Carmine Di Sante
(NPG 2000-09-7)
Gustare Dio
In una delle poesie più belle della bibbia il salmista, avendo fatto esperienza profonda della prossimità di Dio in un momento di grande angoscia (secondo la tradizione si sarebbe trattato di Davide quando, per salvarsi dal re di Gath, si finse pazzo componendo, per l’occasione, questo testo), così si esprime:
«L’angelo del Signore si accampa
attorno a quelli che lo temono e li salva.
Gustate e vedete
quanto è buono il Signore» (Sal 34, 9).
Nel momento della minaccia il poeta non si è sentito solo, ma ha avvertito la presenza di una «forza» – la «forza» di Dio – espressa con l’immagine degli angeli che gli «si accampano» intorno come fanno i soldati per proteggere la città dagli assalti esterni: «L’angelo del Signore (nell’originale ebraico al posto del singolare c’è però il plurale) si accampa intorno a quelli che lo temono e li salva».
Questa esperienza di protezione è così profonda che il poeta sente il bisogno di gridarla ai quattro venti invitando il lettore a fare la stessa esperienza: «Gustate e vedete quanto è buono il Signore». «Gustate»: come si gusta il cibo in bocca, come si assapora il gelato con il palato. «Gustate»: e una volta che avete gustato avrete accesso al vedere, a quel vedere che dischiude la fonte del sapere.
Scrive R. A. Alvès nel bellissimo libro intitolato Parole da mangiare (Qiqajon, 1998):
«Il latino testimonia un’intuizione che sembra assente in molte lingue moderne: le parole che indicano ‘sapere’ e ‘gustare’ hanno la medesima radice: sapere. Qualcosa è rimasto nell’italiano: ‘sapere’ e ‘sapore’. Mangiare e conoscere hanno la stessa origine. Conoscere qualche cosa è gustarne il sapore, sentirne l’effetto sul corpo. Le cose non sono nulla in se stesse. Kant lo sapeva bene, anche se non si fidava abbastanza del corpo per arrivare fino alla cucina. La realtà non è il crudo, ‘la cosa in sé’. La realtà è il risultato di una trasformazione mediante l’alchimia del fuoco, è il cibo che il mio corpo assume. La realtà è l’incontro tra la bocca e il cibo, tra il desiderio e il suo oggetto. Come suggerisce Martin Buber, non è qui e nemmeno là: è nella ‘relazione tra’. Ma questa ‘relazione tra’ non può essere neppure nominata. Il piacere non può essere descritto. Non è un oggetto per il tipo di sapere che si trova nell’aula di scuola. È la fine dell’epistemologia. L’epistemologia è legata a un sapere che esiste solo nella differenza della separazione, quando gli oggetti sono eternamente separati, collegati solo dalla distanza della vista. Ma quando gli occhi sono chiusi, ciechi, quando la bocca gusta il cibo, ogni dubbio scompare. ‘Mangio, dunque sono’. ‘Gustate e vedete quanto è buono il Signore’ (Sal 34,9). Mettete in bocca il Signore (Dio deve essere mangiato!) e vedrete com’è delizioso il suo gusto» (pp. 118.119).
Conoscere Dio, per la bibbia, vuol dire «gustarlo»: «gustarlo» come si gusta un cibo e un piatto prelibato. Tutto ciò che di lui si può sapere e dire ha senso se nasce dal «gustarlo», senza il quale il discorso su di lui diviene esercizio razionale, per chi crede nei poteri ultimali della ragione, o gioco retorico, per chi, come Wittgenstein, ritiene che dell’ineffabile si può solo parlare non parlandone, cioè tacendo. La bibbia è il racconto di «chi ha gustato Dio» e di come si può vivere nel mondo «gustandolo» e «rigustandolo» ogni giorno.
Per quanto strano, il linguaggio teologico è esso stesso, nella storia, la continuazione di questo racconto: perché ogni generazione abbia la possibilità di «gustare» Dio. Anche se, per motivi vari, il linguaggio teologico è diventato prevalentemente «dogmatico» e «razionale», mosso dalla preoccupazione di chiarire e di definire, il suo senso è comunque di porsi a servizio del racconto biblico da tramandare, interpretare e approfondire.
Il mistero trinitario
Questa osservazione vale anche per il «mistero trinitario», con cui la chiesa riconosce e adora Dio come Padre, come Figlio e come Spirito, e che Giovanni Paolo II, nella lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente, ha riproposto all’attenzione della chiesa come il modo più adeguato per la celebrazione del Grande Giubileo 2000 che si sta concludendo:
«Soprattutto in questa fase, la fase celebrativa, l’obiettivo sarà la glorificazione della Trinità, dalla quale tutto viene e alla quale tutto si dirige, nel mondo e nella storia. A questo mistero guardano i tre anni di preparazione immediata: da Cristo e per Cristo, nello Spirito Santo, al Padre. In questo senso la celebrazione giubilare attualizza e insieme anticipa la meta e il compimento della vita del cristiano e della Chiesa in Dio uno e trino» (n. 55).
E nella bolla di indizione del Grande Giubileo dell’Anno 2000, intitolata Incarnationis mysterium, facendo sue le parole di un grande teologo dei primi secoli della Chiesa, il papa scrive:
«L’anno santo dunque dovrà essere un unico, ininterrotto canto di lode alla Trinità, Sommo Dio. Vengono in nostro aiuto le parole poetiche di san Gregorio Nazianzeno, il Teologo:
Gloria a Dio Padre e al Figlio,
re dell’universo.
Gloria allo Spirito, degno di lode
e tutto santo.
La Trinità è un solo Dio
che creò e riempì ogni cosa:
il cielo di esseri celesti
e la terra di terrestri,
il mare, il fiume e le fonti
egli riempì di acquatici,
ogni cosa vivificando con il suo Spirito,
affinché ogni creatura
inneggi al suo saggio Creatore,
causa unica del vivere e del durare.
Più di ogni altra la creatura ragionevole
sempre lo celebri
come grande Re e Padre buono» (n. 3).
Il dossier che segue vuole essere un aiuto a comprendere e ricomprendere il mistero trinitario alla luce del racconto biblico che, dalla prima all’ultima delle sue pagine, è celebrazione e canto dell’amore di Dio, di cui il mistero trinitario è la ripresa e l’approfondimento, anche se con un linguaggio che, derivato dalla filosofia greca, resta estraneo alla mentalità moderna e, per questo, più di ogni altro chiede di essere reinterpretato. Georg Baudler, partendo dallo studio e dalla analisi dei testi prodotti dai giovani nelle scuole, giunge a questa conclusione: «La Trinità appare…, nella maggior parte dei compiti degli alunni, come una specie di cruciverba teologico, che non ha alcuna importanza per la vita» (cf G. Greshake, La fede nel Dio trinitario, Queriniana, Brescia 1999, p. 6). E il teologo K. Rahner ha perfino scritto:
«Si potrà… rischiare l’affermazione che, se si dovesse sopprimere come falsa la dottrina della Trinità, pure dopo un tale intervento gran parte della letteratura religiosa potrebbe rimanere inalterata. A ciò non si può nemmeno obiettare che la dottrina sull’incarnazione sia teologicamente e religiosamente così centrale per i cristiani al punto che, muovendo di là, la Trinità sia sempre e dappertutto inseparabilmente ‘presente’ nella loro vita religiosa… Si può avere il sospetto che, per il catechismo della mente e del cuore (a differenza del catechismo stampato) la rappresentazione dell’incarnazione da parte del cristiano non dovrebbe punto mutare, qualora non vi fosse la Trinità. Dio allora si sarebbe appunto fatto uomo come (l’unica) persona» (ivi).
Queste pagine vogliono contribuire a modificare questo modo di pensare e aiutare a capire che il linguaggio trinitario non è né un rompicapo che mette in discussione la logica matematica («come è possibile che Dio sia contemporaneamente ‘uno’ e ‘trino’»?) né una cosa insignificante come voleva Kant, per il quale la dottrina della Trinità sotto il profilo pratico «era del tutto inutile», ma un modo – per la tradizione della Chiesa un modo dogmaticamente vincolante – di narrare il mistero dell’amore divino nel quale e dal quale l’uomo è ospitato.
IL PADRE: RIVELAZIONE DI DIO COME AMORE
Il racconto biblico
La bibbia testimonia di una Presenza stra-ordinaria che è il Mistero stesso e che non è dicibile da parte dell’uomo, come vuole l’etimo del termine «mistero» che rimanda alla chiusura delle labbra, trattandosi di ciò di cui l’io non può parlare ma solo accogliere, come si accoglie uno straniero o l’ospite. Da questa Presenza misteriosa e indicibile Israele prima e le comunità cristiane dopo si sentono come «possedute» e «invase»: anche se di una «possessione» e di una «invasione» del tutto paradossale che non cancellano la responsabilità dell’uomo ma la instaurano, e non si impongono alla sua libertà ma la suscitano, sospendendosi e arrestandosi di fronte ad essa.
La bibbia è il racconto di questa Presenza misteriosa irresistibile e impotente. Irresistibile perché nulla può resistere alla sua potenza e alla sua forza, come ricorda il profeta Isaia: «Chi ha misurato con il cavo della mano le acque del mare /e ha calcolato l’estensione dei cieli con il palmo?/ Chi ha misurato con il moggio la polvere della terra,/ ha pesato con la stadera le montagne/ e i colli con la bilancia?» (Is 40,12). Ma nello stesso tempo impotente: perché il Dio alla cui onnipotenza non resistono né le acque del mare né l’estensione dei cieli né le montagne della terra si arresta di fronte alla libertà dell’uomo e consegna ad essa il potere inaudito di decidersi per la vita o per la morte: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore Dio tuo, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi…» (Dt 30, 15-16).
Il «Tu eterno»
Storia di questa Presenza misteriosa stra-ordinaria e impotente, la bibbia è soprattutto il racconto di come questa Presenza entra nell’esistenza umana e la rigenera: non come Potenza, Forza o Energia che, come quella del sole, si espande e si effonde nelle forme molteplici e inesauribili degli esistenti, bensì come Tu che si rapporta all’io nella sua unicità e singolarità costituendolo come relazione e istituendolo come suo partner o «tu». Presenza quindi il cui tratto originario è di essere il «Tu eterno», il «Tu» che costituisce l’uomo come suo «tu», secondo la formula felice coniata da Martin Buber:
«Ogni formulazione conduce in errore. Tuttavia, se ne è mai trovata una migliore che il «Tu eterno»? Come diventa privo di significato vicino a essa l’’Essere stesso’ e persino il ‘Fondamento dell’essere’ di Paul Tillich! Il Dio di Abramo, di Isacco e di Israele non era l’‘Essere stesso’, e nemmeno fu il ‘Fondamento dell’essere’ colui che ordinò ad Abramo di abbandonare la casa di suo padre, o colui che ordinò all’uomo: ‘Voi dovete diventare santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo’, o colui al quale il salmista – e, secondo due evangelisti, anche Gesù – gridò: ‘Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?’. Se una parola come il Tu eterno noi non la consideriamo un concetto, ma la capiamo in ciò che essa cerca chiaramente di esprimere, questa è certo la proposta più feconda sul significato della parola Dio che mai un uomo abbia osato fare» (W. Kaufmann, in M. Buber, Il principio dialogico e altri saggi, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, p. 111).
La paternità divina
Racconto del «Tu eterno» che istituisce l’uomo come suo «tu», la bibbia – soprattutto la bibbia cristiana, cioè il Nuovo Testamento – privilegia un termine per narrare e celebrare la storia dell’amore tra Dio e l’uomo: il termine padre che, come ha scritto M. Eliade, resta forse non solo il simbolo più universale con il quale le religioni hanno espresso e tematizzato il loro rapporto con il Mistero (o, forse, sarebbe meglio dire: il rapporto del Mistero con gli umani), ma anche il più originario, in quanto il linguaggio primo e il più importante anteriore e sotteso ad ogni altro. Anche se a privilegiare questo termine è stato Gesù, il quale ha osato chiamare Dio «abba», che letteralmente vuol dire «papà», il termine con cui i bambini chiamavano affettuosamente il loro padre; e anche se a fare di questo simbolo il simbolo fondamentale è stata la tradizione cristiana che nel «credo» proclama la propria fede in «Dio padre onnipotente creatore e signore del cielo e della terra», esso comunque è già presente nelle scritture ebraiche. Ad esempio in Is 64,7 si legge questo bellissimo testo: «Signore, Tu sei nostro Padre; noi siamo argilla e Tu colui che ci dà forma»; mentre in Os 11,1 il profeta mette sulla bocca di Dio questa toccante confidenza: «Era fanciullo Israele e io l’amavo. Fin dall’Egitto lo chiamai mio figlio».
Questo testo di Osea è particolarmente importante non solo perché presenta Israele come «figlio di Dio», ma soprattutto perché in esso viene detto, in modo essenziale e allusivo, in che cosa consiste questa figliolanza e quale è il luogo dove essa si costituisce: nell’uscita d’Israele dall’Egitto. Come è noto, il racconto esodico non è, nella bibbia, uno tra i tanti, ma il racconto fondativo e rivelativo per eccellenza. Narrando degli ebrei schiavi in Egitto e che Dio libera dalla schiavitù «con mano forte e con braccio disteso», la bibbia narra come Israele viene costituito suo figlio e in che cosa consiste questa figliolanza: nell’essere oggetto di un amore straordinario e nell’essere chiamato a diventare soggetto dello stesso amore straordinario. Parlare del Dio biblico come Dio dell’amore può sembrare un’ovvietà che può rasentare la banalità; ma in realtà si tratta di un’affermazione inaudita di cui bisogna tornare a cogliere lo spessore e le ragioni. Racconto dell’amore di Dio, la bibbia è soprattutto il racconto di questo «inaudito» dal quale Israele è stato «colto» e «sorpreso» e che, nella storia delle culture umane, rappresenta una novità assoluta.
Per cogliere il senso di questa novità assoluta o unicum bisogna riscoprire la categoria del monoteismo, secondo cui il Dio biblico si rivela come monos, che vuole dire sia «uno», nel senso di uno solo, a differenza delle concezioni politeistiche per le quali le divinità sono plurime, che «unico», nel senso di una identità totalmente altra, irriducibile a qualsiasi altra realtà pensabile e rappresentabile dalla mente umana; ma è necessario attingere soprattutto al racconto esodico che della bibbia è il fondamento stesso.
Di questo racconto, che narrativamente occupa i primi cinque libri della bibbia, ricorderemo solo alcuni versetti che ne sono come l’antefatto e un mirabile concentrato:
«Nel lungo corso di quegli anni, il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero» (Es 2, 22-24).
L’amore come relazione gratuita
Nella sua apparente semplicità, questo frammento narrativo in cui si condensa tutto il racconto esodico contiene un qualcosa di inaudito che nessuna cultura umana ha mai osato pensare con la stessa radicalità e insistenza, e che ancora oggi, a distanza di millenni, è ancora difficile pensare e tematizzare: una relazione tra Dio e l’uomo e, quindi, tra uomo e uomo (perché il modo di rapportarsi a Dio definisce, per la bibbia, il modo di rapportarsi all’altro!) non più istituita sul fondamento della identità bensì sull’evento della gratuità.
La relazione basata sul fondamento della identità è quella dove l’andare incontro all’altro, cioè l’amarlo e il prendersi cura della sua sorte, è motivato da una ragione che nasce dall’io e torna all’io: dove l’io, se esce da se stesso, ne esce per tornarvi, come l’Ulisse omerico il quale, dopo mille peripezie, desidera e si riporta allo stesso punto di partenza. Questo movimento per cui amare è partire dal proprio io ma per tornarvi necessariamente è stato tematizzato dalla filosofia greca come la definizione stessa dell’amore e ha trovato la sua pagina immortale nel Simposio di Platone, il quale ne dà la spiegazione attraverso il racconto del mito androgino (termine che vuol dire essere contemporaneamente «uomo» e «donna») secondo il quale in illo tempore, «all’inizio», l’uomo era una unità o sfera risultante dall’insieme del maschile e del femminile e, per questo, non mancava di nulla, autosufficiente e onnipotente come gli dèi dei quali era concorrente. Fu per questo che Zeus, per vendetta, divise in due l’essere umano separandolo in maschio e femmina. Di qui, per il mito, la ragione dell’amore, del tendere dell’uno verso l’altro: per ricomporre l’unità perduta e ritrovare la beatitudine originaria, come vuole Agatone nel Simposio: «È eros che produce fra gli uomini pace, sul mare quiete/ cessare del vento, riposo e sonno quando si è nell’angoscia».
Il divino, per Platone, è il nome stesso di questa unità e di questa beatitudine originaria il cui tratto costitutivo è di essere auto-sufficiente, non bisognoso di nulla che non sia se stesso e sempre uguale a se stesso e, per questo, eterno: «l’essere sempre in tutto il medesimo, come ciò che è divino» (208 A-B). Per questa ragione, coerentemente, il dio greco poteva essere amato ma non amare, essendo l’uomo ad avere bisogno di Dio ma non Dio dell’uomo.
Narrando di un Dio che «ascolta il lamento» degli ebrei schiavi in Egitto, il testo biblico mette in scena un divino il cui tratto originario non è più la relazione di sé a sé e, quindi, la sua beatitudine e autosufficienza, bensì la sua relazione da sé all’altro dove l’altro è amato nella sua irriducibile alterità. Quando il testo biblico afferma che «gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù e alzarono grida di lamento», è questa irriducibile alterità che mette in luce. Si tratta di «israeliti che gemono» e il cui gemito si perde nel vuoto senza un tu o volto al quale rivolgersi: come il lamento del neonato gettato nel cassonetto della spazzatura che non è né può essere invocazione a un «tu», ignorandone perfino l’esistenza, ma nuda voce di abbandono il cui unico significato è che non si è nessuno e non si ha nessuno. Il Dio biblico si rivela come quel Dio che si prende cura di chi «è nessuno» e «ha nessuno».
Ma perché Dio si prende cura degli ebrei schiavi in Egitto che non sono «nessuno» e non hanno «nessuno»? Per quale ragione esce dalla propria autosufficienza e dalla propria beatitudine per andare ad incontrarli nella loro alterità? Se si risponde a questa domanda dicendo: «per amore», si offre una risposta biblicamente corretta, ma ambigua se non la si integra con la consapevolezza che il termine in questo caso si riveste di un senso del tutto differente. Anche il dio babilonese, infatti, «amava» i babilonesi, allo stesso modo che il dio degli egiziani gli egiziani, il dio dei fenici i fenici, il dio dei moabiti i moabiti, e così via. Ma l’amore del Dio biblico è altro dall’amore di queste divinità o dèi: non per la sua maggiore potenza, come lascerebbe supporre la lettura superficiale del racconto esodico dove il Dio d’Israele trionfa sul Faraone mostrando la sua superiorità e gettandone in mare «cavalli e cavalieri»; in realtà per la sua irriducibile diversità che consiste nel fatto che ama di un amore che non si identifica con l’appartenenza, l’identità e la necessità, e dischiude un al di là dell’appartenenza, dell’identità e della necessità che è l’evento della libertà buona o grazia.
I tratti della relazione gratuita
«Grazia» è il termine più bello e appropriato del linguaggio biblico, ma è diventato anche il più ambiguo: non solo per l’uso continuato (i linguisti ricordano che le parole sono come i coltelli che, più vengono usati, meno «incidono», perdono cioè di espressività), ma soprattutto per la sua interpretazione che si è imposta nella tradizione cristiana, per la quale «la grazia» è diventata sinonimo di «forza» o «energia» divina o soprannaturale. Se si prova a chiedersi o a chiedere (ad esempio ad un gruppo di adolescenti) cosa è la «grazia» per la bibbia, la risposta più comune è quella che la identifica con la «forza» che aiuta superare una difficoltà o un ostacolo, come nella frase: «stavo per morire e Dio mi ha fatto la ‘grazia’ di guarire», oppure: «ero senza fede; ma Dio mi ha fatto la ‘grazia’ e mi ha aperto gli occhi e adesso credo». Inteso così naturalisticamente, con la metafora della forza o energia, il termine «grazia» occulta quello che, per la bibbia, è il suo aspetto più profondo e irriducibile: la relazione gratuita tra Dio e l’uomo. La grazia, per la bibbia, è la relazione gratuita che Dio istituisce nei confronti dell’uomo e, se relazione gratuita, essa non appartiene all’ordine della necessità ma all’ordine dell’evento, e all’ordine dell’evento interpersonale dove il Tu di Dio istituisce il tu dell’uomo come amante. Alla luce di questa relazione gratuita o grazia, l’uomo si scopre come l’amato che, amato gratuitamente, è chiamato a sua volta ad amare gratuitamente, vivendo non più per sé ma per l’altro.
Della grazia come relazione gratuita che Dio istituisce nei confronti degli «ebrei schiavi», cioè nei confronti dell’altro in quanto altro, il racconto biblico sottolinea tre aspetti para-dossali che, come vuole il termine, sono la messa in crisi della doxa non solo comune ma anche scientifica e filosofica.
* Il primo è quello della sua incondizionatezza. L’affermazione che Dio ama l’uomo gratuitamente è l’istituzione di una relazione che non si lascia motivare dal se (se portatore di valore, di bellezza, di attrazione o desiderabilità, ecc.) e dal perché (perché dello stesso sangue, terra, cultura, religione o ideologia, ecc.), ma li abolisce contestandoli e smascherandoli come irrilevanti. Il rivelarsi di Dio ad Israele è l’apparire e svelarsi nella storia di questa relazione senza se e senza perché, e che, abolendo il se e il perché, sostituisce all’amore d’identità, dove l’altro è amato come alter ego speculare, l’amore di alterità, dove l’altro è amato nella sua alterità irriducibile e inassimilabile. L’idea di una relazione incondizionata, in cui è infranta e sospesa la logica del se e del perché, è impensabile nel pensiero occidentale e la stessa tradizione cristiana ha tentato di «correggerla», come ad esempio nella colletta («orazione») della XXVI domenica del tempo ordinario, dove la comunità celebrante si rivolge a Dio pregando: «O Padre, sempre pronto ad accogliere pubblicani e peccatori, appena si dispongono a pentirsi…». In realtà per il racconto neotestamentario il pentimento dei pubblicani e dei peccatori non è la condizione per farsi accogliere da Dio, bensì il frutto del loro essere già stati accolti da lui quando ancora erano tali: «Dio dimostra il suo amore verso di noi, mentre eravamo ancora peccatori» (Rm 5,8). Reintroducendo l’amore di Dio nello spazio della condizionatezza, il testo liturgico tradisce quanto sia difficile accettare l’esistenza della relazione gratuita che, se veramente tale, non può non abolire al suo interno il se e il perché.
* Il secondo tratto della relazione gratuita instaurata dal Dio biblico è il suo essere senza ritorno. Senza ritorno è quella relazione dove l’andare all’altro non è motivato dal proprio bisogno che, attraverso l’altro, si soddisfa, ma dal bisogno dell’altro che, col suo bisogno, mette in discussione e relativizza il proprio, elevando l’io da essere di bisogno a essere responsabile. Senza ritorno è quella relazione dove l’io, uscendo da sé e andando all’altro, non lo prende per riportarlo a sé, come la mano che si allunga per catturare la preda e portarla a sé, ma si arresta di fronte alla sua alterità, sospendendosi come mano di prensione e convertendola in mano di donazione. Per il nostro psichismo e per le nostre filosofie (siano queste premoderne, moderne o postmoderne) l’idea di una relazione senza ritorno è ancora più impensabile della relazione incondizionata, perché per essi ogni movimento di uscita da sé all’altro è come il movimento di uscita della pietra verso l’alto che la forza della gravità riconduce sempre e necessariamente allo stesso punto di partenza. Narrando di un Dio che si rivela ad un gruppo di stranieri schiavi in Egitto e con i quali, sul monte Sinai, stipula un patto affidandosi e consegnandosi alla loro libertà e responsabilità, è soprattutto questo amore senza ritorno che il racconto biblico svela e istituisce: un amore dove Dio, invece di affermare la sua onnipotenza (se per onnipotenza si intende l’onnipotenza della forza), la mette da parte, per lasciare spazio all’uomo e renderlo soggetto della sua storia.
È certamente vero che, per la bibbia, Dio è onnipotente, ma, per essa, la sua non è l’onnipotenza della forza cui nulla può resistere (questo è innegabile, ma non è questo per la bibbia ciò che fa di Dio il suo essere ultimalmente Dio), bensì l’onnipotenza dell’amore che consiste nel rinunciare alla forza e dischiudere un al di là della forza che è l’amore come bontà e come disinteressamento. L’amore di bontà o gratuità è l’amore dove l’io, invece di ricondurre l’altro a sé per compiersi e realizzarsi con la sua presenza, si arresta e si depone alla sua presenza per farsene servizio e diaconia. Il racconto biblico, dalla prima all’ultima delle sue pagine, è il racconto dell’amore – dell’amore di Dio per l’uomo e dell’amore dell’uomo all’altro uomo – come bontà e come disinteressamento che il Nuovo Testamento chiama agape e l’apostolo Paolo come svuotamento o kenosis (il termine paolino per svuotamento), ed è l’annuncio che l’umano accede alla pienezza del suo senso solo là dove si eleva all’altezza della bontà o santità. Questa – la santità – è il termine biblico per eccellenza per indicare la relazione di bontà che parte dall’io ma non torna all’io. Etimologicamente il termine rimanda ad una radice ebraica che vuol dire separare. La santità o bontà è il movimento di amore con cui l’io si separa definitivamente da se stesso e, liberandosi dall’incatenamento di sé a sé – vero miracolo ed evento – incontra l’altro nella sua alterità e, al di là dell’angoscia del suo essere per la morte, scopre il senso del suo esserci.
* Il terzo tratto della relazione gratuita disvelata e istituita dal Dio biblico è la sua esigitività: intendendo con questo termine il fatto che Dio, andando incontro all’uomo gratuitamente, gli va incontro chiedendogli qualcosa ed esigendola imperativamente. All’apparenza l’amore gratuito di Dio sembrerebbe inconciliabile con la sua dimensione esigitiva e imperativa. Ma all’apparenza, perché per la bibbia l’esigitività – il fatto che Dio esige ed esige imperativamente – non solo non si oppone alla gratuità ma ne è la modalità più impensabilmente alta: perché Dio ama di quell’amore che non lascia l’uomo oggetto del suo amore ma lo eleva ad essere soggetto dello stesso amore.
Immaginiamo un Beethoven redivivo che invece di produrre la musica per i suoi alunni rendesse ognuno capace di produrre una musica come la sua.
Il Dio biblico è un Dio la cui «musica» – il suo amore gratuito o relazione incondizionata e senza ritorno – non lascia l’uomo nella passività, ma lo rende soggetto di una soggettività destinata a produrre le stesse note.
IL FIGLIO: RIVELAZIONE DI DIO COME MISERICORDIA
Il racconto neotestamentario
Passando dal racconto del primo Testamento o Antico Testamento a quello del secondo Testamento o Nuovo Testamento, si nota uno spostamento di accento che è necessario richiamare. Nelle scritture ebraiche Dio si rivela attraverso una pluralità di figure o personaggi che si succedono diacronicamente in un arco di tempo quasi millenario che va da Abramo a Mosè, a Salomone, a Davide, ai profeti, fino ai saggi e ai sapienti. Anche se tra queste figure eccelle, per la sua importanza, Mosè, il profeta al quale Dio parlava faccia a faccia (cf Dt 34, 10) e colui al quale viene attribuita la stesura stessa del Pentateuco (per questo nella tradizione ebraica i libri del Pentateuco sono considerati in assoluto i più importanti, a differenza della tradizione cristiana per la quale ad essere ritenuti tali sono i libri profetici), ciononostante la rivelazione di Dio nel primo Testamento si dispiega attraverso una pluralità di messaggeri e di testimonianze che, solo nel loro insieme e attraverso la molteplicità delle loro oggettivazioni narrative e testuali, disvelano il mistero di Dio e del suo amore.
Nel Nuovo Testamento, al contrario, si assiste ad una «concentrazione rivelativa» in Gesù di Nazareth. Con questa espressione si intende che, per il Nuovo Testamento, Dio si rivela non più attraverso una pluralità di figure e personaggi ma esclusivamente attraverso Gesù di Nazareth, che per questo, nella coscienza degli autori neotestamentari, è l’unica parola rivelativa, come vuole Paolo all’inizio della lettera agli Ebrei:
«Dio, che aveva già parlato, nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli, ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato» (Eb 1,1-4).
Questo testo paolino (o, secondo gli studi più recenti, di un teologo della scuola paolina) è una delle sintesi cristologiche più belle e dense del Nuovo Testamento, dove la coscienza credente esprime tematicamente la propria autocomprensione di Gesù di Nazareth. Anche se tale autocomprensione è espressa con un linguaggio complesso e, come tutti i linguaggi, condizionato dai modelli culturali della propria epoca, una cosa emerge con chiarezza da questo testo paolino: la consapevolezza che il Nuovo Testamento ha della «unicità» e «originalità» di Gesù, per cui egli non è riconducibile a nessun’altra figura del passato. Tale «unicità» e «originalità» consistono nel fatto che Dio si è rivelato in lui e ha parlato attraverso di lui con una modalità del tutto particolare, che non contraddice le altre modalità con cui si era rivelato nel passato ma le riassume e le porta a compimento. Il Dio che si rivela in Gesù non è un Dio altro dal Dio che si è rivelato nelle scritture ebraiche, come voleva l’eretico Marcione del III secolo d.C. e come vuole un diffuso sentimento che nel mondo cristiano non si è mai liberato fino in fondo della lettura marcionita della bibbia. In realtà il Dio di Gesù è lo stesso Dio che, dopo aver parlato «molte volte» e «in modi diversi», in Gesù dice la sua parola ultima: ultima perché oltre ad essa non è possibile andare, e non è possibile andare perché oltre a quello che Dio ha detto in Gesù non c’è nient’altro che egli possa ancora dire.
Oltre a sottolineare questa «unicità» e «originalità», il testo paolino contiene anche la categoria della figliolanza che la esprime e che, nel Nuovo Testamento e soprattutto nella trazione cristiana successiva, diventerà una categoria fondamentale: «Dio, che aveva già parlato, nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio». La categoria della figliolanza divina è già presente nelle scritture ebraiche, dove ad essere chiamato «figlio di Dio» a volte è Israele e altre volte il re, personificazione di Israele. Ma quando il Nuovo Testamento parla di Gesù come figlio di Dio, la figliolanza che gli attribuisce si riveste di un’accezione diversa e con essa esprime la convinzione, maturata lentamente ma graniticamente nelle comunità cristiane delle origini, che Gesù non è un figlio di Dio tra i tanti, ma il Figlio di Dio e che Dio non è per Gesù un Padre allo stesso modo con cui è padre di ogni uomo e di ogni donna, ma è il Padre.
«Unicità» e «originalità» di Gesù
Una volta che si è affermata l’«unicità» e l’«originalità» di Gesù e che questa «unicità» e «originalità» vengono espresse con la categoria della figliolanza divina, resta ancora da chiarire che cosa tutto ciò significhi per il Nuovo Testamento: sia perché il linguaggio – ogni linguaggio – è le interpretazioni che se ne danno (la pretesa di un linguaggio autotrasparente che faccia a meno dello sforzo interpretativo esiste solo nella mente di chi identifica il «testo» con la propria «testa»); sia soprattutto perché il linguaggio religioso più di ogni altro è linguaggio «metaforico» che, come vuole l’etimo del termine, si oltre-passa e porta al di là di se stesso, al Totalmente Altro che, per la tradizione ebraico-cristiana, non si offre alla intelligenza come oggetto da conoscere, bensì alla volontà come volontà buona da accogliere.
Cosa vuol dire allora per il Nuovo Testamento che Gesù è unico e originale e che egli è il Figlio di Dio in senso del tutto particolare? Sempre nel testo paolino sopraccitato ricorrono espressioni straordinarie per le quali Gesù è: l’«erede di tutte le cose», colui «per mezzo del quale» è stato creato il mondo, «l’irradiazione della gloria» divina, «l’impronta della sua sostanza», la colonna che «sostiene tutto con la potenza della sua parola», l’uomo che ha «compiuto la purificazione dei peccati», il personaggio sovrumano che «si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato» (Eb 1,1-4). Ma anche queste immagini ardite e bellissime non rispondono ancora alla domanda appena formulata perché, più che le ragioni della sua unicità, esse ne sono e vogliono essere l’espressione e la celebrazione. Con esse il testo paolino non intende spiegare perché Gesù è stra-ordinario, quanto riconoscerlo e celebrarlo come tale con la forza trasfiguratrice delle immagini, come fa l’amato con l’amante.
Per capire in che senso, per il Nuovo Testamento, Gesù è unico e in cosa per esso consiste la sua straordinarietà, può essere illuminante rivolgersi alla lettera dei Galati, uno scritto di particolare importanza sia perché cronologicamente è uno dei primi scritti neotestamentari, sia perché il suo autore è senza ombra di dubbio Paolo (e non un suo discepolo o un appartenente alla sua scuola), sia perché infine in esso troviamo una delle testimonianze più profonde su Gesù. In polemica con alcuni cristiani della Galazia, una regione dell’Asia Minore, al centro dell’attuale Turchia, i quali per Paolo compromettevano l’identità di Gesù e del suo vangelo, non cogliendone la specificità, al termine di un confronto aspro dai toni violenti, dove osa perfino dare dell’«imbecille» ai suoi interlocutori («O stolti Galati, chi mai vi ha ammaliati…»), cedendo per un istante alla vis polemica e prendendo la via della testimonianza, l’apostolo si confida: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20).
Abbiamo qui la prima «definizione», cioè la prima formulazione essenziale ed esistenziale, dell’autocomprensione della chiesa delle origini di Gesù: « il Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me». Questa formula diventerà comune e quasi un ritornello nella letteratura neotestamentaria (Gal 1,4; 1Tim 2,6; Tito 2, 14; Ef 5,2; Ef 5, 25) e il suo contenuto abissale, che si rischia di non cogliere per la sua apparente naturalezza, consiste nel fatto che in essa viene istituito un legame tra la morte di Gesù e la sua libertà: «mi ha amato e ha dato la sua vita per me».
Ciò che qui viene affermato è che la morte di Gesù non è stata un incidente di percorso, né è stata voluta da un Dio impietoso e tiranno, ma è stata scelta e voluta da Gesù stesso come atto di amore nei confronti dei suoi nemici, nei quali Paolo vede una costante e la personificazione stessa della storia umana. In questo gesto di amore con cui Gesù ama chi lo rifiuta e gli offre la morte, Paolo e con lui tutto il Nuovo Testamento vedono il rivelarsi stesso di Dio il cui mistero ultimo e insondabile è di amare chi non lo ama, rispondendo con un di «più» di amore a chi ne rifiuta l’amore. Gesù è la rivelazione di questo amore insondabile ed è il Figlio del Padre in quanto lo condivide e assume liberamente.
La croce
Figlio di Dio in quanto dischiude e introduce nella storia l’amore con cui Dio ama l’uomo peccatore o malvagio, il «luogo» dove, per il Nuovo Testamento, Gesù si rivela tale è nella sua passione e nella sua morte. Nei vangeli, la cui stesura è posteriore alle lettere paoline, la passione e la morte di Gesù occupano quasi la metà dell’intera trama narrativa e, considerando che i fatti ai quali si riferiscono si snodano in un arco di soli tre giorni, mentre l’altra metà ad episodi che si svolgono nell’arco di uno o più anni, non si può non condividere l’affermazione dell’esegeta tedesco Kähler per il quale i vangeli sono «la storia della passione con un’ampia introduzione».
Il vangelo di Marco che, come è noto, fa da fondamento ai sinottici (i primi tre vangeli sono chiamati così perché, se disposti parallelamente su un foglio, per le somiglianze che presentano li si può leggere e comprendere con un «solo sguardo») inizia il suo racconto in questo modo: «Inizio del vangelo di Gesù Cristo, figlio di Dio». E lo conclude con la confessione del centurione, il capo del gruppo dei soldati romani esecutori della condanna a morte di Gesù che, vedendolo spirare confessa: «Veramente costui era Figlio di Dio» (Mc 15, 29). Questo procedimento letterario, che consiste nel concludere il racconto con le stesse parole con cui lo si inizia, non è casuale ma intenzionale. Con esso viene offerta al lettore la chiave di interpretazione del racconto: dispiegamento di quell’inizio il cui significato è dato solo alla fine. È come se Marco dicesse: «Ti parlerò di Gesù come Figlio di Dio; ma per capire cosa voglia dire questa formula è necessario conoscere ciò che Gesù ha fatto; e ciò che soprattutto ha fatto sulla croce; perché è qui, e solo qui, che si potrà capire perché e in che senso egli è figlio di Dio». Di qui i vangeli: il racconto di ciò che Gesù «ha fatto» nei tre giorni della sua passione e della sua morte. Tutto il resto – il racconto della sua nascita, delle sua predicazione e della sua attività terapeutica o «miracoli» – è solo una introduzione al racconto della sua passio: perché qui e solo qui Gesù ci rivela Dio e si rivela come figlio di Dio: «Veramente costui era Figlio di Dio».
La cosa paradossale è che a riconoscere Gesù come Figlio di Dio sulla croce è il centurione: un pagano e per di più un pagano che, in quanto centurione, è capo del gruppo dei soldati incaricati della crocifissione, responsabile diretto della sua morte. Per i vangeli il centurione, «dopo il malfattore, è il primo teologo cristiano» che vede e comprende cosa è accaduto sulla croce e in che senso Gesù è Figlio di Dio:
«Il centurione pagano, la persona più lontana, è la più vicina alla ‘Gloria’! Sulla croce la sovrabbondante bellezza dell’Amore rompe ogni argine e straripa nell’universo. Ora ogni uomo riconosce a Dio quella gloria che gli spetta, e che il sospetto antico aveva nascosta. Vede la sua tenerezza che si espande su tutte le creature» (cf Sal 145,9)» (S. Fausti, L’idiozia. Debolezza di Dio e salvezza dell’uomo, Ancora, Milano 1999, p. 86).
Che cosa ha visto il centurione sulla croce, per cui, lui pagano e esecutore di morte, riconosce Gesù come figlio di Dio? E in che cosa consiste la «gloria» della croce che, per il quarto evangelista, è una delle chiavi di lettura più importanti del suo racconto: «E il Verbo si fece carne / e venne ad abitare in mezzo a noi; / e noi vedemmo la sua gloria, / gloria come di unigenito dal Padre, / pieno di grazia e di verità» (Gv 1, 14)?
La follia della croce
Ciò che il centurione ha visto o ciò che gli evangelisti mettono sulla sua bocca, facendone il rappresentante del «credente» o del «confessante», di colui che ha capito cosa è accaduto sulla croce, è che in Gesù Dio si è rivelato come un Dio che perdona: un Dio che, di fronte all’uomo peccatore, non risponde con il rifiuto e con l’allontanamento bensì con un di più di amore e di accoglienza. Quello che gli autori del racconto neotestamentario vedono «esplodere» sulla croce – come «esplode» la primavera portando alla luce il nascosto, il non visibile e l’inesistente – è un «qualcosa» di inaudito che ha il tratto della follia o della «idiozia», come afferma Paolo nella lettera ai Corinti, in uno dei testi più vertiginosi del suo epistolario e di tutto il Nuovo Testamento:
«La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti. Dov’è il sapiente, dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1 Cor 1, 18-25).
Ciò che avviene sulla croce ha il tratto della follia e, per capire (qui capire non vuol dire comprendere razionalmente ma lasciarsi sorprendere dall’evento) il Dio del Nuovo Testamento è necessario capire il senso di questa follia. Il termine usato da Paolo è moria, che vuol dire «pazzia» e definisce l’agire di chi è pazzo. Pazzo è quell’agire che non si iscrive nell’ordine del «comune», di ciò che è comune a me e all’altro, ma ne fuoriesce, appartenendo solo all’io che lo pone in atto e restando totalmente estraneo e, per questo, incomprensibile a chi lo osserva dall’esterno. Fuori dallo spazio del «comune», di ciò che si ha e condivide insieme, il folle è sempre un «idiota», un altro dei termini con cui lo si identifica, che rimanda a idion, che vuol dire «ciò che è proprio». Infatti ciò che il «folle» pone in essere è ciò che ha di più proprio, e la via per comprenderlo non può essere la ragione giudicante (non valendo più tra me e lui la comune misura), ma la rinuncia ad essa e l’ascolto, lasciandosi colpire e sorprendere dalla sua diversità irriducibile.
Parlando di ciò che avviene sulla croce come «follia» o «pazzia», non solo per i greci ma anche per gli ebrei, Paolo non intende sbalordire i suoi uditori con una immagine ad effetto, né tanto meno sostenere che l’evento della croce sia irrazionale (se per irrazionale si intende ciò che si colloca fuori della realtà e della verità), bensì affermare che in essa si dischiude un evento che è fuori della «logica», come veniva allora (e non solo allora!) ordinariamente intesa: sia della logica greca, la logica della reciprocità e dello scambio, sia della logica ebraica, la logica, per Paolo, dell’attesa del messia vincitore e trionfante.
Quello che si dischiude sulla croce è un’altra logica. In Gesù che muore senza accusare chi lo accusa e senza odiare chi lo uccide ma perdonando i suoi nemici e amando chi lo oltraggia, in obbedienza al Padre, Paolo vede svelarsi un Dio la cui potenza non è la potenza della forza ma della misericordia, e un umano il cui senso «escatologico» cioè ultimo non è né la simmetria della reciprocità né l’accoglienza dell’estraneità ma l’accoglienza dell’inimicizia. La croce è una «follia» perché annuncia che il divino – e l’umano che sul divino si interpreta e si legittima – non è il divino che sconfigge, vince, trionfa, si afferma e ha ragione, ma il divino che si lascia sconfiggere e, impotente della potenza della forza, tace e muore, per affermare la potenza dell’amore come misericordia e come compassione. Sulla croce Dio si rivela come Dio crocifisso. «Follia» e «bestemmia» che denunciano come follia e come bestemmia (questa volta sì veramente tali) ogni altra idea sul divino. Dopo la morte di Gesù in croce, l’unica idea di Dio pensabile e tematizzabile è il Dio crocifisso, la cui potenza è di rinunciare alla potenza e di patire lui stesso l’ingiustizia piuttosto che farla patire a chi la merita, e così svelando la misericordia come l’al di là della giustizia e superiore giustizia che la trascende ricostituendola:
«Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c’è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» (Rm 3, 21-24).
Ne consegue così che il Dio crocifisso smaschera come idolo qualsiasi immagine e qualsiasi pensiero di Dio – teologia e filosofia – istituiti sulla potenza della logica e della giustizia. Scrive Silvano Fausti:
«Il vangelo è essenzialmente antidolatrico: smonta e smentisce ogni nostra idea di Dio. Non dice che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio; ma, invertendo predicato e soggetto, dice esattamente il contrario: Cristo e figlio di Dio è Gesù, il Crocifisso. Infatti il soggetto è ciò che non si conosce e il predicato ciò che si conosce. Chi dice che Gesù è Cristo e Figlio di Dio, applica a lui, che non conosce, tutto ciò che conosce sulla salvezza e su Dio. È ciò che, con Pietro, abbondantemente facciamo. Chi invece dice che il Cristo, il Figlio di Dio, è Gesù crocifisso, applica alla salvezza e a Dio, che non conosce, tutto ciò che il vangelo fa conoscere su Gesù. È lui il predicato! Senza questa ‘inversione di predicato e di soggetto’ il Dio cristiano è uguale a quello di tutte le altre religioni: un idolo più o meno bello e verosimile, fatto dall’uomo. Questa inversione ci dona la verità di Dio, nascosta a tutti, e ci restituisce la nostra umanità, fatta a sua immagine e somiglianza» (L’idiozia, Ancora, Milano 1999, p. 42).
Il «miracolo» della compassione o misericordia
«Follia» e «idiozia», la croce è interruzione del determinismo della violenza ed evento di gratuità ancora più radicale e sconvolgente di quella del primo Testamento, perché svelamento di un divino che non solo ama lo straniero (o, con categorie simili, l’orfano e la vedova) ma il nemico. Per questo, nel Nuovo Testamento, non è più lo straniero la categoria privilegiata attraverso la quale Dio si rivela, bensì il nemico o, secondo la terminologia paolina, il «peccatore»: colui che non solo è estraneo a Dio e sul quale Dio si china gratuitamente accogliendone l’estraneità nello spazio della propria Bontà o Benevolenza, ma che si è fatto ostile a Dio, rinnegandone la sollecitudine e rifiutandolo.
Per Paolo la storia umana non è guidata dalla logica dell’indifferenza e dell’estraneità, in cui gli umani si disconoscono e si incontrano solo nello spazio del comune inter-esse o inter-essamento, come vuole la filosofia greca, ,per la quale l’essere e la volontà di permanere nell’essere e tra gli esseri sono l’unica possibile filosofia che coincide con la metafisica stessa; ma dalla logica della inimicizia, dove gli umani si fronteggiano e si osteggiano percependosi gli uni contro gli altri e facendosi guerra gli uni agli altri. Per Paolo la dimensione più profonda che caratterizza l’umano non è l’extra, lo spazio dove l’io e l’altro si incontrano momentaneamente sulla «tangente» (dal latino «tangere», toccare: la retta che ha solo un punto comune con il cerchio) delle affinità e degli interessi, bensì il contra, lo spazio dove l’io e l’altro sono avversi e non si ignorano ma si cercano, però non per accogliersi bensì per eliminarsi. La storia umana è la storia di questo contra dove gli uni si muovono contro gli altri per distruggersi e farsi guerra.
Alla radice di questa volontà avversa che coglie l’altro come nemico e vi risponde con un di più d’inimicizia – poiché mi sei nemico, non posso non comportami anch’io da nemico e, per tenerti a bada, ti sarò ancora più nemico, secondo la logica del si vis pacem para bellum, «se vuoi la pace prepara la guerra» – Paolo non vede una legge di natura, come vuole il pensiero occidentale: Eraclito, ad esempio, per il quale la violenza e la guerra sono il nome della potenza del divenire nel suo inesauribile trasformarsi («la guerra è madre di tutte le cose e di tutte le cose è regina», amava dire); oppure Platone il quale nelle sue Leggi denuncia «l’ingenuità di molti, i quali non comprendono che finché c’è vita c’è una guerra continua di ciascuno Stato contro l’altro e pertanto, se in tempo di guerra per motivi di sicurezza bisogna pranzare insieme e bisogna che un corpo speciale di ufficiali e subalterni monti la guardia, altrettanto si deve fare in pace, perché ciò che la maggior parte degli uomini chiama pace lo è solo di nome, mentre in realtà fra le Città perdura – quasi per legge naturale – uno stato di conflitto non dichiarato di tutti contro tutti» (625 D- 626); o Hobbes per il quale nello stato di natura anteriore all’ordinamento statuale «l’uomo è lupo all’altro uomo» (homo homini lupus), e la sola razionalità di cui dispone è la costituzione di un patto di non belligeranza con cui l’uno accetta di non aggredire l’altro per non essere aggredito a propria volta; e in genere tutta la filosofia che si vuole e si definisce come filosofia dell’essere in cui ogni essere, dal filo d’erba alla pianta, al serpente, è volontà di essere che, per persistere nell’essere, è assimilazione e distruzione di ogni altro essere, secondo la logica della «mors tua vita mea» (la tua morte è la mia vita) in cui Lévinas vede la radice stessa della guerra e della violenza: «Non è necessario provare attraverso oscuri frammenti eraclitei che l’essere si rivela al pensiero filosofico come guerra».
Per Paolo alla radice della violenza umana non c’è una legge di natura, iscritta nell’ordine dell’essere, ma un meccanismo di distorsione con cui l’io, invece di cogliere l’altro nella sua alterità invocante prossimità e accoglienza, lo deforma cogliendolo come rivale che, minacciando l’io, l’io non può non aggredire, come si aggredisce il virus che devasta l’organismo, ed espellere, come si espelle dalla comunità il lebbroso che infetta i sani. Il fondo oscuro e abissale della violenza umana è per Paolo questo meccanismo di distorsione che «transustanzia» l’altro in nemico, in fantasma contro l’io, che l’io vive come aggressore, prima e indipendentemente da ogni sua reale aggressione. E nei casi in cui l’altro aggredisce l’io oggettivamente, l’io vive tale aggressione maggiorandola e sovraccaricandola, convertendola da disattenzione, errore o sgarbo, in lesione all’ordine oggettivo e del diritto che esigono la riparazione e la vendetta. Per Paolo ogni forma di violenza, sia quella interpersonale che quella sancita dai codici e dai diritti, prima che risposta ad una aggressione reale che l’io subisce da parte dell’altro, è l’esternazione o la visibilizzazione – cioè il venire allo scoperto – dell’aggressione dell’io nei confronti dell’altro e della sua volontà che da volontà di accoglienza si è pervertita in malevolenza nei suoi confronti. Situazione irrisolvibile e per questo tragica, perché l’aggressore non si sa aggressore ma si vuole aggredito e, aggredito, vittima che reclama l’ordine della giustizia e del diritto!
Sulla croce Paolo vede annunciarsi e realizzarsi il miracolo dell’uscita dell’umanità da questa situazione insolubile e per questo tragica: «Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!» (Rm 7, 24-25). Questa uscita è il gesto/evento di Gesù sulla croce con cui non aggredisce chi lo aggredisce e non risponde con la violenza alla violenza, ma continua ad amarlo portandone lui stesso l’offesa e il rifiuto.
Gesto/evento inaudito che denuncia come irreale e illusoria l’iscrizione della violenza nell’ordine della necessità e del determinismo. Se Gesù, l’innocente, il «senza colpa» e il «senza peccato», non aggredisce e non esclude, e per lui non è nemico neppure chi lo uccide, allora non è vero che l’io non può non – cioè deve – aggredire chi lo aggredisce ed escludere chi lo esclude. Se per Gesù neppure chi lo uccide è nemico, perché in lui riconosce un deficit di coscienza prima che di malevolenza («Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno»!), allora la violenza umana è «smascherata»: le è tolta la maschera e, da legge di natura o ordine dell’essere con cui l’io aggressore si autogiustifica e si legittima, è ricondotta a ciò che veramente è: negazione dell’io alla sua vocazione originaria di amare l’altro di amore di gratuità, accogliendolo nello spazio della propria benevolenza.
Svelando la misericordia come l’orizzonte ultimo – l’amore all’altro anche quando l’altro mi nega e mi uccide – la croce (ri)svela e (ri)annuncia che l’altro in quanto altro non è per l’io né ostacolo né limite né minaccia, e che l’io è l’io responsabile dell’altro anche quando l’altro ne è il persecutore. Impercettibile e invisibile agli occhi dei benpensanti per i quali è solo fallimento, la croce è fessura e apertura vertiginosa dalla quale filtra una luce – la luce della misericordia divina – che ridisegna il mondo come creazione e che, da mondo di violenza, lo ricostituisce in mondo «sette volte buono». Fessura come miracolo della storia, perché interruzione del determinismo della violenza, della logica che la legittima e della politica che l’amministra; e annuncio di una nuova logica come logica della fraternità dove l’altro è affidato alla mia responsabilità e dove le leggi e le istituzioni – l’ordine del diritto, del politico e dell’economico – sono chiamate ad esserne ogni giorno l’oggettivazione fragile ma necessaria.
LO SPIRITO: LA POTENZA DELL’AMORE E DELLA MISERICORDIA
Lo «spirito» come forza
Oltre che al Padre e al Figlio, le scritture attribuiscono un’importanza del tutto particolare allo Spirito che, nel primo Testamento, si presenta come un attributo di Dio, mentre nel secondo Testamento e nella tradizione cristiana come una realtà distinta dal Padre e dal Figlio ma uguale al Padre e al Figlio e proveniente dall’Uno e dall’Altro.
Il termine ebraico per «spirito» è ruah, che letteralmente vuol dire «vento» o «aria», e che in greco viene tradotto con pneuma e in latino spiritus, da cui spirito in italiano:
«Lo spirito è il soffio, e in primo luogo quello del vento. C’è nel vento un mistero: ora, con la sua violenza irresistibile, abbatte le case, i cedri e le navi in alto mare (Ez 13, 13; 27, 26); ora s’insinua in un bisbiglio (1 Re 19, 12); ora dissecca con il suo soffio torrido la terra sterile (Es 14, 21; cf Is 30, 27-33); ora fa scorrere su di essa l’acqua feconda che fa germogliare la vita» (J. Guillet, voce Ésprit, in Vocabulaire de Théologie biblique, sous la direction di X. Léon-Dufour, Paris 1962, p. 311).
Soffio del cosmo, inteso come vivente organismo, lo spirito è soprattutto però «soffio dell’uomo» del quale ne garantisce e ne ordina l’esistenza attraverso il ritmo del respiro:
«Come il vento sulla terra massiccia e inerte, così il soffio respiratorio, fragile e vacillante, è la forza che solleva il corpo e la sua massa. Di questo soffio l’uomo non è padrone, nonostante non possa farne a meno, ed egli muore quando questo soffio si spegne. Come il vento, ma in modo più immediato, il soffio respiratorio, quello dell’uomo in particolare, viene da Dio (Gn 2,7; 6, 3; Gb 33, 4) e alla sua morte fa ritorno a lui» (Gb 34, 14s; Qo 12, 7; Sap 15, 11).
A parte comunque il significato etimologico del termine ruah come vento, ciò che il testo biblico soprattutto mette in luce è che ciò che Dio fa, lo fa sempre con la forza del suo spirito: sia quando crea il mondo chiamandolo dal non essere all’essere; sia quando sceglie uomini particolari, ad esempio i re, i profeti o il «messia», per affidare loro un compito; sia quando annuncia un futuro nuovo liberato dalla ingiustizia e dall’oppressione: «Dopo questo, / io effonderò il mio spirito / sopra ogni uomo / e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; / i vostri anziani faranno sogni, / i vostri giovani avranno visioni. / Anche sopra gli schiavi e sulle schiave, / in questi giorni, / effonderò il mio spirito» (Gl 3, 1-2); sia infine quando invia Gesù che dallo spirito è posseduto fin dalla sua nascita e dello spirito è il donatore per eccellenza con la sua morte in croce.
Ma al di là del termine e della tessitura narrativa in cui si colloca, ciò che è importante cogliere è il significato di questo termine con il quale le scritture esprimono il divino in quanto forza ed energia che come fiume fa germogliare la vita, secondo quanto, per il quarto evangelista, Gesù stesso afferma, riferendosi allo spirito che avrebbe donato con la sua morte:
«Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò a gran voce: ‘Chi ha sete venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno’. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui; infatti non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato» (Gv 7, 37-39).
Il simbolo dello spirito come forza o energia dice soprattutto il divino come Presenza che il soggetto non possiede ma dalla quale è posseduto e che agisce senza farsi afferrare, come si afferra un oggetto o un albero: il divino come as-soluto, nel senso etimologico del termine che vuol dire «sciolto», cioè libero e svincolato dall’io e dalla sua volontà di progettazione e di assimilazione. Forse è qui che va individuata la ragione profonda per cui la bibbia ricorre alla metafora del vento – o spirito – per parlare di Dio: perché il vento, come chiarisce Gesù a Nicodemo nel suo colloquio notturno sulla necessità di una «nuova nascita» o di una «nascita dall’alto», «soffia dove vuole e ne senti la voce ma non sai di dove viene e dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito» (Gv 3,8).
Imposseduto e impossedibile, lo spirito abita la storia senza che nessuno possa pretendere l’esclusiva di rappresentarlo o di farsene l’interprete: né un individuo né una filosofia, né una ideologia, né una istituzione e neppure una istituzione religiosa.
Operante nella storia ma trascendente la storia, lo Spirito è l’imprevedibile e l’improgrammabile che non si lascia catturare né dal trionfo dei vincitori né dalla disperazione degli sconfitti e che, giudizio degli uni e speranza per gli altri, impedisce alla storia, personale e collettiva, di rinchiudersi in sé e consegnarsi o alla sazietà o alla disperazione. Nella sua lettera pastorale sullo Spirito alla diocesi di Milano, Carlo Maria Martini ha scritto:
«Questa mia lettera… nasce da una convinzione profonda…: che lo Spirito c’è, anche oggi, come al tempo di Gesù e degli apostoli: c’è e sta operando, arriva prima di noi, lavora più di noi e meglio di noi; a noi non tocca né seminarlo né svegliarlo, ma anzitutto riconoscerlo, accoglierlo, assecondarlo, fargli strada, andargli dietro. C’è e non si è mai perso d’animo rispetto al nostro tempo; al contrario sorride, danza, penetra, investe, avvolge, arriva anche là dove mai avremmo immaginato. Di fronte alla crisi epocale della nostra epoca che è la perdita del senso dell’invisibile e del trascendente, la crisi del senso di Dio, lo Spirito sta giocando, nell’invisibilità e nella piccolezza, la sua partita vittoriosa» (Carlo Maria Martini, Tre racconti dello Spirito, Centro Ambrosiano, Milano 1997, p. 10-11).
La forza dell’amore
Parlando dello spirito come «energia» o come «forza», si ricorre ancora ad una metafora – del divino si può narrare e parlare solo metaforicamente – sulla quale è necessario vigilare per non incorrere in un equivoco che comprometterebbe la comprensione del linguaggio pneumatologico della bibbia, del discorso cioè che esso articola sullo Spirito. L’equivoco è legato al fatto che la metafora dell’«energia» o «forza» possa essere intesa naturalisticamente e che lo «spirito» venga interpretato come principio immanente alla natura o alla storia, come anima mundi, allo stesso modo dell’anima che vivifica il corpo, secondo quella linea estetica o cosmica che in Hillman ha trovato una delle voci più convincenti:
«Tutto ha un volto: in quanto forme espressive le cose parlano, manifestano la loro fisionomia, annunciano se stesse, danno testimonianza della loro presenza: ‘guardate, eccoci’. Esse ci guardano, al di là di come noi possiamo guardare loro e delle nostre prospettive, al di là di ciò che noi intendiamo con esse e di ciò che ne facciamo. Il mondo di immagini personalizzate, che manifesta questa esigenza di attenzione, estetica, animata, immaginativa, è un mondo pervaso di anima. Ma non basta: questo riconoscimento immaginativo, il semplice atto di immaginare il mondo, anima il mondo e lo restituisce all’anima. Per secoli abbiamo identificato l’interiorità con l’esperienza che riflette su di sé… Le cose sono quindi ‘morte’, diceva la vecchia psicologia. Dal momento che non fanno esperienza, non hanno nemmeno interiorità né soggettività né profondità. Questo modo di vedere non solo uccide le cose ma imprigiona noi in quell'angusta cella che è l’io» (J. Hillmann, Anima mundi. Il ritorno dell’anima al mondo, in «Testimonianze», ott.-dic. 1981, p. 130).
Per la bibbia lo «spirito» non è l’anima mundi, e se esso è forza, lo è in un senso diverso dall’accezione naturalistica: non la forza o energia che si dispiega e si espande spontaneamente e necessariamente, secondo la logica del principio, bensì la forza dell’amore personale che – gratuità ed evento – istituisce un «tu» altro da sé al quale si consegna, rispettandone i tempi e attendendone la risposta. La forza dell’amore – dell’amore personale tra il «tu» di Dio e il «tu» dell’uomo – è irresistibile e straordinaria perché, come afferma il Cantico dei Cantici, «forte come la morte è l’amore» (Ct 8, ); ma è forza paradossale, che è negazione della forza o energia come dimensione ultima del reale e disvelamento di un al di là della forza che è l’amore di bontà, di gratuità e di misericordia, che invece di affermarsi e vincere, sa mettersi da parte e farsi sconfiggere. A differenza dell’amore di eros o di desiderio, che è movimento irresistibile e inarrestabile verso ciò che attrae e appaga, l’amore di bontà, di gratuità e di misericordia è, per la bibbia, accoglienza dello «straniero» e del «nemico», prendendosi cura della loro sorte, soffrendo la loro sofferenza e portando il peso dei loro errori e delle loro colpe, come fa il padre con il figlio.
Quando si parla dello spirito «onnipotente» di Dio, non bisogna mai dimenticare che l’onnipotenza che la bibbia gli attribuisce è questa forma di onnipotenza: non l’onnipotenza che trionfa e vince, secondo la logica della forza dove chi ne è più dotato sopraffà chi ne è di meno, bensì l’onnipotenza dell’amore che è capace di rinunciare alla forza e – evento e miracolo – preferire alle proprie ragioni le ragioni degli altri, subire l’ingiustizia piuttosto che produrla e reagire all’offesa con un di più di amicizia piuttosto che con il rifiuto. Per la bibbia l’onnipotenza di Dio è l’onnipotenza della misericordia e del perdono, come si prega in una stupenda orazione della liturgia cristiana: «Deus, qui omnipotentiam tuam parcendo maxime et miserando manifestas». Dio è colui il quale manifesta al massimo la sua onnipotenza perdonando (parcendo) e usando misericordia (miserando). Lo spirito di Dio è questo spirito di perdono e di misericordia che, «come una colomba», scende su Gesù nel battesimo (Mt 4,1) e, dopo averlo guidato nella sua vita (cf Lc 1, 15; 4,1), «esplode» (come «esplode» la primavera o un cuore di gioia) sulla croce dove viene donato e diffuso su tutta la terra perché tutti diventino suoi discepoli: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e fate discepolo tutte le nazioni» (Mt 28, 18-19). Il «potere» che Dio ha consegnato a Gesù sulla croce è il potere del perdono e della misericordia. E il «discepolato» al quale sono chiamati gli uomini e le donne di tutti i tempi è l’esercizio di questo potere paradossale, altro dal potere e nuovo potere.
La «generazione» e la «rigenerazione» del soggetto
Potenza dell’amore che ama personalmente e singolarmente, lo Spirito è il creatore della soggettività umana: «Veni creator spiritus», si invoca in uno dei testi più noti e più belli della innologia cristiana.
Quando si parla dello «Spirito creatore», si è portati a pensare alla creazione del mondo, e anche se lo si riferisce alla creazione dell’uomo quest’ultima è pensata facilmente all’interno della prima, come una delle sue parti, anche se la più nobile ed eccellente. Una simile interpretazione trova la sua parziale giustificazione in quelle pagine bibliche dove viene istituito un nesso immediato tra lo spirito e la creazione del mondo, come ad esempio nel libro della Sapienza, dove si legge che «lo spirito del Signore riempie l’universo e, abbracciando ogni cosa, conosce ogni voce» (Sap 1,7), o che «lo spirito incorruttibile» di Dio «è in tutte le cose» (Sap 12,1), oppure ancora come nel bellissimo salmo 104 dove l’orante, dopo aver celebrato Dio come colui che dà il cibo ad ogni essere vivente al tempo opportuno, saziando di beni tutti «gli animali piccoli e grandi», aggiunge: «mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra» (Sal 104, 30).
In realtà la funzione creatrice dello Spirito riguarda in primo luogo l’uomo, e solo in quanto creatore dell’uomo, anche creatore del mondo. Non è l’uomo, per la bibbia, ad essere creato sulla falsariga del mondo ma, al contrario, il mondo ad essere creato sulla falsariga dell’uomo. Non si tratta di una sfumatura irrilevante, ma di una differenza sostanziale con la quale si afferma la trascendenza dell’uomo sul mondo e la sua irriducibilità alle sue strutture e alle sue leggi: l’uomo non come parte del mondo ma come partner di Dio, suo interlocutore e suo tu al quale Dio, per amore, dona il mondo consegnandosi e consegnandolo alla sua responsabilità d’amore.
Creatore dell’io come «il faccia a faccia» di Dio, lo Spirito crea – e può solo creare – con la forza dell’Amore: Amore che non abbandona, non si impone, non condanna, non rifiuta; Amore che sa tacere, rispettare, attendere e pazientare; ma Amore che non si rassegna ad essere rifiutato e negato, perché negarlo è negarsi e rifiutarlo è rifiutarsi, cioè perdersi e alienarsi. Per questo Amore che, perdutamente innamorato, insegue chi ama e non lo lascia in pace, chiamandolo, sollecitandolo, svegliandolo, risvegliandolo, inquietandolo e «tormentandolo» perché abbandoni il suo torpore e si consegni al suo amore. Lo Spirito è l’Amore che, abitando l’io, ma senza far corpo con l’io, ne custodisce la vocazione e la dignità, impedendogli di smarrirsi, come si smarrisce chi non ritrova il sentiero nel bosco, e conficcandosi nella sua coscienza come voce della coscienza che riduce a silenzio le altre voci – quelle dell’egoismo, degli interessi, del compromesso, della viltà, dell’ignavia, della stupidità, della indifferenza e della violenza – smascherandole come ingiuste ed evasive. La potenza dello Spirito è la potenza creatrice e ricreatrice del soggetto che non abbandona a se stesso – alla sua indifferenza e alla sua violenza – per risvegliarlo insistentemente alla sua vocazione originaria al bene. Narra una storia rabbinica che il vero esilio di Israele in Egitto non fu di essere fuori patria ma di averla dimenticata, e che Dio gli si rivelò come Dio non perché lo sottrasse al potere del Faraone ma all’oblio dei suoi padri, elevandolo così alla coscienza dell’oppressione e alla possibilità della liberazione. Lo spirito di Dio è spirito creatore che custodisce e istituisce la vocazione o identità dell’io – di ogni io – impedendone l’alienazione e l’abbandono alla indifferenza e alla violenza.
Gli «occhi nuovi»
«La prima volta che ho portato il mio figlio ritardato, Danny, a vedere anatre e colombe nel laghetto vicino, egli corse fuori dalla macchina e gridò: ‘papà, guarda, guarda!’. Avevo bisogno di quella lezione: non mi ero mai fermato a contemplare la meraviglia di quei colori e di quei voli… Come persone tragicamente depresse, non siamo neppure capaci di trascinarci fino alla finestra per guardar fuori. ‘Guarda, guarda!’ ci dicono con insistenza Danny e le Scritture»: così racconta D. C. Marguerat nel suo bel libro (Il cuore etico della tradizione ebraico-cristiana. Una lettura laica della Bibbia, Cittadella Editrice, Assisi 1998).
Lo Spirito è potenza creatrice che fa dono all’io di «occhi» che, come gli occhi di Danny, vedono ciò che altri non vedono. Ma cosa vedono gli occhi di cui fa dono lo Spirito e che altri occhi non vedono? E in che cosa consiste la meraviglia che essi contemplano, come gli occhi di Danny contemplano la meraviglia dei colori e dei voli delle anatre e delle colombe di cui fino allora il papà non si era mai accorto?
Gli «occhi» di cui fa dono lo Spirito sono occhi che permettono di contemplare una meraviglia ancora più straordinaria di quella di Danny: non la meraviglia suscitata dalla bellezza «dei colori e dei voli» – lo stupore dell’io per la compiutezza e l’armonia delle forme – bensì la meraviglia dell’io che si sa amato e, se amato, non più parte del mondo né più soggetto contemplante, sia pure contemplante la bellezza del mondo nella compiutezza della sua forma, ma tu di fronte al Tu di Dio in una relazione d’amore unica e singolare. Scrive Th. Merton:
«Alla fine, l’anima contemplativa soffre l’angoscia di capire che essa non sa più cosa sia Dio. Potrà, o non potrà, rendersi conto che dopo tutto questo è un gran vantaggio poiché ‘Dio non è un qualcosa’, non è una ‘cosa’. Questa è una delle caratteristiche essenziali dell’esperienza contemplativa. Essa rivela che non vi è un ‘qualcosa’ che possa essere chiamato Dio. Che non vi è ‘nessuna cosa’ che sia Dio, perché Dio non è un ‘qualcosa’ né una ‘cosa’, ma un puro ‘Chi’. Egli è il ‘Tu’ davanti al quale il nostro ‘io’ intimo acquista all’improvviso consapevolezza. Egli è l’‘io sono’ al cospetto del quale, con la nostra voce più personale e inalienabile, noi facciamo eco ‘io sono’» (Th. Merton, Semi di contemplazione, Garzanti, Milano 1968, p. 18).
Gli occhi di cui fa dono lo Spirito sono gli occhi dell’Amore, e attraverso questi occhi l’io si vede amato e accolto incondizionatamente: non gettato nel mondo, non frutto del caso, non abbandonato a se stesso, non in lotta con il nulla, non destinato alla morte, ma consegnato all’Amore. Ad un Amore personale che da sempre lo ha pensato e si prende cura della sua sorte, come vuole il salmo 139 dove il poeta sente di essere «conosciuto» da Dio, cioè amato, secondo il significato che questo verbo ha nella bibbia, fin dal seno materno:
«Sei tu che hai creato le mie viscere
e mi hai tessuto nel seno di mia madre.
Ti lodo perché mi hai fatto
come un prodigio;
sono stupende le tue opere,
tu mi conosci fino in fondo»
(Sal 139, 13-14).
Dotato di «occhi nuovi» – gli occhi dell’Amore – l’io non solo si scopre amato dall’Amore (nella riflessione teologica e spirituale «Spirito» e «Amore» finiranno per equivalersi) ma, come l’innamorato, vede dovunque, riflesso nel mondo, l’Amore che lo ama. Non più solo «manipolabile», in quanto rispondente al suo bisogno, né più solo «contemplabile», in quanto offerto alla sua fruizione estetica, per chi si scopre amato, il mondo è parola d’Amore dove ogni cosa, dalla pianta, al sasso, al filo d’erba, all’alba o al tramonto, parla della sollecitudine di Dio per l’uomo:
«Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai, eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6, 26-34).
Gli occhi di cui fa dono lo Spirito – Spirito dell’amore o Amore – aprono ad una visione del mondo che, come è irriducibile alla dimensione utilitaristica, così è ugualmente irriducibile alla dimensione estetica. E sarebbe un imperdonabile equivoco ermeneutico interpretare le parole di Gesù come se fossero parole poetiche. Certamente sono anche parole di straordinaria bellezza poetica. Ma sono soprattutto parole che introducono e vogliono introdurre ad un al di là del poetico e che è incommensurabilmente altro dal poetico o dall’estetico. Questo «incommensurabilmente altro», irriducibile ad ogni cosa ma iscritta in ogni cosa, è la sollecitudine dell’Amore che si prende a cuore la sorte dell’io e di ogni io. Gli occhi di cui fa dono lo Spirito sono occhi che aprono a questa dimensione altrimenti inattingibile dove tutto si trasfigura e parla il linguaggio dell’amore personale e singolare.
Il «cuore» nuovo
Più che gli «occhi nuovi», il dono più straordinario dello Spirito è però, per il racconto biblico, soprattutto il cuore nuovo, secondo la celebre pagina di Ezechiele, dove il profeta intravede un futuro dove Dio produrrà in Israele – che nel racconto biblico è il rappresentante dell’umano – una metamorfosi inaudita:
«Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio. Vi libererò da tutte le vostre impurità: chiamerò il grano e lo moltiplicherò e non vi manderò più la carestia. Moltiplicherò i frutti degli alberi e il prodotto dei campi perché non soffriate più la vergogna della fame fra le genti» (Ez 36, 26-30).
Ciò che il profeta annuncia è una «metamorfosi» o «trasformazione» straordinaria: il passaggio da un «cuore di pietra» a un «cuore di carne». Per il Nuovo Testamento, questa «metamorfosi» avviene sulla croce, dove Gesù, amando di amore di misericordia, svela e dona al mondo il principio che ne infrange la logica della indifferenza e della violenza e lo rigenera riconsegnandolo allo splendore del primo mattino della creazione quando tutto era «sette volte buono».
Passare da un «cuore di pietra» a un «cuore di carne» vuol dire lasciarsi «prendere» e «sorprendere» da questo «principio» esploso sulla croce accogliendone la logica e riproducendola. Se, come si è detto nelle pagine precedenti, lo spirito di Dio è potenza di trasformazione della soggettività umana, bisogna aggiungere ora che, per la bibbia, la radicalità di questa trasformazione è nella instaurazione di un io capace di compassione: più che un io amato gratuitamente, un io soprattutto «amante» gratuitamente, che alla indifferenza e alla ostilità risponde con il gesto dell’amicizia e della misericordia. Essere abitati dallo Spirito e produrne i frutti non vuol dire avere chissà quali esperienze percettive straordinarie, ma viversi di fronte all’altro come responsabile, accogliendolo con compassione e ospitandolo con amicizia. Avviando a conclusione la sua lettera ai Galati, Paolo li esorta:
«Vi dico, dunque, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste» (Gal 5, 16-17).
Per Paolo lo Spirito introduce nella soggettività umana una radicale divisione che attraversa e relativizza tutte le altre. Si tratta della irriducibile divisione e differenza tra la «soggettività carnale» e la «soggettività spirituale», la «soggettività» dove l’io si vive come io per sé, riducendo l’altro a sé, e la soggettività dove l’io si vive come io per l’altro, accogliendolo e servendolo, nella gratuità e nella misericordia. Ciò che costituisce la dimensione «carnale» o «spirituale» della soggettività umana non sono gli oggetti ai quali essa si consacra, secondo il dualismo greco per il quale esistono oggetti superiori e inferiori, nobili e meno nobili, bensì il modo con cui essa si rapporta all’altro, se per prenderlo e servirsene o esserne responsabile e servirlo.
Continuando la sua esortazione, Paolo precisa:
«Le opere della carne» sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizia, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere… Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5, 18-22).
Il soggetto «carnale» è il soggetto che si vive come io per sé e che in tutto ciò che fa riflette questa originaria struttura identitaria o egocentrica disegnando un mondo come irriconciliato di cui Paolo offre esempi sempre attuali («fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizia, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge»); mentre il soggetto «spirituale» è il soggetto che non vive per sé ma per l’altro e che disegna un mondo dove fiorisce il regno di Dio che è «amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé e cose del genere».
Conclusione: la «Trinità per noi» e la «Trinità in sé»
Nell’ambito teologico è comune l’affermazione secondo la quale la bibbia non ci dice chi sia Dio in sé bensì chi sia Dio per l’uomo, e che la sua rivelazione come Padre, Figlio e Spirito è rivelazione storica: rivelazione dove Dio rivela se stesso in rapporto all’uomo. Questa distinzione fra «Trinità in sé», e «Trinità per noi» è nota anche come «Trinità immanente» (ciò che Dio è in sé o tra sé e sé) e «Trinità economica»: ciò che Dio è nella sua «economia», cioè nel suo progetto salvifico (con il termine «economia» i padri intendevano infatti il disegno salvifico come si è dispiegato nella bibbia).
Questa distinzione è importante per capire che la rivelazione di Dio come Padre Figlio e Spirito non è frutto di speculazione, e che a Dio non si arriva né con la logica desiderativa né con la razionalità argomentativa. Ma una volta che Dio si è rivelato come Amore per noi, sappiamo che egli è anche Amore in sé. Se è amore per noi è perché, prima ancora, è Amore in sé.
Il mistero trinitario pertanto dice che Dio è amore non solo rispetto a noi ma anche in sé e che, per esso, l’orizzonte ultimo del reale è e può essere solo l’Amore: non l’Amore come forza o energia in cui si riproduce e si afferma la logica dell’identico; non l’Amore come coesistenza di principi irriducibili che convivono escludendosi e attraendosi; non l’Amore come fusione o simbiosi in cui l’uno ingloba l’altro cancellandone la differenza; ma l’Amore come relazione che non si chiude né chiude ma è comunione di alterità, apertura e ospitalità.
«Se nell’evento di Cristo Dio si è manifestato sia come in sé differenziato e sia come mistero di dedizione, vicinanza, amore e comunicazione estrema, e se così egli ha manifestato realmente se stesso, allora questo Dio è anche in se stesso distinto e precisamente come communio reciprocamente gratificantesi… E proprio questo la fede nel Dio uni-trino intende dire: il Dio dei cristiani non è una monade solitaria, una onnipotenza compatta, un superpadre monarchico, che abita, in qualche modo e in qualche parte – per dirla con Schiller – ‘al di sopra della volta stellare’. Il Dio uno e unico è piuttosto comunione che si fa evento in lui stesso e nel suo rapporto con noi» (G. Greshake, La fede nel Dio trinitario. Una chiave per comprendere, Queriniana, Brescia 1999, p. 17).
Mistero di comunione, il Dio trinitario o uni-trino rappresenta una rivoluzione per ogni metafisica, cioè per ogni concezione dell’essere che si vuole ultimale:
«La fede nel Dio trinitario cambia tutta la concezione della realtà. Non si tratta più dell’unità della sostanza, dell’essere-in-sé e dell’essere-per-sé, né si tratta dell’essere-collettivo, in cui tutte le distinzioni vengono cancellate, bensì alla luce del Dio uni-trino il mondo relazionale della persona si manifesta come il paradigma decisivo per comprendere la realtà e per trovarsi bene in essa. L’essenza più profonda della realtà risulta essere la relazione, l’essere-in-relazione. La realtà più alta e vera sia nel campo creaturale e più ancora nel campo divino è l’essere-insieme gli uni con gli altri» (G. Greshake, cit., p. 34).
Mistero di comunione, il Dio riconosciuto e celebrato come Padre, Figlio e Spirito è il Dio relazione e principio di ogni relazione:
«L’essere di Dio fiorisce in compagnia…
come comunione,
vibrante, vivo,
ricco di relazioni…
In ogni caso esso non è
un autrocrate solitario,
e meno che mai un idolo o un tiranno!
Piuttosto una comune relazionale,
uno per l’altro,
‘una marea d’amore dal triplice gioco’…
In ogni caso sono indotto
a pensare Dio
come una molteplicità relazionale,
come condeterminazione,
come socievolezza,
che dona, comunica, condivide con altri:
‘tutta la divinità è coinvolta
nel proprio eterno gioco d’amore’».
(Testo dello scrittore svizzero Kurt Marti, riportato da G. Greshake, cit., p. 40)