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    Essere Dio



    Educazione e mistica /4

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2012-08-71)


    «Io sono Dio»
    (Al-Hallawi, mistico sufi)

    Tutto questo testo dovrebbe essere introdotto dalla frase ebraica «kj-viakol» che tradotta letteralmente suona «per così dire»: è la frase stereotipa che i saggi giudei pronunciano quando stanno per fare un’affermazione scandalosa, pesante, shoccante, come quelle che potrebbero annidarsi nelle righe che seguono. D’altro canto la mistica ci ha abituati a concetti e pensieri che smuovono e disarticolano le abituali impostazioni teologiche, e questo è il suo ruolo. Dunque, «ki-viaqol», «per così dire…».

    Perdersi per identificarsi

    Il desiderio più profondo del mistico, soprattutto il cristiano e il musulmano, è quello di perdersi in Dio fino a identificarsi con Lui. Si tratta di realizzare la metafora della «goccia d’acqua nel barile di vino»: la goccia perde se stessa ma diventa vino, acquisisce l’identità del liquido nel quale si getta. Ma c’è anche del’altro, un concetto che dà una scossa ben più profonda alle certezze della teologia ufficiale. Qui si tratta infatti di una concezione che scavalca d’un balzo la distanza infinita che le religioni monoteistiche sembrano tracciare tra l’umano e il divino. «Diremo dunque che l’uomo diventa Dio quando ama Dio?».[1]
    L’amore dell’uomo per Dio trasforma il primo nel secondo, non semplicemente annullandolo in esso ma rendendolo partecipe delle qualità di Dio. L’uomo che prega Dio è Dio perché ne eredita l’identità, diventa compartecipe della sua divinità, come Adamo che acquisisce «gocce di profezia» quando YHWH nel Paradiso gli chiede come si debbano denominare gli animali che Egli stesso ha creato; un Dio che si dimentica i nomi degli animali e li fa riscoprire all’uomo, cedendogli per un istante la sua propria onnipotenza, è un Dio che decide di avere bisogno dell’uomo: «Egli non può fare qualcosa senza di me, più di quanto io non possa fare qualcosa senza di lui (…) Dio dona la propria divinità all’uomo».[2]
    Ovviamente Dio non ha bisogno di nulle e di nessuno, ma nel momento in cui sceglie di sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda dell’uomo, nel momento in cui esce dal nascondimento del deus absconditus per entrare nell’avventura e nel rischio della Rivelazione, in questo momento Egli sceglie lo stato di bisogno e sceglie l’interlocutore che può rispondere al suo bisogno. È questo il senso della rivelazione mosaica, quando YHWH risponde alla domanda di Mosè a proposito della sua identità con quell’«eyeh asher eyeh» che è stato erroneamente tradotto «Io sono colui che sono» mentre la traduzione letterale è «io sarò Colui che sarò», nel senso che «io sarò Dio se tu, uomo, mi aiuterai ad esserlo, mi aiuterai a realizzare il mio progetto di liberazione nei confronti del mio popolo».
    Dunque l’uomo è un soggetto privilegiato perché può diventare Dio, perdendosi in Dio stesso: «L’uomo è la cosa più alta/Nulla mi pare più alto: la cosa suprema son io/Ché anche Dio, senza di me, è poca cosa per sé».[3] Questo non significa ovviamente che il concetto di Dio venga in qualche modo svalutato o reso meno degno; come già detto, è il Dio che si rivela a scegliere la rinuncia alla propria onnipotenza, a intricare la propria storia con quella umana, a decidere liberamente di «essere poca cosa per sé». È allora un Dio in relazione quello che viene richiamato dalla mistica, un Dio che nella relazione con l’essere umano mostra uno dei suoi aspetti, quello che prevede la compartecipazione dell’uomo ai suoi progetti.
    È a proposito di questa idea relazionale di Dio, o meglio del rapporto tra Dio e l’uomo, che la mistica arriva a formulare le sue proposizioni più forti e per certi versi sorprendenti: «L’anima non deve arrestarsi finché non giunge ad essere, nel suo operare, potente quando Dio»:[4] questo non significa affatto che l’anima umana si sostituisce a Dio, ma al contrario che, rinunciando all’orgoglio della propria autosussistenza, entrando nella dimensione relazionale, pensandosi come sussistente solamente in rapporto con Dio, può condividerne la potenza. L’operare dell’anima allora non sarà semplicemente una autodeterminazione: l’anima diventa potente quanto Dio perché si annulla in Dio e si percepisce come strumento nelle sue mani. L’anima è potente quanto Dio perché è Dio, e al limite quel «quanto» rischia di essere una inutile aggiunta sintattica perché sarebbe come dire che Dio è potente quanto Dio: ma la cosa davvero interessante è che Dio ha bisogno di questo percorso dell’anima, ha bisogno di questo strumento, non tanto per realizzare la sua volontà quando per far sì che questa volontà sia condivisa e fatta propria dall’anima.

    Un arduo percorso

    In questo senso, inoltre, il percorso dell’anima è più arduo di quello di Dio, la Redenzione è una via più difficoltosa della Rivelazione, la strada dal basso verso l’alto è quasi più meritoria della strada dall’alto verso il basso: «Io sono migliore di Dio, Infatti quel che è buono può diventare migliore e quel che può diventare migliore può anche diventare il migliore di tutti. Ora Dio non è buono e perciò non può diventare migliore (…) non può neppure diventare il migliore di tutti».[5]
    Anzitutto occorre chiarire per quale motivo si affermi che «Dio non è buono»; ci aiuta lo stesso Eckhart: «Se chiamassi Dio essere parlerei tanto falsamente quanto se dicessi che il sole è pallido o nero (…) Dio non è né essere né bontà (…) Chi dicesse che Dio è buono parlerebbe male di lui come chi dicesse che il sole è nero»;[6] se Dio è infinito non è possibile attribuirgli alcuna qualità umana, nemmeno quella della bontà; è invece l’uomo ad essere buono, e questo lo pone al di sotto di Dio, ma attraverso lo sforzo che gli è richiesto egli può giungere a quell’unio mystica con la divinità e porsi al di là del bene e del male, della bontà e della cattiveria. Dio è a al di là delle categorie e degli aggettivi, per cui dire che l’uomo è migliore di Dio non costituisce affatto una offesa al secondo ma uno sprone al primo che deve ancora giungere nel non-luogo nel quale Dio (non)-è.
    Così anche Dio si rimpicciolisce, come ha fatto nel cespuglio del deserto: «Sono grande come Dio, egli è piccolo come me/Di me non può essere più alto, né io di lui più basso»;[7] l’estasi mistica raggiunge il punto adimensionale nel quale tutte le categorie di spazio e di tempo si annullano: «Presso e lontano, lì, né pon né leva:/ché dove Dio sanza mezzo governa,/la legge natural nulla rileva./Nel giallo de la rosa sempiterna,/che si digrada e dilata e redole/odor di lode al sol che sempre verna.[8] Lo stupore del mistico che giunge ad essere Dio è lo stupore di chi si trova a perdersi in una dimensione nella quale le dimensioni non valgono più, e coglie la piccolezza e la vanità di tutti i punti di riferimento: «Sono vasto come Dio; nulla v’è nel mondo intero/Che mi tenga (o meraviglia) racchiuso in sé».[9]
    Essere Dio significa imparare a relativizzare il tempo e scoprire l’eternità: «L’eternità sono io stesso».[10] Ovviamente per il mistico l’immersione nell’eternità è momentanea e provvisoria; anche l’«essere Dio» è una condizione che sarà superata con l’uscita dallo stato di estasi; semmai diventerà una infinita nostalgia o un compito per mostrare ad altri (e a se stessi) la strada da intraprendere per cogliere barlumi di quella dimora che solo dopo gli ultimi tempi sarà eternamente nostra. Ma ciò che il mistico ha colto «su per la viva luce passeggiando»[11] è una primizia e una anticipazione di uno stato eterno che spetta potenzialmente a tutti gli uomini; nella luce divina, nell’immersione nella beatitudine tutti potranno dire, e in eterno, «sono di Dio l’alter ego»,[12] perché in quello stato non vi sarà più né ego né alter.
    Nell’immersione in Dio momentanea e subito perduta, nell’essere Dio che subito viene smarrito per tornare a un essere integralmente uomo, nell’assaggio di eternità che lascia subito il posto al pasto quotidiano del qui ed ora, il mistico ci indica una strada che tutti possiamo ritrovare; è possibile dunque pensare e sognare qualcosa che vada oltre le quattro dimensioni che ci sembrano costituire la nostra condanna e il nostro destino, è possibile lasciare le nostre rive apparentemente sicure e gettarci «nell’alto mar aperto», per scoprire che la nostra identità ha la stessa vastità di quell’infinito Oceano: «... e ’l naufragar m’è dolce in questo mare».


    NOTE

    [1] Meister Eckhart, Sermoni, edizioni san Paolo, pag. 121.
    [2] Ivi, pag. 185.
    [3] Angelus Silesius, Il pellegrino cherubico, I, 284.
    [4] Meister Eckhart,. Cit. pag. 282.
    [5] Ivi, pag. 552.
    [6] Ivi, pag. 128.
    [7] Angelus Silesius, cit. I, 10.
    [8] Dante Alighieri, Paradiso, XXX, 121-126.
    [9] Silesius, cit, I. 86.
    [10] Ivi, I, 13.
    [11] Dante, Paradiso, XXX, 46.
    [12] Silesius, cit., I, 278.


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