Franco Garelli
(NPG 1992-05-26)
Come ogni sottosistema sociale, la scuola può essere considerata un ambiente caratterizzato da varie risorse in entrata e in uscita, dal cui rapporto dipende lo stato di equilibrio del sistema in oggetto. Le risorse in entrata sono quelle che permettono al sistema di funzionare e sono prevalentemente di tre tipi: ambientali o fisiche, finanziarie e relative al personale. Le risorse in uscita sono rappresentate perlopiù dalle persone formate dalla scuola, con il livello più o meno elevato di preparazione conseguito.
Nel nostro caso non faremo riferimento - per motivi di opportunità - al pur importante tema delle risorse finanziarie, che ci porterebbe troppo lontano dai nostri intendimenti e interessi. Ci pare invece più opportuno soffermarci sulle risorse fisiche e umane.
IL PROBLEMA DEGLI SPAZI FISICI DELLA SCUOLA
La «disponibilità di spazi fisici è un problema che ha accompagnato costantemente lo sviluppo della scuola italiana. La scarsità di aule, l'uso di aule precarie e di doppi turni sono fenomeni tuttora presenti» (Trivellato) nella scuola italiana. Tuttavia nel corso degli ultimi 10-15 anni si è registrato un relativo miglioramento della situazione, che ha assunto le seguenti configurazioni:
- riduzione nei vari ordini di scuola del numero delle aule precarie (site in ambienti presi in affitto o non costruiti appositamente per una funzione scolastica);
- forte contrazione del numero degli alunni collocati nei doppi turni.
La scuola italiana sembrerebbe dunque nel tempo presente meno pressata da quei vistosi condizionamenti ambientali che hanno accompagnato la sua crescita tumultuosa negli ultimi decenni, in rapporto all'avvento della scolarizzazione di massa. Pur registrando questo segnale positivo, occore comunque osservare che si tratta di un miglioramento condizionato o relativo.
Da un lato esso delinea in rapporto a tendenze medie che si riscontrano a livello nazionale, fatto questo che non rende ragione delle situazioni ambientali problematiche presenti in alcune realtà regionali o locali. In secondo luogo detto miglioramento riguarda perlopiù le aule di lezione e non prende in considerazione altre strutture pur essenziali per una scuola moderna (come le palestre, i laboratori, le varie attrezzature, ecc.). In terzo luogo all'allentamento del problema degli spazi scolastici può aver dato un contributo decisivo il fenomeno della diminuzione della popolazione studentesca, aspetto questo conseguente al processo di contrazione della natalità che interessa da vari anni il nostro paese. In tutti i casi rileviamo questo miglioramento della situazione ambientale della scuola: col passare del tempo sembrano dunque attenuarsi o stemperarsi le tensioni del nostro sistema scolastico relativamente al problema degli spazi.
LE RISORSE UMANE: GLI INSEGNANTI
Un'altra grande area di risorse della scuola sono gli insegnanti. Alla fine degli anni '80 sono presenti nella scuola italiana più di 900.000 insegnanti, 1'88% dei quali circa opera nella scuola pubblica. Sul totale degli insegnanti il 28% circa è impegnato nelle superiori, il 30% nelle medie inferiori, una quota analoga (30%) nelle elementari, e la restante quota (12% circa) nelle scuole materne.
In tutti gli ordini di scuola (materne, elementari, medie, secondarie-superiori) il tasso di crescita del numero degli insegnanti è stato - negli ultimi 15-20 anni - superiore ai tassi di incremento del numero degli alunni.
Questa tendenza di fondo ha conosciuto ovviamente accelerazioni diverse nel perfido considerato. Così negli anni '70 si è avuto un forte incremento di insegnanti a fronte di un sensibile aumento di alunni; mentre negli anni '80 si è registrato un modesto aumento di docenti a fronte però o di un ridotto aumento di alunni (nelle scuole secondarie-superiori) o di un sensibile decremento di allievi (come nel caso delle materne e delle elementari e in parte anche delle medie).
Detto in altri termini, la scuola italiana ha conosciuto negli ultimi 15-20 anni un continuo incremento, pur a tassi di velocità diversa nel tempo, del corpo docente, e ciò nonostante che da 10 anni a questa parte l'entità degli alunni abbia iniziato a diminuire (soprattutto negli ordini di scuola più bassi), in seguito al già citato fenomeno di riduzione della natalità.
L'esito di questo processo è evidente: nelle scuole materne ed elementari si è prodotto «un assottigliamento a dir poco sconvolgente degli scolari: in quindici anni il numero di alunni per insegnante si è quasi dimezzato alle materne e alle elementari. Una tendenza analoga si è prodotta anche nelle scuole medie e si estenderà nei prossimi anni alle secondarie superiori» (Trivellato). Ovviamente l'incremento recente degli insegnanti nelle superiori è da mettere in relazione alla necessità di adeguamento alla legge che prevede 25 alunni per classe.
In base all'andamento descritto si è delineato, nella situazione nazionale degli ultimi 20 anni, un rapporto alunni/insegnanti sempre più favorevole nei vari ordini di scuola. I dati Istat ci dicono che nelle scuole materne il numero di alunni per insegnante era di 29 nell'anno 70-71, di 23 nel 75-76, di 16 nell'80-81, di 14 nell'85-86.
Analogamente nella scuola dell'obbligo il rapporto tra docenti e studenti era di 1/17 all'inizio degli anni 70, di 1/15 a metà del decennio, di 1/13 all'inizio degli anni '80, di 1/12 a metà degli anni '80. Nelle superiori invece si è passati da 1 insegnante ogni 12 studenti nell'anno 70-71 e 1 docente ogni 10 studenti nell'anno 85-86.
Sulla base di uno studio di proiezione dalla Fondazione G. Agnelli di Torino il rapporto insegnanti/alunni (a tasso costante di crescita-diminuzione dei vari attori sociali, sulla base delle ultime tendenze) dovrebbe essere nell'anno 2006-7 di 1 insegnante ogni 12 alunni nelle materne, I insegnante ogni 8 allievi nella scuola dell'obbligo, I docente ogni 8 studenti nelle secondarie-superiori.
Il fenomeno qui delineato si presta ad alcune interessanti considerazioni.
- La tendenza alla diminuzione del numero di alunni per insegnante sembra anzitutto prefigurare migliori condizioni di insegnamento e di rapporti scolastici. Ciò significa che da un lato i docenti possono meglio svolgere i loro compiti di insegnamento (migliorando quindi la loro prestazione e condizione soggettiva) e che dall'altro lato si può delineare un miglioramento della qualità dell'istruzione, a totale vantaggio degli utenti del sistema scolastico e delle finalità che questa istituzione si propone.
Una conferma di questa linea di tendenza sembra emergere da un'altra considerazione. Negli anni del boom di studenti (anni '60 e '70) l'aumento degli insegnanti assumeva il carattere di adeguamento ad una domanda generalizzata di istruzione, faceva parte della strategia del sistema scolastico per far fronte (in qualche modo) al fenomeno della scolarizzazione di massa. In anni recenti l'incremento degli insegnanti, a fronte del processo di riduzione della popolazione scolastica, può indicare una maggior attenzione del sistema agli aspetti relativi alla qualità dell'istruzione. A tale proposito l'esempio più rilevante è individuabile nell'adeguamento alla già citata legge dei 25 alunni per classe.
- In margine a tutto ciò occorre però avanzare un altro rilievo, su cui insistono tutti gli esperti delle dinamiche scolastiche nazionali. Un sistema che continua a investire in insegnanti anche in un tempo in cui la popolazione scolastica sta decrescendo, può anche essere anomalo. In altri termini, tenendo presente la particolare situazione nazionale, può essere più facile (e politicamente più accattivante) continuare a investire in risorse occupazionali scolastiche che in strutture e tecnologie didattiche.
Come a dire che le risorse non sono infinite e che la quota di spesa impegnata per un personale docente che sta andando in eccedenza viene necessariamente distolta da altri possibili investimenti nel sistema scolastico.
-Un analogo ragionamento si potrebbe fare (ma su questo problema non disponiamo di dati) relativamente al tipo di insegnanti costantemente immesso nella scuola.
L'anomalia in questo caso può essere rappresentata da una politica occupazionale scolastica che continua in questi anni ad ingrossare le fila dei docenti ordinari di insegnamento più che privilegiare quelli caratterizzati da ruoli specialistici (ad esempio gli insegnanti di sostegno, i tecnici, ecc.).
LE RISORSE UMANE: GLI STUDENTI
L'analisi della risorsa «studente» comporta la presa in considerazione sia della dimensione della popolazione studentesca, sia della reale diffusione del servizio scolastico sull'insieme della popolazione che ne ha diritto-dovere. Nel primo caso si può avere un'idea dell'ampiezza dei soggetti che usufruiscono di fatto di tale servizio; nel secondo caso si tende invece a rilevare quanto il servizio scolastico sia diffuso sul totale della popolazione giovanile che avrebbe obbligo o possibilità (o diritto) di accedere ad esso.
Verso la fine degli anni '80 gli alunni iscritti ai vari ordini di scuola (compresa l'università) ammontavano a circa 11 milioni. Nel complesso il 14% frequentava la scuola materna, il 54% la scuola dell'obbligo, il 23% circa le scuole superiori, più del 9% l'università.
In parallelo a questi dati si osserva che «il comportamento più diffuso è quello di un innalzamento della scolarità: in 15 anni, la percentuale di ragazzi che frequentano un qualsiasi tipo di scuola nella fascia di età 14-18 anni è salita da poco più del 42% a circa il 57%. Questo aumento è dovuto soprattutto alla crescente domanda delle donne, che nella scuola secondaria ha praticamente raggiunto i maschi (...) e delle classi sociali medio-basse» che tendono ora a proseguire gli studi oltre la scuola dell'obbligo; anche se, come è stato rilevato, è proprio su questi gruppi sociali che più si fa sentire l'aumento di selettività della scuola italiana (Ribolzi).
Oltre a ciò si rileva che i nuovi accessi «alla scolarizzazione post-obbligo sembrano privilegiare il ciclo breve, con una minore propensione alla formazione regionale». L'ipotesi è che prevalga, in quanti accedono per la prima volta alla scolarizzazione post- obbligo «la convinzione che un diploma rappresenta una facilitazione nella ricerca del posto di lavoro, mentre la formazione professionale di primo livello non riesce a decollare come proposta professionalizzante alternativa» (Ribolzi).
Le cifre riportate sono indubbiamente rilevanti e indicano la dimensione che ha ormai assunto il sistema scolastico italiano in rapporto al numero dei soggetti che lo frequentano. A fianco di questi dati è comunque importante analizzare quanto la scuola italiana (nei vari ordini) sia in grado di raggiungere i soggetti che possono teoricamente accedere ad essa. Questo obiettivo conoscitivo è perseguibile facendo riferimento al tasso di scolarità, relativo al «rapporto (moltiplicato per 100) fra la popolazione scolastica delle singole specie di scuola e la popolazione complessiva in età riferibile alle medesime specie di scuola (elementari: 6-10, medie: 11-13 anni, secondarie superiori: 14-18 anni)»
Il tasso di scolarità
A metà degli anni '80 (periodo per cui disponiamo dei dati) il tasso di scolarità risulta pari a 100 per le scuole elementari. Ciò significherebbe che la scuola elementare è frequentata dal totale della popolazione in età compresa tra i 6 e i 10 anni. Il condizionale in questo caso è d'obbligo, perché una parte di questi frequentanti è rappresentata dai ripetenti, da chi cioè ha più di 10 anni ed è ancora inserito nella scuola elementare. Indagini parziali hanno rilevato, alla fine degli anni '70, che «tra gli iscritti alla quinta elementare una quota pari al 7% era in ritardo di un anno» e più del 3% era in ri tardo di 2 o piu anni. Quindi già nella scuola primaria vi è una quota non irrilevante di soggetti che comincia ad accumulare ritardi scolastici; aspetto questo che depone per la presenza di problemi che potranno condizionare il curriculum scolastico di queste persone e più in generale la loro formazione culturale.
Per le scuole medie troviamo poi un tasso di scolarità pari a 105. Ciò significa che vi sono 5 persone in più che frequentano la scuola dell'obbligo rispetto alle 100 che sono comprese nell'arco di età dagli 11 ai 13 anni. Il fenomeno delle ripetenze è dunque, come prevedibile, assai più accentuato nelle medie inferiori che nelle elementari. Al riguardo occorre notare una sensibile discriminazione in termini di sesso: i tassi di scolarità della scuola media sono pari a 107 per i ragazzi e a 102 per le ragazze. I maschi preadolescenti hanno quindi più probabilità di cumulare ritardi scolastici nelle medie inferiori delle ragazze della stessa età.
Anche in questo caso poi indagini parziali rivelano che «su 100 allievi di prima media sono in ritardo 9 maschi e 5 femmine; in terza media il 7% dei maschi e il 4% delle femmine» hanno più di 14 anni.
Il fenomeno comunque è più preoccupante di quanto questi dati ci dicono. Ciò perché il tasso di scolarità evidenzia quanti eccedono rispetto a quanti avrebbero diritto-dovere, in età giusta, di frequentare la scuola dell'obbligo (elementare o media inferiore), ma nulla ci dice rispetto a quelli che già hanno abbandonato la scuola per vari motivi.
Il tasso di scolarità delle scuole superiori è poi pari a 53, indicando che frequentano questo tipo di scuola il 53% dei soggetti la cui età è compresa tra i 14 e i 18 anni.
Da altre fonti però sappiamo che circa 1'8% dei ragazzi che frequentano la prima superiore ha un'età superiore ai 16 anni, e circa il 12-13% dei giovani che frequentano la quinta hanno 20 o più anni.
I tassi di abbandoni
Il discorso fatto richiama il problema degli abbandoni o dell'interruzione della frequenza scolastica, aspetto questo che delinea il mancato rinnovo dell'iscrizione alle scuole prima della conclusione di un determinato ciclo di studi.
Non tutti gli abbandoni indicano comunque l'interruzione del curriculum scolastico da parte dei soggetti interessati, in quanto essi possono eventualmente continuare gli studi privatamente e affrontare gli esami come «privatisti» appunto.
A metà degli anni '80 l'interruzione degli studi ha riguardato poco meno del 4% degli iscritti alla scuola media inferiore e circa il 9% degli iscritti alle secondarie-superiori. Si tratta, come si vede, di quote rilevanti di popolazione scolastica che abbandona un curriculum scolastico intrapreso a fronte di varie difficoltà.
Ovviamente siamo di fronte ad un'interruzione di peso e significato diverso.
Assai grave è il fatto che quasi il 4% dei ragazzi abbandoni la scuola dell'obbligo senza conseguire il diploma, senza raggiungere un requisito minimo di istruzione richiesto come condizione base per molti sbocchi occupazionali. Meno grave è l'interruzione di una scuola che non è più dell'obbligo; anche se essa delinea comunque una situazione di insuccesso sia sul versante degli investimenti soggettivi (del diretto interessato e della famiglia) sia sul versante del sistema scolastico.
Le tendenze qui rilevate sulla base dei dati Istat trovano sostanziale conferma dalle indicazioni che emergono da alcune indagini campionarie condotte sulla popolazione giovanile nazionale. Dall'indagine Iard (1987), condotta su un campione nazionale di 2.000 giovani, è possibile ricostruire le permanenze, le entrate e le uscite dal sistema scolastico dei giovani alle diverse età. In questo caso si rileva che «il fenomeno degli abbandoni inizia in età assai precoci, già col passaggio dagli 8 ai 9 anni, per assumere valori sempre maggiori negli anni successivi. Solo in parte tali uscite sono compensate dai rientri, tanto che il cumularsi delle uscite fa sì che all'età di 12 anni già il 30/o della popolazione giovanile si trovava al di fuori della scuola» (Cavalli- De Lillo). Restano fuori della scuola all'età di 14 anni il 15% dei giovani, ai 15 il 23%, ai 16 il 30%, ai 17 anni il 40%, ai 19 anni il 64%. Si tratta di dati che sembrano mettere in dubbio il carattere di massa della scolarizzazione giovanile di una nazione che pur si vuole avanzata come la nostra.
Le ripetenze
Un altro aspetto della selezione scolastica è quello relativo alle ripetenze, che si può ritenere, come è stato osservato, un preludio del fenomeno degli abbandoni. Sempre dall'indagine Iard si rileva che complessivamente «circa 1/3 dei giovani ha ripetuto almeno una classe nel corso della sua carriera scolastica», il 28,7% ha ripetuto una sola classe, mentre più del 13%, ne ha ripetuto due o più di due.
Circa il fenomeno delle ripetenze emergono poi alcune interessanti indicazioni:
- vi è innanzitutto una forte relazione tra la condizione sociale e familiare dei soggetti e l'insuccesso scolastico: tra quanti appartengono a famiglie di basso status socio-economico troviamo il 43% di ripetenti, mentre tra gli appartenenti a famiglie di status sociale alto i ripetenti sono il 28% circa;
- il ripetere una o più volte una classe si ripercuote- anche sui destini scolastici e professionali dei giovani; a questo proposito l'indagine Iard evidenzia un'interessante tipologia di carriere scolastiche dei giovani:
* i percorsi regolari interessano il 54% circa dei giovani, soggetti che sono riusciti ad ottenere il conseguimento del titolo negli anni scolastici previsti;
* i percorsi irregolari interessano invece il 29,5% dei giovani, e sono relativi a quanti hanno conosciuto nel proprio iter scolastico una interruzione o bocciatura;
* i percorsi molto irregolari riguardano invece i soggetti che hanno interrotto più volte gli studi e sono andati incontro a più ripetenze; più del 16% dei giovani è in queste condizioni;
- nel complesso si osserva poi che le ragazze hanno migliori rendimenti scolastici dei coetanei maschi.
Il passaggio da un ciclo di studio ad un altro
A completamento di quanto detto può essere interessante ancora rilevare i tassi di passaggio dalla scuola dell'obbligo alle medie superiori e meglio precisare il tasso degli abbandoni nei vari anni delle secondarie.
Con riferimento a metà degli anni '80 è stato osservato che «i tassi di passaggio dalla terza media al primo anno della secondaria superiore sono cresciuti negli ultimi anni, stabilizzandosi intorno all' 80%» (Ribolzi).
Tuttavia si è poi in presenza di una forte mortalità studentesca nel biennio delle superiori, fattore questo che sembra vanificare l'orientamento ad una maggior domanda di istruzione e di qualificazione scolastica della popolazione giovanile. «Circa il 25% di chi prosegue dopo le medie viene poi espulso.
Se ipotizziamo che la tendenza agli abbandoni sia costante (...) possiamo stimare che solo circa il 70% degli iscritti in prima conseguiranno il diploma, con forti variazioni a seconda degli indirizzi» (Ribolzi).
Le probabilità di proseguire gli studi sono assai più elevate nei licei e istituti magistrali che negli istituti tecnici; ma il tasso di abbandoni negli istituti professionali è ancora più rilevante di quello riscontrabile negli istituti tecnici.
ALCUNE OSSERVAZIONI
L'analisi della presenza degli studenti nel sistema scolastico italiano degli ultimi anni lascia intravvedere alcuni elementi positivi e altri largamente problematici. Tra i primi vi è indubbiamente il forte innalzamento della scolarità che si è registrato nel tempo (che interessa quote sempre più allargate di popolazione giovanile) e, aspetto questo di cui non si è parlato, una certa qual riduzione della selezione nella scuola dell'obbligo. Per contro tra gli aspetti problematici ci sono da annoverare i tassi di abbandoni (piú contenuti nella scuola dell'obbligo e assai più elevati in quella secondaria, con particolare riferimento al biennio), il numero delle ripetenze, la quota di soggetti che non consegue il diploma della media inferiore, ecc.
Certo i fenomeni rilevati non sono tipici soltanto del nostro sistema scolastico. Purtuttavia occorre riflettere su questi risultati che si determinano in una condizione di costante aumento del numero dei docenti e in una società che si vuole per vari aspetti avanzata e moderna. I drop out della scuola sono ancora troppi perché si possa ritenere che il nostro paese partecipi di una condizione di modernità.
Per troppi soggetti la scuola italiana assume funzioni non specificamente conoscitive, non di qualificazione culturale e tecnica. Come si sa il sistema universitario (e particolarmente quello italiano) svolge funzioni diverse e tali funzioni variano da studente a studente. Soltanto chi non conosce l'ambiente universitario si meraviglia del fatto che solo una parte degli studenti che si iscrivono all'università riesca a conseguire la laurea. Indubbiamente anche nell'università si contano varie disfunzioni. In tutti i casi si dà il fatto che per alcuni l'università funziona come ambito di formazione permanente; per altri essa svolge la funzione tradizionale di formazione professionale; per altri ancora la funzione è quella di area di parcheggio in attesa di trovare un'occupazione, o di vero e proprio mercato dei beni simbolici (relazioni sociali, sessuali, matrimoniali, ecc.).
Possiamo riassumere queste distinte funzioni dicendo che, mentre per alcuni l'università serve per accedere al «mercato delle élites», per altri studenti ciò che conta è l'immediato accesso al «mercato della qualità della vita» (De Francesco).
Per una parte dei soggetti che accedono alle secondarie-superiori la scuola sembra assumere funzioni analoghe a quelle svolte dall'università per una quota non irrilevante di studenti universitari. Come a dire che c'è in una quota di studenti un deficit di motivazioni, di preparazione, di determinazione (di cui ovviamente sono responsabili in parte sia il sistema famiglia che lo stesso sistema scolastico) che a lungo andare fanno sì che questi soggetti non siano in grado di raccordarsi allo specifico obiettivo formativo della scuola. Per essi la scuola svolge pertanto più una funzione di parcheggio, o di relazione affettive e sessuali, o di mercato della qualità della vita... che di preparazione tecnica o professionale o specificamente conoscitivo-culturale.
Un'ultima considerazione è relativa alla dispersione di risorse che si produce in un sistema scolastico caratterizzato da elevati tassi di abbandoni e di ripetenze e da una quota rilevante di soggetti che non accedono ad esso, terminando precocemente il loro curriculum scolastico. Non affermo che tutto sia perduto, né nego che anche gli iter parziali o interrotti possano avere una loro valenza formativa. Lo spreco di risorse è comunque sempre un indicatore di negativo funzionamento di un sistema: sia perché non si raggiungono gli obiettivi che ci si propone e si perdono delle opportunità (sia in chiave soggettiva che istituzionale), e sia perché le risorse non sono infinite e la cattiva utilizzazione di esse implica una loro sottrazione all'applicazione in altri possibili ambiti.
ANCORA SUGLI INSEGNANTI: PROBLEMI DI RUOLO E DI IDENTITÀ
Vorrei ancora tornare sugli insegnanti, considerando il loro ruolo centrale nel sistema scolastico. In questo caso intendo mettere in evidenza le condizioni soggettive e oggettive che caratterizzano questa categoria.
Lo spunto per questa riflessione mi viene offerto da una recente indagine svolta dal Centro Pannunzio di Torino su un campione rappresentativo di 480 docenti delle scuole secondarie-superiori del Piemonte, distribuiti proporzionalmente a seconda dei vari tipi di scuola, per età, materie di insegnamento, ecc.
L'indicazione di fondo riguarda lo scarso appagamento professionale dalla categoria: il 62% degli insegnanti riflette seriamente circa l'ipotesi di fare domanda per la pensione anticipata qualora avesse il minimo degli anni previsti dalla legge; il 30% dichiara di non aver alcun appagamento professionale e il 38% di averne poco; il 43% si sente poco riconosciuto socialmente e il 26% dichiara che il proprio lavoro è poco considerato nella società; il 53% si lamenta del trattamento economico e il 26% dichiara di essere poco contento del reddito; nello svolgimento della professione il 32% soffre di stress, il 29% prova disagio, il 21% si sente frustrato e solo il 18% non ha particolari problemi. Sono poi molteplici le cause alla base di questa allargata situazione di malessere: dal rapporto con i colleghi e col preside a quello con gli studenti e con le famiglie, dagli oneri burocratici all'insoddisfazione del proprio lavoro, ecc.; il 48% vorrebbe cambiare lavoro; il 73% non è iscritto al sindacato e il 52% dà un giudizio positivo o parzialmente positivo sui Cobas della scuola.
Sono sufficienti questi dati di un'indagine seria per rendere ragione della condizione contraddittoria e ambivalente vissuta dagli insegnanti nel tempo presente.
La prima considerazione è che questa professione stia diventando per molti un lavoro di ripiego. Nell'immaginario dei docenti c'è un secondo lavoro o un'attività alternativa (alternativa o al prepensionamento o al proseguo dell'insegnamento). Dunque si tratta prevalentemente di una professione necessitata, obbligata dalle particolari condizioni del mercato di lavoro dei laureati o dei diplomati, più che oggetto di una libera e convinta opzione. È questo un processo di mutamento che sovente viene sottovalutato nella nostra cultura, tuttora ancorata all'idea che alcune professioni abbiano a caratterizzarsi per una sorta di missionarietà.
In secondo luogo si tratta di una categoria che vive un effettivo disagio, la cui punta è individuabile nello scarso riconoscimento sociale della professione. Gli indicatori di questa scarsa considerazione sono individuabili nel reddito ritenuto basso rispetto alla qualificazione o alle aspettative (anche se obiettivamente non pare basso rispetto al carico di lavoro), nello scarso prestigio accreditato agli insegnanti dall'insieme della società, dal fatto che la categoria è troppo estesa e differenziata per poter avere un reale potere contrattuale, dalla perdita di prestigio anche nel rapporto con gli studenti. Di qui l'idea allargata che ci vorrebbe una forte rivendicazione di categoria o comunque la propensione alla protesta o all'esplicitazione del disagio.
Questo scenario di problemi fa emergere una interessante contraddizione. L'ipotesi è di aver a che fare con una categoria che da un lato risulta «arcaica» nel modo di percepire la professione (che vorrebbe quindi il recupero del prestigio del passato), che domanda riconoscimento sociale, che lamenta il deficit di considerazione pubblica; e dall'altro lato con un gruppo sociale propenso ad assumere atteggiamenti rivendicativi, di tipo neo-corporativo (rigidezza sull'orario di lavoro, domanda di alto reddito, scarsa flessibilità nella prestazione, ecc.).
A determinare il disagio del corpo docente contribuisce ovviamente anche la sensazione di operare isolatamente, senza un reale apporto dell'apparato burocratico e istituzionale. Così non sono pochi i docenti che a fronte della carenza del sistema mettono in piedi autonomamente corsi di aggiornamento o sperimentano in modo informale metodi e contenuti di insegnamento.
Da ultimo, la sottolineatura dei problemi connessi alla professione docente non deve far dimenticare i molti insegnanti che svolgono con serietà e dedizione i loro compiti all'interno della scuola italiana; né il fatto che, pur in presenza di questi problemi e condizionamenti, una parte rilevante del corpo docente continua ad operare per un positivo assolvimento del proprio ruolo.