Luis A. Gallo
(NPG 1992-07-04)
II titolo di queste riflessioni esprime con sufficiente chiarezza ciò che si pretende con esse: descrive il lungo e spesso doloroso cammino che ha percorso la Chiesa latino-americana nella ricerca di quella «terra nuova» nella quale, secondo la promessa divina, «abiterà finalmente la giustizia» (2 Pt 3, 13).
Nella descrizione si potrà vedere anche come, percorrendo tale cammino, questa Chiesa ha trovato la sua propria identità all'interno della comunione ecclesiale universale.
RIVISITANDO BREVEMENTE LA STORIA DELL'AMERICA LATINA
Come è ampiamente risaputo, il continente latino-americano passò per diverse tappe nella sua plurisecolare storia. Conviene ricordarle, sia pure in maniera molto schematica, perché ciò aiuterà a capire meglio il momento che sta vivendo al presente la Chiesa in esso.
Per molti secoli, prima che Cristoforo Colombo con le sue caravelle approdasse sulle spiagge delle «Indie Occidentali», gli uomini e i popoli che vi abitavano vissero la loro storia in forma autonoma. Avevano a disposizione una grande abbondanza di risorse, offerte loro generosamente dalla natura. Fiorirono anche tra di essi culture di notevole livello: quelle degli Aztechi nel Messico, dei Mayas nel Centro America, quella Chibcha e soprattutto quella Incaica nel Sud America, ecc.
A partire dal 1492 inizia una nuova e decisiva tappa di rilevanti conseguenze nella storia del continente e, di rimbalzo, di tutto il mondo: la scoperta del Nuovo Mondo da parte della Spagna. Con essa viene instaurata una situazione globale di colonialismo nei popoli «scoperti». La Spagna prima e il Portogallo poi - sarebbe ingiusto non ri conoscerlo - apportano dei beni considerevoli a questi popoli da loro conquistati, sia nell'ordine materiale sia soprattutto in quello culturale; ma, allo stesso tempo, li privano della loro autonomia e, in non pochi casi, ad opera di uomini avidi e senza scrupoli, li spogliano delle loro risorse, naturali e umane, impadronendosi delle loro terre, dei loro beni e delle loro ricchezze e sfruttando la loro mano d'opera a basso prezzo. Migliaia di indigeni perirono vittime dello sfruttamento o delle nuove malattie contratte al contatto con gli europei e per le quali i loro organismi non erano dotati di anticorpi.
Fra gli apporti decisivi dei conquistatori europei va annoverato, indubbiamente, quello della fede cristiana. Una fede che, in genere e come era abituale in quell'epoca, venne annunciata secondo il modo di intenderla e di viverla dei colonizzatori e, di conseguenza, incarnata generalmente in una cultura ispano-lusitana.
Più che di una evangelizzazione, molte volte si trattò di una colonizzazione culturale, poiché si obbligò praticamente gli indios a diventare spagnoli o portoghesi per poter diventare cristiani. Con notevoli eccezioni, tuttavia. Non mancarono infatti dei missionari che, oltre a tentare delle reali vie di inculturazione, si costituirono in strenui difensori della vita e della dignità degli indigeni. Il caso di Bartolomé de las Casas è indubbiamente il più rilevante, ma non l'unico.
La metodologia comunemente adoperata nell'evangelizzazione è oggi oggetto di studio e può esserlo anche di discussione; ciò che non si può discutere invece è che, come conseguenza di quello sforzo, l'America Latina diventò un continente in cui la stragrande maggioranza degli abitanti si professa ufficialmente, ancora oggi, credenti in Gesù Cristo e appartenenti alla Chiesa cattolica.
Dopo tre secoli vissuti in situazioni di dipendenza coloniale, approfittando della congiuntura storica dell'intervento napoleonico in Spagna e all'insegna delle idee illuministiche della Rivoluzione Francese, attorno al 1810 inizia il processo di indipendenza giuridica dei popoli latino-americani. Uno dopo l'altro essi conquistano la loro autonomia, con diverse vicende e in mezzo ai non pochi conflitti e difficoltà che le storie dei singoli popoli ricordano.
Quest'indipendenza non significò, in realtà, una vera emancipazione. Come rilevano gli storici, alla precedente dipendenza, vissuta a faccia scoperta, se ne sostituirono delle altre, più velate ma non meno reali: la Gran Bretagna in un primo momento e le grandi multinazionali più tardi occuparono il posto lasciato dalla Spagna e dal Portogallo.
Infine, qualche decennio fa, per influsso di fattori di diversa indole non solo continentale ma anche mondiale, che non è il caso qui di ricordare, comincia a prodursi tra i popoli del continente un intenso fenomeno di presa di coscienza della situazione di estrema e generalizzata povertà nella quale essi sono attualmente immersi.
Tale povertà si manifesta, in primo luogo, come privazione dei più elementari beni della vita: cibo, abitazione, vestito, ecc. La semplice constatazione di chi percorre le diverse regioni dell'America Latina, specialmente le zone contadine o i dintorni delle grandi città, enormemente cresciute a causa del fenomeno dell'urbanesimo, sarebbe sufficiente per far toccare con mano la realtà di tale privazione. Ma a conferma ci sono anche le statistiche più oggettive.
Oltre però ad essere privazione dei beni materiali più elementari, la povertà di questi popoli si manifesta anche come emarginazione sociale, politica e culturale.
Essa interessa, infatti, il rapporto tra i gruppi sociali, dei quali i più deboli restano sopraffatti dai pochi più forti; interessa anche l'esercizio del potere decisionale collettivo, che viene monopolizzato solo da alcuni pochi, individui o gruppi che siano. Interessa infine l'accesso alla cultura, che è reso possibile in genere solo alle minoranze, e la sopravvivenza delle culture autonome, minacciate costantemente di soffocamento.
La si può quindi qualificare, globalmente, come una povertà economico-socio-politico-culturale.
È doveroso far rilevare tuttavia che, insieme ad una simile povertà, esiste nel continente una grande ricchezza di valori umani e anche cristiani, i quali contribuiscono a dare una particolare fisionomia ai suoi popoli.
La presa di coscienza della situazione di estrema povertà a cui si è accennato sopra produsse, come era da prevedere, una reazione sempre più generalizzata: la volontà di uscirne. E, a questo scopo, vennero messi in opera successivamente due progetti globali. Progetti condizionati, nelle loro basi, dall'interpretazione delle cause che la generano.
Il primo, sviluppatosi attorno agli anni '60, fu di tipo «sviluppista». Esso partiva dalla convinzione che la povertà di questi popoli era naturale, e cioè dovuta soprattutto alla loro arretratezza nei confronti dei popoli ricchi e industrializzati di altri continenti. E, ancora, che questa loro arretratezza era il risultato naturale della loro indole poco attiva, e specialmente della loro mancanza di capitali per acquisire strumenti adeguati a tale sviluppo. Si trattava, come si può vedere, di una interpretazione elaborata all'insegna dell'antinomia «sviluppo-sottosviluppo» (industriale), tipica del momento storico in cui si trovava allora la società umana a livello mondiale.
Ciò che tale progetto proponeva come soluzione globale al problema della povertà, era l'incremento dello sviluppo industriale di questi popoli, affinché potessero arrivare almeno al livello infimo di quello raggiunto dai popoli già sviluppati del mondo.
Diverse iniziative, quali ad esempio quella della «Alleanza per il progresso», promossa e sostenuta dal presidente J. Kennedy, andavano in quella direzione. Con esse si voleva tra l'altro neutralizzare l'attrattiva esercitata in quegli anni dalla rivoluzione socialista- marxista cubana sui popoli latino-americani. Ma tali iniziative fallirono quasi completamente. Verso la metà del decennio del '60, infatti, si constatò, mediante diversi studi fatti, che la breccia che separava questi popoli poveri da quelli ricchi non solo non era scomparsa, come si sperava, bensì era cresciuta.
Davanti al fallimento della teoria dello sviluppo sorse allora, e si andò sempre più affermando, un'altra interpretazione delle cause della povertà estrema e crescente del continente. Analisi scientifiche realizzate da alcuni esperti in materia portarono alla conclusione che la causa fondamentale, benché non unica, della povertà latinoamericana si trovava nei rapporti di potere politico ed economico imposti già in passato, ma anche e soprattutto attualmente, dai centri egemonici della civiltà urbano-industriale per assicurarsi il dominio dei paesi poveri e sfruttarne le ricchezze.
Il che portò pure a concludere che le possibilità di trasformazione dei paesi poveri restavano strettamente sottoposte a detti centri, e che questi li controllavano secondo i loro interessi e le esigenze del loro benessere. In tale contesto restava chiaro che l'espressione «popoli in via di sviluppo», spesso utilizzata nei confronti dei popoli latinoamericani, era soltanto un eufemismo che ricopriva appunto il contrario, e cioè l'aumento crescente e massiccio del loro sottosviluppo, e che, in realtà, il loro sottosviluppo era concretamente parte integrante e condizionante dello sviluppo degli altri.
Questa seconda interpretazione ricevette il nome di teoria della dipendenza. La soluzione che si propose, nell'ambito di questa interpretazione, fu quella della liberazione.
Con tale espressione si intendeva significare la trasformazione globale del sistema di rapporti imperante, in ordine all'eliminazione di tale dipendenza, ritenuta appunto come radice principale della povertà e delle sue conseguenze ad ogni livello, sia collettivo che individuale.
Alla luce di questa diagnosi e di questa proposta di soluzione, intuite da molti in maniera almeno spontanea ed empirica, sorsero nell'America Latina diversi movimenti di liberazione. Movimenti che si espressero in svariate forme. Perfino, in alcuni casi - pochi, in realtà, in proporzione - in forme di violenza armata. La presa di coscienza della situazione e delle sue cause portò all'urgenza di organizzarsi e di agire in ordine all'obiettivo desiderato.
Fra quelli che optarono per questo cammino di violenza spicca la conosciuta figura di Ernesto (Che) Guevara, il quale finì i suoi giorni in Bolivia, nel 1967, in un tentativo di esportare la rivoluzione cubana a quella nazione. Il suo influsso, come si sa, è stato molto notevole non solo nell'America Latina ma anche al di fuori di essa, specialmente tra i giovani di alcuni anni fa. Nell'ambito ecclesiale ebbe molta risonanza invece la presa di posizione del prete colombiano Camillo Torres, che morì pure lui vittima della violenza, dopo aver fatto l'opzione per la guerriglia.
LA SECONDA CONFERENZA GENERALE DELL'EPISCOPATO LATINO-AMERICANO
Nel 1968, in piena effervescenza del processo di liberazione, si radunò a Medellin (Colombia) l'Episcopato latino-americano per celebrare la Seconda Conferenza Generale della sua storia.
Si era proposto come obiettivo quello di rileggere gli orientamenti e le istanze del Vaticano II a partire dalla situazione storica dell'America Latina.
L'aveva preceduto l'impatto causato dal Concilio Vaticano II, finito appena due anni prima, sui cristiani del continente, e specialmente su quelli più impegnati nel processo di liberazione. Aveva avuto una grande ripercussione fra essi soprattutto la costituzione pastorale Gaudium et Spes, che offriva loro dei nuovi strumenti per affrontare la problematica viva e scottante dei loro popoli. In modo particolare quella sollevata dalla povertà e dalle sue cause. Più da vicino aveva inciso sulla loro sensibilità, già preparata dagli orientamenti conciliari, l'enciclica Populorum Progressio di Paolo VI, pubblicata nel 1967 in aperta continuità con la succitata Costituzione.
Per raggiungere il suo obiettivo, la Conferenza iniziò col prendere in considerazione ciò che stava succedendo nel continente. E lo fece con chiaroveggenza e decisione. Anzitutto, fece sua la diagnosi, elaborata dai tecnici in materia, sulla situazione di estrema povertà in cui giacevano i popoli affidati alle sue cure pastorali e sulla causa principale della medesima: la dipendenza che li rendeva schiavi.
Infatti, la Conferenza, facendosi eco del modo di vedere le cose della Populorum Progressio, in alcuni dei suoi documenti più caratteristici (Pace, Movimenti laicali) qualificò apertamente tale situazione come un «colonialismo» esterno ed interno.
Intendeva per «colonialismo esterno» il dominio esercitato sul continente da centri di potere economico o da monopoli industriali radicati fuori dal continente; e per «colonialismo interno» quello esercitato da certi gruppi minoritari all'interno degli stessi suoi popoli. Con l'aggravante della complicità frequente tra ambedue, poiché questi ultimi esercitavano una specie di mediazione nei confronti dei primi per ciò che riguarda la dominazione e lo sfruttamento, traendone vantaggio per la propria situazione di privilegio.
Ma oltre ad assumere a fare propria questa diagnosi, a Medellin l'Episcopato latino-americano si fece propulsore di un'azione di trasformazione del continente in ordine alla sua liberazione dai colonialismi suaccennati.
Già il titolo generale dei sedici piccoli documenti elaborati dalla Conferenza insinuava tale prospettiva. In esso veniva messa in evidenza, infatti, la presenza della Chiesa «nella attuale trasformazione del continente». Ma l'idea era inoltre presente nella loro introduzione generale, che dava la tonalità all'insieme di tutti i documenti. Veniva affermato in essa che, davanti alla gravità della problematica colta, non era sufficiente riflettere, riuscire ad avere una maggior chiaroveggenza e parlare, ma era assolutamente necessario agire. E, specificando ulteriormente le cose, si affermava che l'America Latina si trovava evidentemente sotto il segno della trasformazione e dello sviluppo. Una trasformazione che, oltre a prodursi con una velocità straordinaria, arrivava a interessare tutti i livelli dell'uomo, da quello economico fino a quello religioso. Il che si presentava come un segno e un'esigenza urgente di impegno per la Chiesa intera.
Fu così che la Chiesa latino-americana, attraverso il suo Episcopato, fece allora un'opzione carica di conseguenze: optò per essere una «Chiesa dei poveri», ossia una Chiesa che mette al centro delle sue preoccupazioni e assume come angolo di visione la realtà dei poveri concreti e le loro necessità. Essa volle incarnare, nella cruda realtà storica del continente, la predilezione di Gesù Cristo per i più piccoli e deboli, rileggendo in chiave collettiva la incalzante frase del Vangelo: «Ciò che avete fatto a un dei questi fratelli miei più piccoli l'avete fatto a me» (Mt 25,40).
Negli anni che seguirono questa importante e decisiva Conferenza episcopale, e grazie certamente anche al suo indiscutibile influsso, il processo di liberazione continuò avanti nel continente, in mezzo a non poche difficoltà d'indole ecclesiale e anche politica.
Quelle d'indole ecclesiale provenivano da quei settori della Chiesa stessa che non condividevano la linea proposta, tanto per motivi teorici quanto per motivi pratici, date le implicanze che essa comportava in ambedue gli ordini: una liberazione come quella proposta esigeva un cambio profondo nel modo di concepire e di vivere la fede, di celebrarla, di orientare le energie e le attività tutte della Chiesa.
Una delle principali cause delle difficoltà di ordine politico fu invece la Dottrina della Sicurezza Nazionale, che venne impiantata in quegli anni in diverse nazioni latino-americane ad opera soprattutto dei regimi militari arrivati violentemente al potere.
Tale dottrina si caratterizzava per il fatto di essere vincolata ad un determinato modello economico-politico di tipo élitista e verticista, che sopprimeva la partecipazione ampia del popolo nelle decisioni politiche. Essa pretendeva perfino di giustificarsi come dottrina che difendeva la civiltà occidentale e cristiana, e sviluppava un sistema repressivo concorde al suo concetto di «guerra permanente», e in alcuni casi esprimeva anche una chiara intenzionalità di progagonistmo geopolitico (cf Documento di Puebla).
Malgrado tali difficoltà, tra i cristiani continuarono a moltiplicarsi i movimenti impegnati nella linea liberatrice. Tanto tra i sacerdoti quanto fra i religiosi e laici, adulti e giovani. In questo insieme occupa un posto di rilievo la vasta realtà delle Comunità Ecclesiali di Base, nate nel Brasile qualche anno prima e diffusesi poi con maggior o minor intensità in quasi tutti i popoli latino-americani. In esse soprattutto acquistò realtà e concretezza la «Chiesa dei poveri» proclamata dalla Conferenza dei Vescovi.
Come si può facilmente capire, questi diversi gruppi non agirono tutti in modo omogeneo. Non mancarono fra di essi prese di posizione alle volte estreme, che suscitarono perplessità e timori tanto nelle autorità politiche quanto in quelle ecclesiali.
Le reazioni di coloro che si opponevano a questo progetto liberatore, sia per motivi ecclesiali che politici, andarono irrigidendosi sempre più, dando spesso spazio a una violenza repressione. Una repressione incoraggiata e perfino sollecitata non poche volte dall'esterno del continente stesso, specialmente da parte di coloro che vedevano in detto progetto una minaccia alla loro propria sicurezza.
Numerosi cristiani - laici e laiche impegnati, religiosi e religiose, sacerdoti e vescovi - sacrificarono letteralmente in questo periodo le loro vite per questa causa. I «martiri» si contano a centinaia lungo l'intero continente.
LA TERZA CONFERENZA GENERALE
A dieci anni da Medellin, l'Episcopato continentale tornò a radunarsi in conferenza generale a Puebla de Los Angeles (Messico), questa volta con l'intenzione di rileggere l'Esortazione Apostolica Evangelii Nuntiandi di Paolo VI a partire dalla situazione latino-americana, e di programmare la linea di evangelizzazione da portare avanti in essa.
Per riuscire nel suo obiettivo in forma più concreta, l'Assemblea iniziò i suoi lavori descrivendo con grande realismo e in atteggiamento pastorale la situazione dell'intero continente. Così aveva fatto la Conferenza anteriore, e così si veniva facendo da diversi anni in riunioni di quel genere. Nel farlo, i Vescovi ripresero sostanzialmente, senza ignorare i cambiamenti di minore portata avvenuti nel decennio, la diagnosi elaborata da Medellin.
Seguendo le orme della Seconda Conferenza, anche questa Terza focalizzò anzitutto il fenomeno massiccio di povertà estrema esistente, e lo qualificò come «il flagello più devastante e umiliante» che colpisce la maggioranza dei latino-americani, bollandolo come «inumano» (n. 29). Disse anche che era «uno scandalo e una contraddizione con il fatto di essere cristiani», e ancora che era «contrario al piano del Creatore e all'onore che gli è dovuto» (n. 28).
Inoltre, seguendo anche in questo Medellin, mise in evidenza le cause reali di tale fenomeno. Le identificò in «situazioni e strutture economiche, sociali e politiche», in «meccanismi che, per il fatto di essere impregnati non di autentico umanesimo ma di materialismi, producono ricchi sempre più ricchi a costo di poveri sempre più poveri» (n. 30).
In poche parole e benché con terminologia differente, tornò a riconoscere nella situazione di neocolonialismo o di dipendenza strutturale la causa principale (non unica, certamente) della prostrazione economica, sociale, politica e culturale dei popoli affidati alle sue cure pastorali.
Quando si trattò di formulare una risposta che fosse adeguata alla diagnosi enunciata, la Conferenza propose globalmente il programma di una evangelizzazione liberatrice. Quale sua meta segnalò la creazione di una nuova società, più giusta e fraterna, liberata dalle concrete schiavitù economico-socio-politico-culturali vigenti, e più vicina al progetto fraterno di «comunione e partecipazione» proposto dal Vangelo.
È questa un'idea fortemente presente nel suo documento, che costituisce come la sua aspirazione di fondo. La troviamo espressa, per esempio, nella frase con cui conclude le riflessioni sul dibattuto tema del rapporto tra evangelizzazione e politica. Sostiene in essa che la missione della Chiesa, in mezzo ai conflitti che minacciano il genere umano e il continente latino-americano, e davanti ai soprusi contro la giustizia e la libertà, davanti alla ingiustizia istituzionalizzata di regimi che si ispirano ad ideologie contrapposte, e davanti alla violenza terrorista, è immensa e più che mai necessaria. E che, per svolgere tale missione, si richiede l'azione di tutta la Chiesa, impegnata senza odi né violenze, fino alle ultime conseguenze, «nel tentativo di costruire una società più giusta, libera e pacifica, anelito dei popoli dell'America Latina e frutto indispensabile di una evangelizzazione liberatrice» (n. 562).
Volendo riassumere in poche parole ciò che è stata la Conferenza di Puebla, bisogna ricorrere alle solenni parole con cui ratificò l'opzione fatta dieci anni prima da Medellin: «Torniamo a fare nostra, con rinnovata speranza nella forza vivificante dello Spirito, la presa di posizione della II Conferenza Generale, che fece una chiara e profetica opzione preferenziale e solidale per i poveri [...1. Affermiamo la necessità di conversione di tutta la Chiesa ad un'opzione preferenziale per i poveri in ordine alla loro liberazione integrale» (n. 1134).
Una peculiarità di questa Terza Conferenza è quella di aver fatto, insieme ad una prima opzione per i poveri, e al suo interno, una seconda per i giovani. Vedendo in essi, che costituiscono la maggioranza degli abitanti del continente, un'enorme forza rinnovatrice (n. 1178), volle concentrare la sua attenzione su di essi per aiutarli a convertirsi in fattori di cambio (n. 1187), e a fare in modo che, adeguatamente evangelizzati, si convertano in evangelizzatori e contribuiscano, con una risposta di amore a Cristo, alla liberazione dell'uomo e della società (n. 1166).
In questo modo collocò i giovani, che nella sua maggioranza sono anche poveri ed emarginati (n. 31), nel cuore stesso del suo progetto. Volle che essi fossero protagonisti principali in questa Chiesa dei poveri, impegnata nella causa della loro liberazione storica concreta.
DOPO PUEBLA: LA QUARTA CONFERENZA A SANTO DOMINGO (1992)
Gli anni che vanno dalla Terza Conferenza Generale dell'Episcopato ad oggi diversi fattori, avvenimenti e situazioni hanno lasciato la loro traccia sul volto della Chiesa latino-americana.
Nell'ambito socio-politico, benché i popoli abbiamo ricuperato la loro democrazia formale, per lungo tempo soffocata a causa di regimi autoritari e dittatoriali, generalmente di tipo militare, la condizione di povertà delle grandi maggioranze non è diminuita, ma è ancora ulteriormente amentata, come denunciano le statistiche che periodicamente vengono pubblicate dagli organismi competenti.
Lo sconfinato debito estero, sempre in aumento in ragione del meccanismo che lo regge, ha obbligato questi popoli negli ultimi anni a dissanguarsi per cercare di onorarlo.
Chi ne esce perdente non sono certamente i più ricchi, i quali aumentano le loro ricchezze a spese degli altri, ma la povera gente che resta a mercè della disoccupazione, della totale sproporzione degli stipendi nei confronti del costo della vita, dell'inflazione galoppante, dell'insicurezza davanti al futuro.
Come già denunciava la Populorum Progressio e come ribadiva la Conferenza di Puebla (n. 30), nell'America Latina ci sono veramente ricchi sempre più ricchi a costo di poveri sempre più poveri.
La dignità delle persone continua ad essere calpestata nelle sue dimensioni più elementari.
D'altra parte fenomeni come quello della droga e di ciò che attorno ad essa si genera, e quello della corruzione nell'amministrazione pubblica, aggravano ogni giorno la situazione.
All'interno della Chiesa gli anni che seguirono Puebla sono stati degli anni molto densi.
L'impegno di molti cristiani, anche giovani, nella linea proposta dalle Conferenze di Medellin e Puebla è andato via via maturando. Un nuovo modo di vivere, di pensare e di celebrare la fede si è andato affermando fra di essi.
La teologia della liberazione, sia nella sua forma più semplice e popolare, sia in quella più tecnica ed elaborata, è andata guadagnando terreno fino ad ottenere diritto di cittadinanza nella Chiesa universale, malgrado i molteplici attacchi di cui è stata oggetto.
Le Comunità Ecclesiali di Base si sono moltiplicate nei diversi popoli del continente, fino a formare una fitta e robusta rete che si estende, con maggiore o minore intensità, su tutta la sua geografia.
In esse è andata crescendo la coscienza di essere «la Chiesa dei poveri» non soltanto perché questi vengono aiutati da essa o perché essi sono veramente i principali protagonisti, attivi e responsabili, nella comunità credente. Una moltitudine di nuovi ministeri, assunti e svolti dai poveri reali, conferma questa coscienza.
Le difficoltà tuttavia non sono diminuite.
Anzitutto quelle di ordine ecclesiale. Come era già accaduto dopo la Conferenza di Medellin, così pure ora non tutti, dentro e fuori del continente, hanno visto di buon occhio le opzioni fatte ufficialmente da quella di Puebla. Ci sono stati degli interi Episcopati che le guardarono e continuano a guardarle con sfiducia; ci sono stati dei sacerdoti e dei laici che si sono perfino opposti apertamente ad esse.
Mentre un notevole numero di religiosi, e specialmente di religiose, hanno portato la loro coerenza con tali opzioni fino a realizzare un vero esodo - culturale, affettivo, operativo e in alcune occasioni anche locale - verso i piú poveri ed emarginati, altri si sono mantenuti al margine di tutto ciò e lo giudicano negativamente.
Ci sono poi le difficoltà d'ordine politico.
La repressione si è fatta sentire pesantemente durante questo periodo, mediante le torture, l'esilio e perfino la morte di coloro che hanno preferito essere fedeli a ciò che propose ufficialmente la Chiesa.
Fra i casi più conosciuti in questo contesto spiccano quello dell'arcivescovo Oscar Romero, del Salvador, assassinato il 24 marzo 1980, quasi appena un anno dopo la Conferenza di Puebla, a causa della sua decisa azione in difesa dei poveri del suo popolo e quello dei sei gesuiti dell'Università Cattolica del medesimo paese, eliminati, insieme a due donne loro collaboratrici, il 16 novembre 1989, in ragione al lavoro universitario esercitato da essi nella linea della liberazione integrale dei poveri.
Assieme a questi, una moltitudine di altri cristiani, non pochi dei quali giovani, hanno dato la loro vita al servizio di questa causa.
Coloro che hanno assunto questa forma di realizzazione della fede hanno trovato tuttavia due motivi di gran de incoraggiamento in mezzo a tanti travagli e sofferenze.
Anzitutto, il fatto che anche in altri continenti, e specialmente in quelli in cui la povertà costituisce uno dei problemi più lancinanti, numerosi cristiani hanno trovato ispirazione nel loro impegno per il proprio modo di vivere il cristianesimo.
Nell'Africa e nelle zone povere dell'Asia è sorto e sta crescendo un deciso movimento in questo senso.
Ma perfino in certe zone del mondo ricco si può constatare questo fenomeno: l'opzione per i poveri comincia ad essere criterio decisivo di adesione al Vangelo.
Inoltre, un secondo fatto viene ad unirsi e a dare dimensioni nuove a tutto ciò: il papa Giovanni Paolo II, nella sua Enciclica Sollicitudo Rei Socialis ha assunto la prospettiva maturata all'interno di queste Chiese del mondo povero per affrontare la situazione planetaria del mondo, e ha proposto a tutta la Chiesa quest'opzione preferenziale per i poveri come linea programmatica per la sua azione evangelica in mezzo al mondo (n. 47).
Ciò significa che la dolorosa ricerca della Chiesa latino-americana ha ricevuto l'ultimo sigillo che le mancava per acquistare la sua legittimità ecclesiale. È entrata, in qualche misura, nella «terra nuova».
Ora si avvicina la celebrazione della Quarta Assemblea Generale dell'Episcopato latino-americano, che si svolgerà all'insegna del tema della «nuova evangelizzazione».
Si sa che le interpretazioni che si danno a questa espressione sono molte e molto diverse. Si è già scritto parecchio al riguardo tanto in Europa quanto in America Latina.
Per alcuni essa consisterebbe nello sforzo di «ricristianizzare» il mondo, un mondo caduto nel secolarismo, con quella cristianizzazione che sa parecchio di «nuova cristianità». Un progetto che, se lo si esamina in profondità, è agli antipodi della linea proposta dal Vaticano II. Alla luce di tale progetto si sono già prese diverse iniziative, anche a livello latino-americano.
Bisogna dire che nell'America Latina la nuova evangelizzazione è già in corso da almeno due decenni: è l'annunzio del vangelo di Gesù Cristo che mette al centro delle sue preoccupazioni i poveri, gli emarginati, e che vuole contribuire a farli emergere verso la dignità; che perciò si iscrive decisamente nella linea liberatrice e ricomprende tutta la fede da quella prospettiva.
Sarà questa la nuova evangelizzazione che proporrà l'Assemblea a Santo Domingo? Contribuirà quest'Assemblea e darle «nuovo ardore, nuovi metodi e nuove espressioni», secondo le indicazioni di Giovanni Paolo II, o la sostituirà con altra, magari più vicina al progetto di neo-cristianità? Tornerà a ribadire, come quella di Puebla, la linea intrapresa a Medellin, sia pure aggiornata secondo le esigenze attuali, oppure l'abbandonerà per abbracciarne delle altre, magari più in sintonia con ciò che sta avvenendo in altri continenti?
I documenti preparatori non sono molto incoraggianti al riguardo, come hanno fatto notare alcuni teologi (C. Boff). Essi hanno abbandonato sia la metodologia sia certi contenuti fondamentali delle assemblee episcopali precedenti.
L'accento è spostato dalla centralità dei poveri alla centralità dell'inculturazione critica nei confronti della modernità.
Ma anche prima di Puebla si temeva un affossamento di Medellin, e poi i fatti hanno fatto rientrare tale timore.
Ci si augura che qualcosa del genere avvenga per Santo Domingo.
Ne va di mezzo l'identità della chiesa latino-americana, ne va di mezzo soprattutto la risposta evangelica a quel «clamore sempre più tumultuoso e impressionante» che si alza dai popoli latino-americani, il clamore di «un popolo che soffre e che chiede giustizia, libertà, rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo e dei popoli» (Puebla n. 87).