Figure della fede /6
Carmine Di Sante
(NPG 2000-07-34)
Nei vangeli sinottici (i primi tre chiamati così perché, per le loro somiglianze, disposti parallelamente, possono essere seguiti e letti con un «solo sguardo») il nome di Giovanni figura tra i quattro primi discepoli che Gesù chiama alla sua sequela:
Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. Gesù disse loro: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini. E subito, lasciate le reti, lo seguirono. Andando un poco oltre, vide anche sulla barca Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. Li chiamò, ed essi, lasciato il loro padre Zebedeo sulla barca con i garzoni, lo seguirono (Mc 1, 16-20).
Figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo, Giovanni è, per i vangeli, uno dei tre intimi amici di Gesù che, insieme con Pietro e Giacomo, assiste alla risurrezione della figlia di Giairo (cf Mc 5, 37), alla trasfigurazione del Maestro sul «monte alto», che la tradizione identifica con il Tabor (cf Mc 9, 2-8) e alla sua agonia nell’orto di Getsemani (cf Mc 14, 33). Ma, soprattutto, per la tradizione, egli è l’autore del quarto vangelo che, fin dall’antichità, si è imposto per la sua originalità e differenza rispetto agli altri tre.
È noto che il quarto evangelista apre il suo vangelo con la testimonianza del Battista che, davanti ai discepoli che lo seguono ritenendolo «messia», li smentisce proclamando che il vero «messia» non è lui ma Gesù che vede andargli incontro:
Giovanni [Battista] vedendo Gesù venire verso di lui disse: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del mondo! Ecco colui del quale io dissi: Dopo di me viene un uomo che mi è passato avanti, perché era prima di me. Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare con acqua perché egli fosse fatto conoscere a Israele». Giovanni rese testimonianza dicendo: «Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo e posarsi su di lui. Io non lo conoscevo, ma chi mi ha inviato a battezzare con acqua, mi aveva detto: L’uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo. E io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio (Gv 1, 29-34).
Dinanzi ai suoi discepoli il Battista proclama Gesù come il vero «messia», colui che «restaura» il mondo, come si restaura un dipinto o un mosaico eliminandone lo sporco o ricomponendone la trama o i tasselli.
Di fronte a questa proclamazione i suoi discepoli l’abbandonano e si convertono passando dalla sua sequela alla sequela di Gesù, come si narra nella pericope successiva ambientata nel giorno successivo:
Il giorno dopo Giovanni [Battista] stava ancora là con due dei suoi discepoli e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: «Che cercate?». Gli risposero: «Rabbi (che significa maestro) dove abiti?». Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui; erano circa le quattro del pomeriggio (Gv 1, 35-39).
Uno di questi due discepoli che, nel sentire il Battista proclamare Gesù come «l’agnello di Dio», lo segue, per la tradizione è appunto Giovanni, l’autore del quarto vangelo che, per discrezione, non riporta il suo nome: «Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, erano Andrea, fratello di Simon Pietro, e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo) e lo condusse da Gesù» « (Gv 1, 40-41).
Folgorato da Gesù, Giovanni lo segue e il suo vangelo, come pure le sue lettere e il libro dell’apocalisse, sono il racconto di questa folgorazione che, oltre ad aver cambiato la sua vita, ha cambiato soprattutto il mondo.
Ciò che colpisce negli scritti di Giovanni è l’affermazione che, incontrare Gesù, per lui è stato incontrare il «verbo della vita eterna», il «luogo» in cui, nella storia, si è acceso il senso della sua vita e della Vita. «Verbo della vita eterna» per lui che l’ha incontrato, Gesù, per Giovanni, lo è anche per chi non ha avuto la stessa fortuna come lui, trovandosi a vivere in un altro tempo o altro spazio.
Giovanni scrive per colmare questo tempo e questo spazio perché ognuno, in ogni tempo e in ogni spazio, abbia, come lui, la possibilità di incontrare il «verbo della vita eterna», come scrive nella sua prima lettera:
Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta (1 Gv 1, 1-4).
L’esperienza che Giovanni ha avuto di Gesù è l’esperienza della vita, l’esperienza di colui il cui verbo è «Verbo della vita», la cui parola è proclamazione e instaurazione del senso della vita.
Per il quarto evangelista l’incontro di Gesù non ha significato un di più di conoscenza, come quando, viaggiando, si incontrano volti nuovi e terre sconosciute, quanto soprattutto una trasformazione impensabile e sconvolgente della sua soggettività che ne ha modificato lo sguardo sul mondo e sulla sua esistenza. Di qui il suo ricorrere ai verbi per eccellenza del sentire e dell’esperire:
Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il verbo della vita.
Giovanni ha udito, veduto, contemplato e toccato Gesù: e da questo ascolto, da questa visione, da questa contemplazione e da questo contatto è stato così cambiato da trovare in lui la vita «eterna», la vita colta da quel punto e in quel punto dove essa non è più ambigua e mutevole come il tempo, a seconda del proprio stato d’animo o delle circostanze esterne, ma si mostra e appare come vita buona, ordinata e bella, appunto «eterna». Credere in Gesù, vuol dire, per Giovanni, guadagnare questo punto o sguardo da cui, come dalla vetta di una montagna, la molteplicità delle linee, dei profili, delle alture e degli abissi, si ricompone nell’unità e nella bellezza della forma. La ragione profonda per la quale Giovanni scrive il suo vangelo è perché quello che lui ha visto da questa altezza (non senza significato Giovanni è rappresentato con il simbolo dell’aquila perché con il suo pensiero vola alto, proprio come l’aquila) sia visto anche da ogni altro, perché, chi non ha avuto la possibilità di udire, vedere, contemplare e toccare, possa udirlo, vederlo, contemplarlo e toccarlo attraverso la sua testimonianza.
Ciò che Giovanni ha udito, visto, contemplato e toccato, incontrando Gesù, è il dischiudersi in lui del Verbo della vita, la Parola che la svela e la rende vita eterna. Affermando che, in Gesù, la vita umana si disvela come vita eterna, Giovanni non intende dire, in primo luogo, che alla vita fragile dell’uomo ne seguirà un’altra dopo morte, ma che il senso dell’esistenza dell’io e di ogni io è di essere in comunione con Dio:
La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la nostra gioia sia perfetta (1 Gv 1, 4).
La ragione per la quale la vita umana è «eterna», sottratta alla fragilità e all’apparenza che la minano dall’interno svuotandola di senso, è perché essa è «in comunione col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo».
Il termine greco per comunione è koinonia che, opposto a idion, ciò che è singolare e appartiene all’io, rimanda a ciò che è comune e trascende l’io. La comunione con Dio è lo scoprirsi che non si è più soli, parte della natura, come momento interno alla sua epifania, o prigionieri del proprio io desiderante, sognante e progettante, ma alla presenza di Dio dal quale si è accolti e amati singolarmente e anteriormente ad ogni propria scelta. Prima che soggetto di comunione, dove l’io si mette in cammino verso Dio, l’io, per Giovanni, è oggetto di comunione, dove l’io si scopre e si sente amato incondizionatamente e gratuitamente, e appunto perché amato, chiamato a sua volta ad amare. La stupenda autodefinizione che egli dà ripetutamente di se stesso come «il discepolo prediletto» o «colui che Gesù amava» (Gv 13, 23; 19, 26; 20, 24-8; 21, 7. 20.32), lungi da essere una prerogativa escludente che riguarda solo lui, è la stessa definizione dell’uomo e di ogni uomo. Perché ogni uomo in Gesù si sa «prediletto», come «colui che egli ama».