuo e delle sue specifiche e peculiari potenzialità, fisiche, intellettuali, spirituali, morali, relazionali, operative.
    Ma invero nessuna delle due polarità è completamente eliminabile. L'integrazione presuppone un minimo di presa di considerazione dell'individuo, pena di scadere nel più piatto conformismo, negativo per l'individuo ma anche per la società.
    Peraltro l'educazione ha il compito di preparare ragazzi e ragazze a trovare il loro posto nella società, tenendo conto della loro storia personale, ma anche delle stimolazioni e delle esigenze che l'ambiente pone alla vita individuale e collettiva, all'interno di un determinato momento storico con specifici processi di conservazione e di mutamento più o meno equilibrati o sbilanciati su l'uno o l'altro versante.
    In questo senso, per sua natura, l'educazione si muove tra individuo e società, tra vita personale e convivenza sociale, tra vissuto soggettivo e prassi sociali, tra bisogni ed aspirazioni private e interessi ed immaginario pubblico: non senza tensione e conflittualità o comunque accentuazioni e sbilanciamenti ora da una parte ora dall'altra.

    L'EDUCAZIONE DEL CITTADINO

    Più specificamente il sistema sociale di formazione è chiamato ad aiutare la formazione delle persone in quanto cittadini.
    Attraverso la trasmissione del patrimonio sociale di cultura e la formazione delle capacità di relazione e di lavoro professionale delle persone, si promuove e si rende possibile la partecipazione di tutti i cittadini alla «organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, c. 2 della Costituzione), sia come semplici cittadini sia come classe dirigente, sia come singoli sia come gruppi o movimenti sociali.
    L'educazione socio-politica è un po' la «croce» e la «rosa» della riflessione pedagogica lungo il corso della storia. Infatti spesso le richieste sociali in proposito hanno dell'esorbitante rispetto alle reali possibilità dell'educazione. Certi problemi richiederebbero, in concomitanza all'azione educativa, la riforma culturale, adeguati supporti economici, la giustizia sociale, ordinamenti democratici efficaci, modelli e strategie percorribili di sviluppo individuale e collettivo.
    L'educazione non può far tutto; non è la panacea dei mali sociali e personali.
    D'altra parte ponendosi in questo «scarto» tra potenzialità soggettive e possibilità oggettive, può operare a vantaggio di una buona e consolidata struttura personale, che non annulla ma potenzia le possibilità d'essere e d'agire, individuale e collettivo.
    È pur vero che concretamente le cose non sono andate sempre lisce e tranquille.
    La storia della pedagogia, antica e recente, recensisce posizioni dure, strumentalizzazioni supine, tali da far pensare all'educazione come ad «un apparato ideologico dello stato» (Althusser), per imporre alle persone, per via di interiorizzazione, l'ideologia del potere dominante.
    Per contrasto si può dire che un certo movimento «descolarizzatore» (Illich) percorre l'intera vicenda dell'educazione occidentale, in nome di una emancipazione e liberazione dall'indottrinamento conformistico e da pratiche di potere autoritario che impediscono lo sviluppo creativo ed autonomo di libertà in formazione.
    Tuttavia, anche quando sono state avanzate proposte o si sono date indicazioni per un'educazione a prima vista antisociale, anticonformistica, anarcoide, si è trattato perlopiù di affermazioni di natura polemica, in funzione di un'opposizione a tradizioni e modi arretrati od oppressivi ed in vista di nuovi assetti sociali, economici, politici, culturali.

    La funzione ecologica dell'educazione

    Nel quadro di esse, l'educazione viene ad avere una «funzione ecologica» (Postmann), sia nel senso di sostegno ad un equilibrio tra le forze in campo, sia nel senso della ricerca di nuovi equilibri o sia viceversa nel senso di un contenimento di spinte troppo in avanti.
    Al fondo c'è la convinzione, spontanea e riflessa, che l'uomo si forma e si umanizza solo fra gli uomini e secondo modi e forme socialmente e storicamente qualificati.
    E questo perché l'esistenza umana si offre e si dà sempre, e spesso simultaneamente, come esistenza singolare e come esistenza comunitaria, sociale, politica: cioè come rete di rapporti personali all'interno di formazioni sociali di vario tipo, collegate ad interessi di varia natura; e tutte comprese e riorganizzate ad un livello superiore nella comunità politica, da accettare, costruire, ricreare permanentemente e, se necessario, rivoluzionare, perché si abbiano luoghi, momenti, strutture e strumenti sempre più adeguati ad un'autentica umanizzazione.
    Rispetto alla radicale socialità e politicità della condizione umana sta la consistenza dinamica, etica, giuridica e politica e l'essenziale individualità dell'essere umano. Entrambe queste dimensioni sono coessenziali
    In tal senso l'essere umano non è riducibile né a pura cellula di un organismo superiore (famiglia, società, stato, chiesa) né d'altra parte ad un'astratta individualità.
    Così pure è innegabile l'esistenza di un intrinseco rapporto tra individuo e società, tra cittadino e stato, tra persona e bene comune, anche se di fatto spesso si vengono a trovare in opposizione o non appare evidente la convergenza nella diversità, l'unità nella pluralità.
    Infatti, se è vero che lo stato è opera di un popolo, cioè di comunità umane (e in tal senso vale il detto che «lo stato è dall'uomo»), è pur vero che dallo stato (cioè dal popolo organizzato politicamente) viene ad essere conferita all'uomo la qualità di cittadino (e in tal senso vale il detto «dallo stato il cittadino»).
    Indubbiamente si tratta di affermazioni da giustificare, da fondare, da precisare, da sistemare teoricamente e ideologicamente, in vista dell'azione. Anzi, come il pensiero politico moderno, da T. Hobbes (1588-1679) in poi, ha messo in evidenza, sono affermazioni che, per sconfiggere non solo i dati di fatto ma le possibili affermazioni in contrario, abbisognano anche di una presa di decisione etica a loro favore e di una progettazione ed un impegno individuale e collettivo (il «contratto sociale», le «Costituzioni»), per dar loro consistenza concreta, a scalzare le cause reali e materiali che non rendono effettiva la «volontà comune» e la «realtà popolare». La teoria non sostituisce, anzi abbisogna dell'azione politica.
    Ma sono affermazioni che richiedono pure uno sforzo pratico e teorico di tipo educativo-pastorale.

    LA RICERCA DI PIÙ DEMOCRAZIA NELL'EDUCAZIONE CONTEMPORANEA

    Una riflessione sulle movenze educative degli ultimi decenni può illustrare meglio queste affermazioni generali relative al rapporto educazione e politica. Si vedrà subito come nel lavoro educativo (e altrettanto in quello pastorale) vengano continuamente a galla quelli che potremmo dire i nodi di fondo, presupposti ad ogni opera di educazione socio-politica, vale a dire la dialettica tra pubblico e privato, tra convivenza civile e organizzazione politica, tra potere sociale diffuso e poteri specifici istituzionalizzati, tra autorità e libertà, tra individuo e collettività, tra conservazione e innovazione, tra continuità e cambio, tra momenti congiunturali calmi o altri caratterizzati da forte accelerazione del mutamento o da assestamenti in atto.

    Formazione di base e educazione civica in chiave democratica

    Il ventennio successivo alla fine della guerra fu dominato dal problema della ricostruzione non solo materiale, ma anche spirituale del paese. Oltre l'economia e la politica era necessario reinventare la cultura e la vita civile, succedere al fascismo e al suo modo di catturare il consenso, ripensare abitudini e comportamenti che oltre vent'anni di regime fascista avevano a loro modo incluso o esorcizzato, superare le divisioni politiche subito emerse.
    Al mondo dell'educazione si chiese di collaborare alla formazione dell'uomo e del cittadino secondo gli ideali della Resistenza antifascista e quelli posti a principio del nuovo assetto costituzionale, ispirato agli ideali della libertà, della democrazia, della giustizia sociale, della solidarietà internazionale.
    Oltre questa educazione di base destinata a far da quadro alla scolarizzazione di massa, sempre più voluta ed attuata, quasi come un topolino partorito da una montagna di dibattiti, si ebbe l'introduzione dell'educazione civica nella scuola con DPR 13.VI.1958, n. 585, per una specifica educazione socio-politica.
    Ma per tanti motivi, che sarebbe qui lungo analizzare, essa fu o del tutto disattesa e trascurata o ridotta all'informazione circa le tecniche dell'organizzazione statale.

    Un'educazione legata allo sviluppo socio-economico

    Negli anni Sessanta il «boom economico» accrebbe i consensi per l'ideologia dello sviluppo illimitato, affidato allo sviluppo della scienza e della tecnica. L'accrescimento della produzione industriale e l'aumentata possibilità di accesso ai beni di consumo, hanno fatto sperare in un benessere sociale generalizzato. Industrializzazione e macchine sono diventate in tutto il mondo come i portabandiera di quella civiltà che finalmente avrebbe realizzato la democrazia (= il potere sociale per tutti), la piena umanizzazione (= la libertà per tutti) e la felicità del genere umano (= il benessere per tutti).
    Anche l'educazione fu segnata da quest'istanza efficientistica. Essa fu considerata come variabile dipendente dello sviluppo economico-sociale e presentata come strumento di elevazione sociale. Ma appunto per questo fu tendenzialmente portata ad essere quasi solo formazione di base che si voleva spendibile direttamente in termini di lavoro e di occupazione professionale; o nel migliore dei casi, proiettata verso un'opera di socializzazione laica ed ammodernata.

    Antiautoritarismo e partecipazione

    Verso la fine degli anni Sessanta l'insufficienza pratica e teorica di tale posizione, messa a fuoco dall'aprirsi di una profonda crisi economica e dalla costatazione dei limiti dello sviluppo, hanno incentivato e fatto reclamare ad intellettuali, giovani, sindacati, operai, forze politiche di sinistra, l'istanza del cambio dell'intero sistema delle strutture della produzione e della convivenza sociale. Solo in tal modo l'industria non si sarebbe ridotta a strumento delle forze capitalistiche, le scienze e la tecnica non sarebbero rimaste asservite al potere delle classi dominanti o agli interessi di parte della borghesia emergente. Il momento politico prese il sopravvento su tutti gli altri aspetti della vita sociale e personale.
    L'educazione fu vista come cinghia di trasmissione dell'autoritarismo sociale. Il sistema formativo sociale (famiglia, scuola, associazionismo, formazione professionale), fu tacciato di essere null'altro che il «volano» per la riproduzione del sistema vigente. Gli educatori furono bollati come «educastratori» e le insegnanti etichettate come «vestali della classe media». La funzione educativa nella sua globalità, stretta nel dibattito sul cambio del sistema, coinvolta nella critica ad esso e nella contestazione e delegittimazione del potere dominante, fu investita da un sospetto di fondo da cui ancora oggi non si è del tutto affrancata.
    L'unico sbocco possibile che le rimase allora fu quella di poter essere una palestra di «partecipazione». I decreti delegati del 1973-1974 ne volevano essere lo strumento giuridico di possibilità, cosí come l'affermazione comune in quegli anni di una gestione sociale della scuola e di un riquadramento dell'intero sistema formativo in una prospettiva di società educante e di educazione permanente.

    Riflusso e silenzio dell'educazione socio-politica

    La caduta di credibilità dell'ideologia del cambio, come già di quella del progresso illimitato, caratteristica della metà degli anni Settanta, ha significato per alcuni delusione e sfiducia per ogni militanza politica. Per altri ha alimentato quella «cultura della morte» che ha preso le forme del terrorismo e che ha fatto pensare alla seconda metà degli anni Settanta come agli «anni di piombo». Ma perlopiù ha dato luogo ad un controbilanciamento o - come si disse allora - ad un movimento di «riflusso», che ha portato a spostare gli interessi dal politico e dal pubblico al personale e al privato, dall'innovativo ad ogni costo alla ricerca delle «radici», al «revival» del passato, quasi come una «ricerca del tempo perduto» o di luoghi a riparo dai venti forti della politica e dell'impegno.
    Per alcuni anche la prima metà degli anni Ottanta è stata vissuta abbondantemente all'insegna del silenzio e della paura per ogni sporgenza sul politico. La complessificazione della vicenda comune ha portato l'educazione a badare più che altro al problema dell'identità e del senso della vita personale o addirittura a limitarsi alla ricerca di una solida istruzione.

    L'esigenza di «rieducare» alla politica

    Ancora alle soglie degli anni Novanta, l'urgenza di ripensare a fondo l'educazione socio-politica nasceva dalla comprovata costatazione di un diffuso disinteresse, se non di rifiuto, per la realtà socio-politica da parte di molti giovani.
    Una tale disaffezione faceva nascere il timore che si creasse a livello di persone uno stacco ed una interruzione tra domanda di senso soggettivo e pratica sociale. E più globalmente si pensava che senza una valida educazione sociopolitica si accrescesse la separatezza tra privato e pubblico; si desse adito a pesanti cadute nell'individualismo; ci si sperdesse nella ricerca ossessiva di un successo professionale, slegato dall'insieme della vita personale e da quella comunitaria; venisse a deteriorarsi la capacità politica dei cittadini e della classe dirigente, creando un intoppo in più ai processi di democratizzazione e di sviluppo sociale ed economico. In questa stessa linea si può comprendere la preoccupazione pastorale della Chiesa italiana, protesa, pur tra mille contraddizioni, a condividere le attese e le speranze di promozione umana e civile di molta parte del corpo sociale del Paese.
    In più si è fatto sempre più evidente che la professionalità politica non si inventa e che il miglioramento della vita politica passa anche attraverso una buona preparazione della classe dirigente e attraverso l'innalzamento della capacità politica dei cittadini. La guerra e la resistenza hanno «forgiato», sul terreno concreto, la classe politica e i cittadini agli interessi comuni del paese: una sorta di «battesimo di fuoco». Ma dopo, non ci si è dato troppa cura di preparare i nuovi quadri e i cittadini a far fronte ad una realtà politica che invece è andata sempre più complessificandosi e articolandosi.

    NOVITÀ ALL'ALBA DEGLI ANNI '90

    Gli anni Novanta sono iniziati all'insegna di nuovi fermenti di trasformazione politica e sociale, che fanno sperare in una rinnovata stagione di libertà e di democrazia, e che impongono di ricercare nuove strategie politiche, ma anche un profondo ripensamento educativo-pastorale.

    Il vento dell'Est

    Il 1989, con quanto è avvenuto all'Est, ha fatto rinascere speranze di libertà e di democrazia per tutto il mondo.
    Dopo decenni di immobilismo e di repressione, quasi inaspettatamente si è voltato pagina. Ha preso a spirare un vento nuovo, che fa ben sperare per l'avvento di nuovi assetti più democratici in tutto il mondo.
    Il rapido cambio o evolversi sociale dei paesi a regime comunista dell'Est europeo è sotto l'occhio di tutti. Anche quando continuano a persistere, le forme di organizzazione politica di regime vengono piano piano esautorate dall'interno e vengono commutate da forme più democratiche e pluralistiche. L'ideologia comunista è messa alle corde e mostra a chiare note la sua insufficienza politica e la sua tendenziale perversità civile ed umana. Il capitalismo di stato e i partiti unici sembrano avere le ore contate. I confini degli stati rimangono, ma la vita sociale cambia e si apre ad altre esperienze. I blocchi e i patti politico-militari restano in piedi, ma reciprocamente si limitano e vengono deflazionati d'importanza dalla prassi politica nazionale ed internazionale. A quasi cinquant'anni lo spirito di Yalta sembra al suo termine E dopo settant'anni la rivoluzione d'ottobre sembra meno interessante rispetto alle attese e allo spirito delle rivoluzioni americana e francese.
    Nessuno si fa illusione del divario che sussiste tra il momento esaltante dello «stato nascente» e i tempi lunghi o le compromissioni del momento di stabilizzazione istituzionale. La rivoluzione «gentile» del 1989 ha dovuto registrare le ambiguità della fine del regime di Ceausescu in Romania. E il 1990 mostra le durezze del dopo-stalinismo o quelle della ricerca di nuovi assetti nel pluralismo e nella legalità democratica. Molti sono convinti che la riunificazione delle due Germanie e la situazione dei Balcani o quella della periferia dell'Urss costituiranno i problemi centrali della politica degli anni '90.
    È tuttavia certo che quanto è avvenuto e sta avvenendo all'Est, offre nuovi impulsi, teorici e pratici, interessanti per itinerari civili e politici ispirati a democrazia.

    L'onda lunga della «rivoluzione silenziosa»

    La modernizzazione delle strutture produttive e del sistema dell'informazione sociale, così come la capacità sociale di accesso ai beni di consumo e ai beni della cultura, connessa con la ripresa economica manifestatasi nella seconda metà degli anni '80, hanno allargato le possibilità di intervento e gli spazi di partecipazione democratica dei cittadini.
    Ma forse si può dire che si vengono oggi a godere i buoni effetti dell'«onda lunga» costituita da quella «rivoluzione silenziosa» dei modi della vita individuale e sociale, che si è andata producendo mano a mano lungo il frenetico attivismo degli anni Sessanta, l'apparente involuzione e criticità degli anni Settanta, la moderatezza e complessità degli anni Ottanta.
    Essa si manifesta anzitutto nell'innovazione qualitativa dei bisogni e dei valori condivisi dalla gente comune: l'aspirazione per una migliore qualità della vita, l'accresciuta attenzione a quelli che sono stati detti bisogni «post-materialistici» (il benessere biopsichico, la cura del personale, l'interesse per la cultura e le applicazioni della scienza e della tecnica alla vita quotidiana, la ricerca di una più profonda comprensione di sé, degli altri, della vita, l'interesse per la qualità delle relazioni interpersonali, il bisogno di significatività e di senso).
    In secondo luogo essa si esprime nella sempre più radicata coscienza dei diritti dei cittadini e della necessità di un comune impegno per essi. Ed in particolare si mostra in una maggiore attenzione per quelle che sono state dette le libertà «sottili» (il rispetto della «privacy», del diverso, delle minoranze), per l'eguaglianza dei sessi, per la dignità dell'anziano, del malato o per le parti dolenti della società (handicappati, drogati, nuovi poveri).
    Rispetto ad un recente passato o rispetto alla politica ufficiale, si presentano «nuovi luoghi» per un'azione sociale alla portata di tutti i cittadini e non solo dei politici di professione:
    - l'impegno politico per una «città per l'uomo»;
    - la difesa ecologica dell'ambiente;
    - la qualità civile della convivenza sociale e politica;
    - l'impegno di cooperazione per uno sviluppo che superi le sperequazioni tra i popoli e le diverse zone del mondo.
    E nuovi «soggetti politici», costituiti dai movimenti, vengono a scompaginare i tradizionali assetti delle organizzazioni partitiche, dell'associazionismo e del sistema politico generale: il movimento giovanile e studentesco, il movimento femminista, il movimento pacifista, gli ambientalisti ed i verdi, i movimenti di liberazione, religiosi e politici. Pur nella loro spesso profonda differenziazione interna e mutabilità nel tempo, essi sembrano ridare nuovo respiro allo spazio e alla vita politica, oltre l'apparato statale, gli organismi e le istituzioni politiche, gli schieramenti e le appartenenze ideologico-politiche tradizionali. E sembrano indicare una possibilità di ricollegamento tra la vita politica e l'insieme dei mondi vitali individuali e collettivi.

    Il dibattito per una nuova «carta democratica»

    Rispetto al ristagno o alla coscienza della complessità del mutamento, tipica degli anni '80, un'altra novità di questi primi anni '90 può essere data dall'accresciuta coscienza e volontà di superare i guasti e i limiti, sia pratici che teorici, presenti nell'attuale congiuntura politica.
    Forse si potrebbe dire che anche a questo livello si colgono i frutti travagliati del ventennio che precede. Dopo la crisi degli anni Settanta e la ripresa economica degli anni Ottanta, e probabilmente grazie ad esse, si offrono oggi migliori circostanze per trovare un nuovo assetto politico a queste conquiste di altri comparti del sistema sociale.

    Vincere i fenomeni anti-democratici
    Tutti abbiamo coscienza che a due secoli circa dalla Rivoluzione Francese lo stato di salute della democrazia nel mondo non è dei più floridi. Il suo incremento è straordinariamente lento e spesso con fenomeni di involuzione. La democrazia trova difficoltà ad affermarsi non solo a livello politico, ma anche nelle strutture di partecipazione civile o nelle imprese di produzione. Fenomeni di rigurgito reazionario sembrano affiorare ogni tanto nella nostra «giovane» democrazia. Il fenomeno del terrorismo non sembra del tutto vinto; e sembra trovare un «controcanto» funesto nell'aumento di azioni di mafia o di rapimenti. La corrente di morte, spinta avanti dal commercio internazionale della droga, è arrivata a minacciare la vita scolastica e ad introdursi pesantemente nella vita familiare. Le «esigenze» dello sviluppo economico-sociale, invece di accrescere, qualche volta sembrano restringere gli spazi delle libertà individuali e comunitarie, nazionali ed internazionali. La «questione morale» e la disfunzione delle istituzioni e dei servizi è esperienza comune della prassi quotidiana di cittadini.
    Ed a livello internazionale, in vario modo, imprese neo-imperialistiche sembrano ostacolare l'emergere di legittime manifestazioni di libertà democratica.
    L'ideale democratico inoltre ha da far fronte oggi a processi innovativi del tutto sconosciuti in passato e che pongono in modo nuovo la questione della convivenza dei diversi gruppi e delle molteplici forze sociali secondo stili e procedure democratiche.
    Solo per citarne alcuni, basterà pensare ai nuovi modelli di vita indotti dall'innovazione tecnologica informatica; i riflessi sociali collegati con i nuovi trends produttivi sbilanciati sui servizi computerizzati; la complessificazione del tessuto sociale secondo linee per un verso di omologazione e per altro verso di differenziazione; il crescente invecchiamento della popolazione e la presenza di flussi immigratori del Terzo Mondo nei paesi maggiormente industrializzati; i modi nuovi di vivere il pluralismo nella società di massa; la secolarizzazione e la frantumazione dei sistemi individuali e sociali di significato; il difficile riconoscimento delle differenze sessuali, razziali, culturali, religiose degli individui e dei gruppi sociali; la complessificazione delle reti di comunicazione e delle relazioni interpersonali e comunitarie; la interdipendenza dei sistemi locali economico-politici dal mercato e dalla politica internazionale e mondiale, ecc.

    I paradossi dei processi di democratizzazione
    La vita democratica ha inoltre da superare e sciogliere i nodi dovuti allo sviluppo democratico stesso.
    Sono noti a tutti quelli che sono stati detti i «paradossi» dei processi di «democratizzazione»:
    - la crescente burocratizzazione, che frena o fa da impedimento nella soluzione dei problemi reali e che aumenta la distanza tra Stato e cittadino;
    - l'inadeguatezza delle tradizionali regole e le tecniche della democrazia (rappresentanza, maggioranza/minoranza, separatezza dei poteri pubblici) rispetto all'accresciuta complessificazione della vita pubblica;
    - la non facile armonizzazione tra diritti dei singoli cittadini o delle diverse parti o gruppi sociali e la promozione degli interessi generali e del bene comune;
    - l'allargarsi della sfera pubblica, che rischia di fagocitare l'autonomia della sfera privata. Come si dice, la «piazza» ( = il pubblico), come ieri il «palazzo» ( = il potere politico), rischiano di invadere la «casa» ( = la vita privata);
    - la stessa tendenza e apertura alla mondialità, favorita da un mercato sempre più internazionale, che tende a far sorvolare gli aspetti di località e di diversità. O viceversa. Come si dice, il «cittadino totale», aperto alla mondialità, mal si equilibra con lo «strapaesano», che vuol rimanere attaccato alla vita ristretta del paese d'origine.
    Il successo a livello nazionale e a quello europeo di partiti locali e movimenti particolaristici (per non dire di cartelli politici di destra) - o viceversa degli ambientalisti (i verdi) - la dice lunga in proposito, se non come fenomeno di reazione almeno come difesa della diversità; soprattutto se messo a fronte della pur conclamata necessaria apertura europea ed internazionale. L'Europa comunitaria sembra vincere l'Europa delle ideologie, ma ha indubbiamente da fare i conti con l'Europa dei popoli e dei gruppi sociali (e con i loro nazionalismi, le loro intolleranze, il loro fondamentalismo, il loro tendenziale razzismo) o con quella dei movimenti alternativi.

    L'esigenza di un quadro di riferimento più ampio

    La coscienza dei guasti e degli intoppi e limiti dell'attuale livello dei processi di democratizzazione invita ad un lavoro di approfondimento teorico che chiarisca la natura profonda dei problemi, mostri i punti di attacco per una progettualità rinnovata e per strategie d'azione, prospetti visioni ideali più adeguate e mostri vie più calibrate alla soluzione dei problemi.
    Per quel che è dato di capire, un tale sforzo di riflessione e discussione teorica, a partire dalla situazione attuale del nostro paese, va nella direzione di:
    - Un ripensamento della carta costituzionale, per tanti versi troppo legata ad un modello di vita democratica legata all'antifascismo e ad un assetto sociale ancora preindustriale, a dominanza rurale e contadina, in cui era possibile individuare una egemonia ben chiara tra le forze sociali. Si tratta in fondo di pensare ad una costituzione per una società più complessiva che quella degli anni del dopoguerra.
    - Una ricerca per forme di governabilità che possano risolvere in positivo le problematicità vecchie e nuove che occorrono, non solo giocando di rimessa o in contropiede rispetto ad essi; oppure solo attraverso forme decisionistiche e pragmatistiche, quasi del tutto sciolte da un consenso reale del corpo sociale o dai valori e dalle prospettive che regolano e orientano la convivenza sociale.
    - Una proposizione di etica sociale che vada per un verso oltre le secche del laicismo (troppo attaccato ad una libertà formale priva di contenuti e di valori, bloccato dalla rigidità di un'autonomia distaccata rispetto ai mondi vitali dei cittadini, ridotto a freddo pragmatismo e tecnocratismo), per altro verso oltre le tentazioni fondamentalistiche (che bruciano la molteplicità e la distinzione dei livelli vitali, il pluralismo delle giustificazioni e delle prospettive, il dibattito per la convergenza su prospettive d'azione articolate e flessibili).
    - Una prospettiva di unificazione europea più larga di quella di Schumann, Adenauer e De Gasperi, che renda possibile di far veramente dell'Europa una «casa comune», dall'Atlantico agli Urali; e che quindi ripensi le organizzazioni internazionali economiche, politiche e militari occidentali ed orientali.
    - Una prospettiva di sviluppo più grande di quella nazionale o occidentale o dei sette paesi maggiormente industrializzati; tale cioè che assuma in positivo la interdipendenza Nord/Sud, paesi del sovrasviluppo e paesi in via di sviluppo o del sottosviluppo; e che pensi in tale quadro di mondialità lo sviluppo internazionale, la giustizia sociale, la solidarietà tra le nazioni o i gruppi internazionali, la cooperazione tra i popoli.
    - Ed infine, a livello di mentalità e di cultura comune, occorrerà forse un'opera di coscientizzazione e di ripensamento dei quadri di riferimento concettuali che sono alla base dei comportamenti individuali e sociali, soprattutto in quanto moderni, occidentali, europei, maschili, perché facilmente affetti di soggettivismo individualistico, scarsamente tollerante della diversità e della alterità, poca attenta al bene generale e comune sovraindividuale, difficilmente aperto alla reciprocità e all'interdipendenza solidale ai vari livelli della esistenza.


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