La specificità cristiana

della spiritualità matura

Carlo Molari


Il discorso sin qui fatto vale per ogni spiritualità, dato che ne esistono molte e nessuno può pretendere di esaurire la perfezione umana. L'umanità è una comunità che vive nella storia e solo mettendo insieme tutte le sue espressioni essa riesce ad esprimere la pienezza delle sue risorse. Il dialogo tra le diverse sue componenti è essenziale all'umanità perché possa vivere la sua avventura. Solo il dialogo interculturale e interreligioso può consentire un mutuo arricchimento. Anche la chiesa non coglie il Vangelo in pienezza finché non dialoga con le altre religioni. Ciò viene dalla convinzione che l'azione del Padre, del Figlio e dello Spirito è più vasta di quella della chiesa e questa non solo ha qualche cosa da insegnare al mondo, ma anche qualcosa da ricevere da esso (GS 44). Perché possa svolgere la sua missione la Chiesa deve essere consapevole della sua specificità.
In termini cristiani la vita spirituale è la crescita dell'uomo «interiore» (2 Cor 4, 16; Ef 3,16), che è guidato dallo Spirito di Dio, fino all'identità personale, completa e definitiva, di figlio di Dio: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio» (Rm 8,14).
La specificità cristiana della spiritualità matura è data dal riferimento a Gesù Cristo, dal carattere teologale coniugato temporalmente (fede, speranza, agape) dalla modulazione trinitaria del rapporto con Dio. Vivere la fede in Dio con riferimento a Gesù caratterizza la fede in modo storico e cristologico, le conferisce una tensione contemplativa e dà a tutta l'esistenza umana una connotazione sacra. La persona diventa un tempio e l'umanità intera il popolo di Dio.
Prima di analizzare i singoli aspetti, vorrei notare che parlare di specificità della spiritualità cristiana non significa affermarne la superiorità né l'esclusività. Esistono molteplici forme di spiritualità umana. Esse derivano dall'incapacità della creatura di raccogliere in un solo gesto il dono di Dio e di sviluppare con un solo atteggiamento le ricchezze dell'esistenza umana. Come l'uomo non può dire l'azione divina nella storia con un solo nome, così non è in grado di accoglierla con un solo atteggiamento spirituale, ma ha bisogno di moltiplicare le dimensioni interiori.
E ciò vale sia a livello individuale che comunitario. La stessa varietà delle forme spirituali all'interno del cristianesimo e lungo lo svolgersi della sua storia è il segno che la densità della vita non può esaurirsi in una sola cultura, in un solo soggetto o in un solo atteggiamento. Ne consegue che nessuna forma di spiritualità può ritenersi ultima espressione della maturità umana e quindi la forma autentica di vita. Certamente le diverse stagioni dell'esistenza consentono l'espressione più accentuata di una o dell'altra forma di spiritualità, ma il compimento sta sempre nell'armonia di tutte.[1]

Riferimento a Cristo

Ogni fede nasce e si sviluppa per l'influsso di testimonianze efficaci. La via cristiana è sorta per la testimonianza di Gesù. L'invito della Lettera agli Ebrei è chiaro: «Fissate bene lo sguardo in Gesù, l'apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo, il quale è fedele a colui che l'ha costituito, come lo fu anche Mosè in tutta la sua casa» (Eb 3,1-2). «Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede.,.Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sé una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d'animo» (Eb 12,2-3). Gesù è presentato come l'iniziatore e il perfezionatore, l'apostolo, e il sommo sacerdote della nostra fede. Altrove esso è chiamato esplicitamente «il testimone fedele» di Dio (Ap 1,5) o «icona di Dio» (Col 1, 15).
Gesù fu un uomo eminentemente spirituale. Ha fatto un passo notevole sul cammino della spiritualità umana che era già incominciata da millenni e che ancora oggi è in sviluppo. Per il cristiano la fede in Dio è necessariamente trinitaria, perché solo in questo modo vengono inserite tutte le componenti storiche dell'azione di Dio, come vengono colte all'interno della tradizione sorta da Gesù di Nazareth. Noi siamo invitati a camminare nella via di Gesù (i primi cristiani sono chiamati «seguaci della via di Cristo» in At 9, 2) tenendo lo sguardo fisso su di Lui. Ne consegue che tutta la spiritualità cristiana si sviluppa, sulla scia della fede di Gesù, come rapporto con Dio riconosciuto in Gesù come Principio di una Parola che illumina e di una Forza che dona vita e ci rende figli il cui nome è scritto nei cieli.

La fede di Gesù

La teologia abitualmente non parlava della fede di Gesù. Ora ne parla apertamente e la fede di Gesù è diventata un aspetto che ha modificato notevolmente la nostra concezione di Lui, il modello cristologico e, di riflesso, la nostra maniera di vivere la vita cristiana.
Il primo problema che incontriamo riguarda la stessa possibilità di attribuire a Gesù una fede in Dio. Come è noto, tutta la teologia scolastica negava che Gesù avesse una fede teologale. L'opinione che Gesù fosse dotato - oltre che della scienza empirica e di quella infusa - anche della visione beatifica fin dal primo istante del suo concepimento e la prevalente riduzione della fede alla dimensione conoscitiva, impedivano di attribuire a Gesù l'esercizio della fede.
Questa opinione dal sec. XII è praticamente giunta ai nostri giorni, perché nel quadro neocalcedonese era una conclusione logica. La neoscolastica ne aveva fatto un punto di fedeltà alla tradizione contro i tentativi del modernismo, prontamente condannati dal S. Uffizio.[2] Uno studio del 1965, per citare un solo esempio, affermava: «la dottrina che insegna che l'anima del Cristo dal primo istante della sua creazione godeva della visione beatifica è dottrina comune nell'ordinario e universale insegnamento della chiesa docente e nel pacifico possesso della fede della chiesa discente. Deve dunque ritenersi come «dottrina cattolica», e perciò di fede divina, mentre l'opinione contraria è da ritenersi almeno come, se non addirittura, eretica».[3]
Il punto di partenza cristologico di questa opinione è il concetto di incarnazione come si è venuto configurando all'interno della scolastica secondo il modello che alcuni chiamano neo-calcedonese. Il Verbo divino è considerato il soggetto operante in Cristo e quindi tutta la realtà umana è considerata trasformata dall'unione con Dio. Si pensa che la natura umana sia arricchita di perfezioni straordinarie come la visione di Dio, la scienza infusa ecc., che impedirebbero l'esercizio della fede teologale. Anche la formula di Calcedonia (l'unità ipostatica e la distinzione delle nature) e i dati biblici venivano inquadrati in questo schema che oggi alcuni giungono a qualificare come cripto- monofisita. Certamente non si poteva affermare quello che oggi si sostiene, e cioè che l'incarnazione umana del Logos continua fino alla Pasqua. Gesù è diventato figlio di Dio a poco a poco: «Cresceva in sapienza età e grazia ...» (Lc 2,52; Eb 5,7).
Per questo motivo la neoscolastica non si poneva neppure più il problema della preghiera di Gesù. Nell'orientamento di tale teologia l'uguaglianza della natura di Gesù con la nostra veniva stemperata al punto che è difficile trovare nell'esistenza sua, ricostruita da questi teologi, qualche aspetto in cui egli fosse realmente in tutto simile a noi fuorché nel peccato (cfr. Eb 4,15; Concilio Vaticano II, GS 22, EV 1,1386).
In realtà tutte le argomentazioni addotte in questo contesto, sia di carattere biblico che razionale, pur avendo un fondamento, valgono per lo stato glorioso di Cristo e non per la sua esistenza terrena. Argomentare, ad esempio che Cristo, come principio della beatitudine dei santi, deve possedere in sé ciò che dona ai beati ha una certa legittimità solo se riferita a Cristo costituito Messia e Signore (At 2,36), ma non vale per l'esistenza terrena di Gesù. Lo stesso può dirsi dell'argomentazione secondo cui Gesù deve possedere la pienezza della grazia (cfr. Gv 1,14) che comunica, o che in Lui «sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3).
Durante gli ultimi decenni nell'ambito teologico, anche in quello rimasto legato alla neoscolastica, il rapporto tra la visione beatifica e la fede in Gesù è stato messo in discussione per diverse ragioni. L'acquisizione dei metodi storico/critici nella lettura del Vangelo, la maggiore attenzione ai dati biblici, la purificazione del concetto di fede da sovrastrutture intellettualiste hanno modificato presupposti importanti della comune opinione teologica. Alcuni hanno contestato la legittimità dell'attribuzione a Gesù della visione beatificante di Dio nella sua esistenza terrena, altri hanno negato l'asserita connessione tra visione di Dio ed assenza della fede.
Ma la contestazione più radicale della opinione tradizionale viene da quella cristologia attuale che intende essere più fedele ai dati del Vangelo e al Concilio di Calcedonia. Essa, coerente con la sensibilità storica, dà largo spazio al cammino di fede compiuto da Gesù nella sua esistenza terrena e al valore che la preghiera ha avuto nella sua missione salvifica.
Per costoro Gesù ha vissuto una fede intensa e ha indicato modalità autentiche della fede in Dio così da divenire «iniziatore e consumatore della fede» (cfr. Eb 12,2) per tutti coloro che lo seguono. La fede di Gesù si esprime nella preghiera (mettersi in contatto con Dio per conoscere, discernere e fare la volontà di Dio), nell'obbedienza, nell'agonia, nella solitudine della croce.
Nell'ambito della teologia esistono cinque opinioni circa questo problema: la prima, tradizionale, sostiene che Gesù godeva della visione di Dio e questo gli rendeva insignificante ogni esercizio di fede.[4] Per la seconda opinione, invece, la visione beatifica, considerata certa, non impediva a Gesù un reale atteggiamento di fede nei confronti del Padre, dato che la visione beatifica riguardava il vertice dell'anima; la vita di fede, invece, le parti inferiori.[5] Per la terza opinione, la fede non può essere attribuita a Gesù neppure quando si neghi, come sembra necessario per salvaguardare il carattere storico della sua esistenza, la visione beatifica, perché i doni di conoscenza derivati dall'unione ipostatica, e soprattutto la sua coscienza di essere Dio, pongono Gesù in una situazione e in un rapporto con il Padre da escludere ogni possibile atteggiamento di fede.[6] Una quarta opinione ammette una particolare conoscenza in Gesù, che non ha però le caratteristiche e l'estensione della visione beata [7] e quindi ritiene necessario attribuire a Gesù una certa vita di fede in Dio.[8] La quinta opinione, infine, nega conoscenze speciali non legate alla sua esperienza umana e attribuisce a Gesù una fede autentica.[9]
Vi sono diverse sfumature fra costoro, ma a tutti sembra strano che per tanti secoli una sovrastruttura ideologica abbia consentito una lettura così deformata del Vangelo da negare a Gesù l'esercizio della fede in Dio e in alcuni casi anche della speranza. Oggi però sembra che l'opinione che attribuisce a Gesù Cristo l'esercizio della fede stia diventando sempre più comune.
Il fatto che i Vangeli non parlino ampiamente della fede di Gesù dipende da varie ragioni: prima di tutto i Vangeli traducono l'annuncio per suscitare la fede in Gesù e la fede di Gesù in questa prospettiva era insignificante. Inoltre, gli Evangelisti non erano molto preoccupati di descrivere le dimensioni interiori dell'esperienza religiosa di Gesù. Infine, per coloro che avevano vissuto assieme a Gesù non vi era alcun dubbio sulla sua fede, che veniva considerata un presupposto pacifico.
D'altra parte nel Nuovo Testamento non mancano riferimenti chiari alla fede di Gesù.[10] I dati del Vangelo, letti senza pregiudizi, e la formula di Calcedonia (che con i noti quattro avverbi ha indicato le caratteristiche della unione tra le nature: «senza confusione e senza mutazione, senza divisione e senza separazione»), ci chiedono di ritenere che la natura umana di Gesù non sia stata dotata di nessun arricchimento divino e quindi non abbia nessuna perfezione non dovuta o non possibile di per sé all'essere uomo. Le caratteristiche straordinarie di Gesù, come quelle dei santi, dipendono dalla straordinarietà della sua perfezione umana, raggiunta per la fedeltà a Dio.
Il tratto più importante della rivelazione che egli ha realizzato con la sua persona riguarda appunto Dio e il suo amore. Spesso ci si è preoccupati di individuare la coscienza messianica di Gesù: questo è un problema derivato e secondario. Quello principale e fontale è quale coscienza Gesù avesse di Dio e del suo rapporto con Lui. Gesù in realtà ha meno parlato di sé e della sua missione, che di Dio. Osserva giustamente Schierse: «Di fatto noi troviamo nella predicazione di Gesù riguardo a Dio il punto decisivo che forma ... la continuità storica della fede cristiana. Si dà spesso troppo poca importanza alla ricerca del Dio che Gesù ha predicato. Si crede di sapere ormai, anche senza Gesù, chi sia Dio e che cosa esiga dall'uomo».[11]
Se Gesù ricercava continuamente nella preghiera la volontà di Dio, e con fedeltà vi si abbandonava senza riserve, è perché egli aveva una particolare concezione di Dio. Se la sua esperienza religiosa era autentica, ciò che ne emerge è rivelativo di Dio e indicativo del cammino che l'uomo deve compiere per giungere alla vita. Lo stesso annuncio del regno, che costituisce il Vangelo di Gesù, è intimamente legato alla sua teologia.[12]

La redenzione operata da Gesù

Nel rinnovamento recente della teologia della salvezza (soteriologia) alcune categorie tradizionali sono apparse inadeguate e il loro uso molto ambiguo. Poiché l'annuncio della salvezza è il nucleo del Vangelo e la preoccupazione centrale della missione ecclesiale, l'ambiguità di alcune sue formule potrebbe essere molto deleteria in ordine all'efficacia della testimonianza cristiana. Per comprendere il senso della morte di Gesù bisogna eliminare due pregiudizi ancora molto presenti: che Gesù sapesse fin dall'inizio che sarebbe morto in modo violento e che tale morte era parte di un decreto divino, era cioè necessaria alla salvezza dell'umanità. Questi due pregiudizi sono ancora molto correnti, ma non sono fondati nella Scrittura.
Per questo motivo la teologia sta realizzando un profondo cambiamento di prospettiva passando da una impostazione giuridica e morale della redenzione ad una più vitale e storica. Le diverse teologie della prassi e della liberazione hanno contribuito a questo passaggio insistendo sui processi salvifici suscitati nella storia umana dall'azione dello Spirito di Cristo morto e risorto. In questa luce due concetti, frequenti nella tradizione ecclesiale, hanno richiesto precisazioni e chiarimenti. Sono quelli di espiazione e di soddisfazione. Ad essi corrispondono due modelli interpretativi della morte di Gesù, che sono stati proposti e sono stati sviluppati in tempi diversi, suscitando movimenti spirituali di innegabile importanza. Li esaminiamo brevemente.

Espiazione

Espiazione, secondo il senso comune del dizionario, significa «pagare il fio per il male fatto». Questo primo senso immediato è fuorviante. Infatti non è questo il senso biblico del termine. Nella tradizione ebraica esiste la festa dell'espiazione o giorno della purificazione (yom kippur), descritta nel cap. 16 del libro del Levitico. Essa risulta dalla fusione di due tradizioni distinte: la più antica consisteva nel caricare il capro espiatorio dei peccati del popolo e lasciarlo nel deserto per liberare i peccatori; l'altra tradizione, post-esilica, consisteva nel sacrificio di un montone, sacrificato per i peccati compiuti dal Sommo sacerdote, che presiedeva il rito, e da «tutta la comunità di Israele» durante l'anno. Con il sangue del montone immolato veniva segnato il kaporet o propiziatorio, la lamina d'oro che copriva il sancta sanctorum del tempio di Salomone, e poi anche l'altare.
Il significato simbolico del rito era molto chiaro: il sangue era considerato dagli ebrei sede della forza creatrice di Dio, ambito della sua azione salvifica. Per questo toccare il sangue rendeva impuri. Il sangue a contatto del kaporet era caricato di potenza divina, in grado di riversare sul popolo intero la benedizione e la misericordia di Dio. Il messaggio fondamentale quindi del sacrificio di espiazione è che la forza divina concentrata nel sangue dona vita e purifica dai peccati. L'espiazione non è quindi un'azione dell'uomo, ma un'azione di Dio.
L'idea è ripresa e sviluppata nel Nuovo Testamento in rapporto alla morte e al sangue di Gesù. Negli scritti di Giovanni l'analogia è sviluppata attraverso la figura dell'agnello. Nel vangelo, con le parole del Battista, l'evangelista qualifica Gesù come «agnello di Dio che toglie (o porta) i peccati del mondo» (Gv 1,29). Nella sua prima lettera egli presenta Gesù come «vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 2,2; 4,10). La figura dell'agnello immolato, ripresa anche nell'Apocalisse (cfr. Ap 5, 6.12), riassume le valenze simboliche dell'agnello pasquale, del Servo di Dio i cui carmi sono contenuti nel libro del profeta Isaia e dell'agnello sacrificato nel giorno dell'espiazione. In particolare, del Servo Isaia il testo dice che «maltrattato si lasciò umiliare e non apri la sua bocca: era come un agnello condotto al macello» (Is 53,7). Aggiunge poi che Egli «si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori. È stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità» (Is 53,5). In questo senso Giovanni può dire che Gesù «è vittima di espiazione dei nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1 Gv 2,2; cfr. 4,10). E poco dopo indiCa la natura dell'evento salvifico come processo dell'amore di Dio, che dona vita: «In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi; Dio ha mandato il suo unigenito figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui. In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato suo figlio come vittima per i nostri peccati» (1 Gv 4, 9-10). Paolo riprende questo modello quando di Gesù scrive che «Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia» (Rm 3,25).
In conclusione possiamo dire che, come il peccato è sottrazione di forza vitale perché allontana da Dio, fonte di vita per l'uomo, la salvezza è ristabilimento del rapporto con Lui, per sua iniziativa: «è stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo» (cfr. 2 Cor 5,19). Il Concilio Vaticano II nella stessa direzione ha definito il peccato come «diminuzione per l'uomo stesso, impedendogli di conseguire la propria pienezza» (GS 13). Il Catechismo degli adulti della CEI precisa che l'espiazione è «da intendere come purificazione, non come castigo sostitutivo... L'amore di Dio ha fatto di Cristo lo strumento di espiazione (cfr. Rm 3,25; 1 Gv 4,10), cioè di purificazione dei nostri peccati, di riconciliazione dei peccatori e di restaurazione dell'alleanza» (n. 256). L'espiazione in questa prospettiva è il ristabilimento del rapporto con Dio che purifica l'uomo rinnovandogli l'offerta della vita.
Il movimento descritto attraverso la simbologia dell'espiazione, quindi, richiama un'energia che da Dio è scesa e ancora scende gratuitamente verso gli uomini per comunicare loro quel dono che li costituisce figli suoi. La manifestazione concreta di questo amore salvifico si è realizzata in Gesù, che ha amato sino all'estremo (cfr. Gv 13,1). Con l'esercizio di questo amore Cristo ha introdotto lo Spirito nel mondo (Ger 31,34, la nuova alleanza che rimette i peccati) e ha avviato una fase nuova della storia umana. In questo senso Egli «è apparso per togliere i peccati del mondo» (1 Gv 3,5) e donare la vita eterna.

Soddisfazione

Nell'uso teologico soddisfazione è utilizzata sia in rapporto al sacramento della riconciliazione che in soteriologia. In quest'ultimo caso era anche chiamata soddisfazione vicaria. In generale essa è definita «compensazione sufficiente in vece o a favore di una persona per un debito materiale o morale, di cui essa per propria colpa è debitrice, secondo giustizia verso una terza persona» (Enciclopedia cattolica, Soddisfazione).
Nella tradizione cristiana questo concetto è stato applicato al rapporto fra Dio e l'uomo e vuole indicare l'amore con cui Gesù ha offerto la sua sofferenza a Dio come «compenso» e «riparazione» delle offese compiute dai peccatori. È stato soprattutto sant'Anselmo d'Aosta (che aveva studiato diritto a Padova!) a teorizzare in questo modo la salvezza nel suo Cur Deus homo?. Ma poi questa teoria è diventata universale: l'uomo ha peccato, deve riparare i danni e compensare l'offeso per l'offesa subita. Solo un giusto sofferente e innocente, solo una persona divina poteva fare quest' opera.
Anche S. Tommaso d'Aquino, che pure ha temperato l'eccessivo giuridismo della teologia precedente, rimane nella stessa direzione: «Cristo, soffrendo per amore e per obbedienza, ha offerto a Dio più di quanto esigeva la riparazione dell'offesa di tutto il genere umano» (Somma di Teologia III, 3a q. 48, a. 2).
La teologia della soddisfazione ha avuto sviluppi molto ampi negli ultimi secoli ed è giunta a formulazioni che hanno mostrato la distanza dalla rivelazione di Dio realizzata da Gesù. Il difetto principale di tale teologia è l'antropomorfismo, l'applicazione cioè a Dio delle regole che valgono tra gli uomini Quando una persona offende un'altra deve riparare in due modi: ritrattando l'offesa e offrendole un compenso per la sofferenza provocatale. Per questo la teologia della soddisfazione è stata abbandonata, anche se il termine è ancora utilizzato in un senso più ampio e generico.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica parla della soddisfazione soprattutto in rapporto al sacramento della riconciliazione. In ordine alla redenzione scrive solo: «È l'amore "sino alla fine" (Gv 13,1) che conferisce valore di redenzione e di riparazione, di soddisfazione e di espiazione al sacrificio di Cristo» (n. 616).
Il Catechismo degli adulti della CEI chiarisce che «soddisfazione vuol dire che la croce di Cristo ricostruisce l'ordine oggettivo del mondo e il suo giusto rapporto con Dio, riparando i danni causati dal peccato. La sua è una giustizia giustificante, che rende giusto chi non lo è e concretamente coincide con la sua misericordia» (n. 257). In tale modo per mantenere i termini tradizionali si modifica il loro significato. Occorre essere consapevoli dei modelli implicati nel loro uso.
Certamente il termine espiazione può essere opportunamente utilizzato richiamando il significato che gli ebrei attribuivano al sangue come principio di vita e di purificazione, senza tuttavia assumere integralmente le loro idee, legate a modelli culturali non più utilizzabili. Il termine invece di soddisfazione, valido ancora per la pratica sacramentale, è molto ambiguo in riferimento alla redenzione realizzata da Gesù. Egli infatti ci ha salvato non perché ha offerto a Dio una riparazione del peccato al posto degli uomini, ma perché ha offerto da parte di Dio a tutti i peccatori la forza dello Spirito, che purifica e rinnova. Continuare la missione di Gesù esige l'esercizio di quella stessa attitudine oblativa, di quell'amore, cioè, «sino all'estremo» con cui Gesù ha rivelato Dio.

La consapevolezza di Gesù della sua missione e della sua morte

Gesù ha assunto atteggiamenti e ha preso decisioni che hanno avuto incidenza sulla sua morte. Il primo dato che emerge con chiarezza è che Gesù ha vissuto la sua morte in rapporto alla missione che pensava aver ricevuto da Dio. Dall'atteggiamento assunto nella morte, perciò, appare l'immagine che egli aveva di Dio e che proponeva ai suoi ascoltatori.
Dal punto di vista messianico, tuttavia, la morte di Gesù è da considerarsi anomala perché nelle prospettive allora comuni la morte prematura e in particolare la morte in croce, la più crudele e ignominiosa allora esistente, non faceva parte delle profezie messianiche come erano interpretate, anzi era radicalmente opposta alle attese generali.
Leggendo i testi del Vangelo, come ci sono pervenuti, potrebbe sembrare invece immediata l'interpretazione del messianismo in chiave di sofferenza redentrice o di espiazione, perché molti testi presentano la sofferenza e la morte di Gesù come necessaria e inevitabile per il compito messianico che intendeva risolvere.
Da tutti gli studi storici ed esegetici [13] appare invece con chiarezza che il messianismo al tempo di Gesù non contemplava questa figura. Gesù non conosceva probabilmente il libro della Sapienza (scritto in greco pochi decenni prima della sua venuta tra noi) dove si parla del Giusto sofferente; conosceva invece i carmi del Servo sofferente, contenuti nel Libro del profeta Isaia (Is 42-53) e ad essi si è riferito quando ha parlato del servizio (Mc 10,45 e par.). Questi certamente sono stati visti dalle prime comunità cristiane come prefigurazione di Gesù Cristo, ma è appurato che al tempo di Gesù non erano interpretati in senso messianico e che il profeta dell'esilio a cui essi risalgono non si riferisse a un personaggio futuro.
Nessuno si aspettava un Messia di questo tipo e forse neppure Gesù ha iniziato il cammino consapevole di questa possibile figura messianica. Non sembra esservi dubbio tuttavia che a un certo momento del suo cammino, di fronte alle resistenze e ai rischi concreti di morte, Gesù si sia identificato con il Servo e abbia preannunciato la sua fine violenta. Certamente fu consapevole che la sua missione aveva un carattere messianico e che quindi quello che egli predicava ed operava doveva aveva una corrispondenza con le attese del popolo ebraico.
Non dobbiamo tuttavia pensare che per Gesù e per i suoi contemporanei l'attività messianica comportasse la necessità di affrontare la sofferenza e la morte a favore di altri. Una consapevolezza di questo tipo appare con chiarezza in una fase avanzata della vita di Gesù, quando egli comincia a percepire che, continuando sulla strada intrapresa, si sarebbe trovato di fronte ad alternative drammatiche. È necessario, quindi, distinguere la consapevolezza messianica, che caratterizza fin dall'inizio l'attività pubblica di Gesù, dalla convinzione di dover affrontare la morte, apparsa solamente in un determinato momento del suo cammino.
Il primo periodo della sua missione, quello galilaico, per certi aspetti è un cammino trionfale. Poi pian piano questo movimento entusiasta si raffreddò e anzi cominciò a prendere corpo il movimento di opposizione. Nel vangelo di Giovanni riferendosi allo "scandalo", che alcuni ricevevano da lui e alla freddezza di molti, pone la domanda ai discepoli: «Forse anche voi volete andarvene?» (Gv 6,67).
«Spesso un entusiasmo per una figura religiosa provocatrice è più forte all'inizio della sua predicazione, per poi scemare quando la scomoda qualità del suo messaggio diventa più chiara. Mentre la vicenda di Gesù procedeva, l'opposizione verso di lui potrebbe essersi accresciuta; ed egli sarebbe diventato sempre più pessimista prevedendo il peggio».[14]
Dalla Scrittura invece deduciamo che Gesù aveva cominciato con entusiasmo la sua missione in Galilea, prima come discepolo di Giovanni Battista e poi autonomamente. Il suo modo di fare missione era diverso da quello di Giovanni Battista (mangiava con i peccatori, parlava con le donne, si lasciava toccare ..., non aveva più considerazione per le leggi di purità che invece per Giovanni Battista erano ancora molto importanti). Egli assume la sua missione come una nuova «via», un cammino diverso da quello dei farisei (cfr. Atti 9,2). Dopo il battesimo e la teofania (investitura messianica, esperienza interiore fatta da Gesù) si reca nel deserto a riflettere su come svolgere la sua missione. Gesù era convinto che sarebbe stato possibile convertire Israele alla sua maniera di concepire Dio e ritrovare una religione autentica; era altrettanto convinto che era possibile purificare la religiosità israelitica e farle superare le strettezze della Legge mosaica e farisaica con la predicazione del Regno nella linea della «nuova alleanza» predicata da Geremia (31,31ss.). Gesù aveva colto con chiarezza che la superficialità e l'esteriorità in cui si era adagiata la religiosità ufficiale avrebbero provocato una tragedia per tutto il popolo. Le formule che troviamo nel Vangelo sono abbastanza dettagliate, perché risentono già dell'esperienza compiuta. Gesù parlava certamente con formule più generiche, desunte dalla tradizione profetica, in particolare apocalittica, ma forse le parole di Gesù erano ancora più vive e taglienti.
Egli aveva intuito che occorreva una svolta, un modo nuovo di vivere il rapporto con Dio. Gesù aveva capito che la volontà del Padre spingeva il suo popolo in questa direzione. Sarebbe stata un'infedeltà alla parola di Dio che risuonava in lui rinunciare a questo annuncio. Significava per lui dare per scontato il fallimento e la fine di una lunga fase della storia del popolo ebraico, che stava giungendo a compimento.
La natura e le caratteristiche della fase nuova erano necessariamente molto meno chiare dell'intuizione della tragedia che aveva figure già consolidate nelle numerose esperienze storiche come la distruzione del tempio e la dispersione tra le genti. Nel Vangelo si trovano metafore come la nascita nuova, la venuta dello Spirito e soprattutto la resurrezione. Egli pensava inizialmente che le sue proposte sarebbero state accolte perché erano sviluppi coerenti con la tradizione e necessari per vivere il tempo presente. Furono, invece, rifiutate. Fu la «crisi galilaica», quando alcuni discepoli lo abbandonarono perché diceva cose «dure» (Gv 6,60). Il contrasto esploderà anche nei confronti degli apostoli quando Gesù comincerà a parlare di morte cruenta: «Cominciò a insegnar loro che il Figlio dell'uomo doveva soffrire, essere riprovato dagli anziani e dai sommi sacerdoti e dagli scribi e venire ucciso. Gesù faceva questo discorso apertamente. Allora Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i discepoli, rimproverò Pietro e gli disse: Lungi da me, Satana, perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mc 8,31-33).
Analogo contrasto si verifica con la gente, che attendeva da Gesù miracoli, ma non era disposta a seguirlo nelle sue proposte di conversione. Con i capi del popolo, poi, e con i sommi sacerdoti il conflitto si delineò in modo ancora più radicale e sfocerà nella loro decisione di eliminare fisicamente il predicatore pericoloso.
Rifiutato dai responsabili della religione, abbandonato dalla gente e da alcuni discepoli, Gesù si concentrò nella formazione del gruppo dei discepoli rimasti con lui e dei Dodici in particolare.
In questo contesto, dopo aver pregato, Gesù chiese agli apostoli che cosa pensasse la gente di Lui e volle anche sapere quale fosse la loro opinione (Le 9,18-20). Per la stessa ragione, dopo alcuni giorni, decise di condurre con sé tre degli apostoli più influenti «e sali sul monte per pregare» (Lc 9,28); scelse poi di proseguire il cammino verso Gerusalemme pur prevedendo che sarebbe stata la sua morte (Lc 9,52) e sentendo che era suo dovere continuare senza fermarsi. L'intensificazione della preghiera da parte di Gesù, o almeno la più frequente registrazione fatta dagli evangelisti nel periodo della crisi, è il segno della sua profonda riflessione per capire ciò che accadeva e per decidere, secondo le esigenze del Regno, che quella era la volontà di Dio per lui. Le resistenze opposte dai discepoli e dalla gente al suo progetto potevano rendere vana tutta la sua attività.
Nello stesso tempo egli maturò la sua spiritualità del Servo sofferente: Gesù aveva simpatia per il Deutero-Isaia e quindi, riflettendo sui Carmi del Servo di Yahwé, comprese la necessità di prendere su di sé la situazione del popolo ostinatamente chiuso in se stesso, e di continuare il suo cammino per provare la possibilità di vivere nell'amore anche in mezzo all'ostilità e al rifiuto e fidandosi totalmente di Dio. Se si fosse fermato o si fosse ritirato davanti alle difficoltà, nessuno avrebbe mai più accolto il Vangelo. Nell'ultima settimana della sua vita si rese conto che le difficoltà stavano diventando sempre più gravi. Per questo egli aveva fatto già dei gesti simbolici a Gerusalemme (ingresso in Gerusalemme sull'asinello, la purificazione del tempio, l'introduzione dei poveri e degli handicappati nel tempio). Erano gesti che volevano provocare ancora una volta alla conversione. Altrettanto provocatoria fu la parabola dei vignaioli assassini (Mt 21, 33-45) chiaramente allusiva al rifiuto delle autorità e alla sua possibile morte violenta. Gesù era consapevole del rischio che stava correndo, ma continuava la sua missione fidandosi di Dio e lasciando fare a lui. Questa è la fede di Gesù.

La possibile fine drammatica della sua missione

Quando si accentuò il movimento di resistenza Gesù cominciò a parlare dei profeti che vengono rifiutati e il cui destino è la morte. Anche il pianto di Gesù di fronte a Gerusalemme è indicativo di un tormento che egli viveva, per il rifiuto di ciò che stava proponendo: «Quando fu vicino, alla vista della città pianse su di essa, dicendo: Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della tua pace!... Tu non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata» (Lc 19,41-42,44). Noi spesso riteniamo che sia espressione di fortezza affrontare situazioni difficili con una certa freddezza o durezza. Il coinvolgimento di Gesù nella sua missione giunge fino a esprimersi nel pianto. Nella preghiera dell'agonia il pianto diventerà sudore di sangue (cfr. Lc 22,44).
A Gesù si pose quindi il problema: che cosa fare di fronte al rifiuto. Diverse alternative si sono certamente presentate al suo spirito: tornare indietro? aspettare tempi migliori? tentare un compromesso con le autorità? Gesù assunse un atteggiamento molto chiaro. Prese posizione nei confronti della morte conferendo un senso nuovo a tutta la sua attività. Egli, consapevole che la sua parola causava divisioni e rotture, decise di salire a Gerusalemme per lanciare nel cuore del potere giudaico la sua sfida, pur sapendo che rischiava la morte.
È probabile che inizialmente Gesù temesse di essere lapidato perché veniva accusato di essere un bestemmiatore, a causa del suo atteggiamento nei confronti del sabato, del tempio, delle tradizioni. La bestemmia, secondo la legge mosaica, doveva essere punita con la lapidazione. Di fatto Giovanni narra i tentativi di lapidare Gesù: «Presero allora delle pietre per scagliargliele addosso. Gesù però si nascose e uscì dal tempio» (Gv 8, 59: cfr. 10, 31-32).
Gesù rifiutava la morte come ingiusta e insensata, però sapeva che il profeta, fedele alla sua missione, deve saper anche morire per realizzarla. A un certo momento egli intuí che l'inizio nuovo, la venuta del Regno di Dio, passava attraverso la sua fedeltà. Questa intuizione, alimentata nella preghiera, lo condusse a correre il rischio della morte e ad abbandonarsi al suo destino.
Gesù di fronte all'eventualità della morte violenta come conseguenza della sua predicazione si pone certamente il problema se proseguire nel suo cammino. Egli intensifica la preghiera e coinvolge anche alcuni suoi discepoli. La Trasfigurazione diventa per Lui una conferma del suo cammino: «Tu sei mio figlio». È la stessa formula che c'è nel Battesimo. Alla fine, dopo la preghiera e questa conferma, Gesù prende la grande decisione. Nel capitolo 9 di Luca, dopo la Trasfigurazione, al v. 51 una formula richiama la connessione tra la decisione di Gesù e la sua morte: «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo decise risolutamente di salire a Gerusalemme» (Lc 9,51).
In un certo senso è l'ultima sfida che egli lancia con piena consapevolezza. La volontà di essere fedele fino in fondo alla sua missione ha determinato la necessità (déi) del suo destino di morte. Per questo il Nuovo Testamento può dire che egli si offre per la morte.
Nel racconto dell'agonia, soprattutto in Luca (22,39-46), appare con chiarezza la lotta sostenuta di fronte alla morte. «Uscito se ne andò come al solito al monte degli ulivi. Anche i discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo, disse loro: "Pregate per non entrare in tentazione"». Tentazione era il rifiuto di vivere con fedeltà gli ideali proclamati fino in fondo; e quindi la rinuncia alla missione. «Poi si ritirò da loro quanto un tiro di sasso e inginocchiatosi così pregava: "Padre, se vuoi, allontana da me questo calice. Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà". Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. In preda all'angoscia pregava più intensamente e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra. Poi rialzatosi dalla preghiera andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la stanchezza e disse loro: "Perché dormite? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione"».
Gesù avvertiva la difficoltà di essere fedele in quelle circostanze. Come sarebbe stato possibile amare, perdonare, esprimere misericordia nelle condizioni ingiuste, violente e crudeli che si stavano delineando? Come avrebbe potuto vivere l'annuncio che aveva fatto, in quella circostanza estremamente ingiusta e violenta? Ma la verità della sua proposta sarebbe parsa solamente dalla sua fedeltà. La fedeltà perciò prevalse sulla paura e la preghiera costituì il segreto della sua forza.

La necessità della morte come rivelazione di Dio e servizio ai fratelli

Il Vangelo più volte nel riferire le parole di Gesù utilizza il verbo greco «déi»: è necessario. Negli ultimi tempi della sua vita certamente Gesù si è convinto che, stando le resistenze profonde dei sommi sacerdoti e dei capi del popolo giudaico, i sentieri del regno di Dio attraversavano la sua morte. Nella prima predizione della sua fine cruenta Gesù afferma: «Il Figlio dell'uomo deve soffrire molto ed essere riprovato ed essere messo a morte» (Lc 9,22). Dopo aver appreso che Erode vuole ucciderlo (Lc 13,31) Gesù esclama: «Però è necessario (dêi) che io vada per la mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,33). Poco prima aveva esclamato: «C'è un battesimo che devo ricevere; e come sono angosciato finché non sia compiuto» (Lc 12,50). «Il figlio dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).
Vi sono state nei secoli diverse interpretazioni di questa necessità. Spesso è stata attribuita a un decreto di Dio per l'espiazione dei peccati umani. In questa prospettiva gli uomini sarebbero stati semplici strumenti di una decisione divina, cui non si poteva resistere. Questo modo di leggere la storia, e in particolare la storia di Gesù, è certamente errato e teologicamente improduttivo.
Dio è certamente coinvolto nell'avventura di Gesù, ma la sua fine tragica è decisa dagli uomini con sentenza ingiusta. Gesù perciò ha vissuto la sua morte come un'ingiustizia, e come tale contraria al volere di Dio. Allo stesso modo Egli ha visto il tradimento di Giuda come un male non corrispondente al progetto di Dio. «Il figlio dell'uomo parte, come è stato decretato; ma guai a quell'uomo per il quale egli è tradito» (Lc 22,22). Vi è, secondo Gesù, una necessità legata al rifiuto della sua proposta, al tradimento di Giuda, alla paura dei capi che credevano di doversi difendere dalle possibili conseguenze della sua azione.
Gli eventi della storia nella loro concatenazione lo conducevano alla morte. La sua fedeltà e il rifiuto dei capi del popolo di accogliere la sua proposta si intrecciavano in un destino di morte, da cui non v'era scampo. È un destino legato alle dinamiche storiche. In esso però è coinvolta la fedeltà di Gesù alla volontà di Dio.
Dobbiamo quindi chiederci come Gesù ha percepito il coinvolgimento di Dio nella sua decisione. Gesù non ha affrontato la morte come l'esecuzione di un decreto divino, perché la sua morte è stata decisa dagli uomini, in modo ingiusto e violento. Gesù tuttavia ha vissuto la sua condanna e la sua morte come momento storicamente necessario per il compimento di un progetto divino che Egli si era impegnato a realizzare. «Le circostanze lo spinsero a dare alla morte imminente un posto nella propria fiducia radicale in Dio».[15]
Il senso della fedeltà di Gesù sta nell'immagine di Dio che egli vive e che rivela, nella certezza della misericordia che professa e che induce. «Parafrasando Michea 6,8 si potrebbe dire che Gesù vede con chiarezza sino alla fine quello che Dio richiede ad ogni essere umano: bisogna seguitare a praticare la giustizia e ad amare con tenerezza. Vede pure con chiarezza che bisogna seguitare a camminare con Dio nella storia umilmente. Vede che questa è per lui una cosa buona e gli viene richiesta».[16]
Questo è un aspetto sconvolgente dell'annuncio di Gesù e della rivelazione da Lui realizzata. La morte di Gesù è la morte di un derelitto, di un condannato ingiustamente come delinquente, di un abbandonato da tutti, che pone fiducia in Dio e mostra a quale grado di umanità tale fiducia conduca. Egli così compie la rivelazione di Dio che era la sua missione.
Per lungo tempo in tutte le culture, e quindi anche in quella ebraica, era normale pensare che Dio era dalla parte dei potenti, dei ricchi, di coloro che venivano unti come capi del popolo: essi erano rappresentanti di Dio, perché parlavano per conto di Dio, stabilivano le leggi per suo mandato. La religiosità umana è passata per questa fase. Gesù rappresenta un momento di svolta: Egli rivela che Dio sta dalla parte degli ultimi.
Gesù non solo propone la nuova immagine di Dio, riprendendo e portando a compimento annunci precedenti, ma la vive nella sua carne, rivela cioè Dio diventando lui stesso ultimo, abbandonato, sconfitto. In questo senso il salmo 22 che egli cita sulla croce e che in Matteo e Marco rappresenta il suo grido della morte, è proprio l'esperienza della desolazione: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34; Mt 27,46).
L'opposizione e il rifiuto alla sua proposta, concentrata nella rivelazione di Dio misericordioso, sono tali che egli deve giungere alla suprema abiezione per poter compiere la sua rivelazione. Proprio sulla croce perciò Gesù rivela il progetto del Regno, perché abbandonandosi fiduciosamente a Dio mostra nella sua morte la misericordia nei confronti di coloro che soffrivano con lui e il perdono per i suoi uccisori.
La morte di Gesù quindi è stata un momento supremo della rivelazione di Dio. Gesù ha vissuto la sua morte come fedeltà alla missione epifanica della sua vita. Anche se quando ha cominciato la sua missione non immaginava una fine di questo tipo, man mano che gli eventi si sono succeduti, la fedeltà alla missione che egli aveva accolto, alla parola che egli aveva incarnato nella sua esistenza storica, l'ha condotto ad accettare la morte crudele e infamante della croce, come momento necessario della sua missione.
La necessità della sua morte è quindi anche legata al volere di Dio, non nel senso che Gesù dovesse necessariamente morire per decisione del Padre, ma perché l'annuncio del Regno, che corrispondeva alla volontà del Padre, nello sviluppo degli eventi ha richiesto di fatto la fedeltà nella morte. Proprio questa fedeltà costituisce la ragione del cammino successivo della sua chiesa; Anche se si prescinde dalla resurrezione e dalla glorificazione di Gesù, se si esamina solo la storia, si constata che tutto è cominciato per il modo con cui Gesù si è posto di fronte alla sua morte. È stata questa fedeltà radicale a fiorire nella fedeltà dei tanti che hanno percorso e che percorrono tuttora il suo cammino.
Per questo l'atteggiamento che Gesù ha maturato nei confronti della morte è la chiave per interpretare non solo la sua avventura, ma anche la storia della chiesa; per capire quindi il cammino di tutti coloro che hanno perpetuato nei secoli la fedeltà con cui Gesù ha vissuto la sua missione e sono stati perciò in grado di testimoniare anche nella morte l'efficacia del Vangelo. Il nostro fine e traguardo è «diventare figli di Dio» (Gv 1,12). L'avventura di Gesù mostra che la morte può essere il momento della identificazione suprema.

La cena pasquale

Al momento della cena pasquale Gesù indicò gli atteggiamenti con cui intendeva affrontare la situazione che si stava delineando. Per questo nel corso della cena egli compì tre gesti simbolici o profetici: la lavanda dei piedi, il pane spezzato e dato «per voi» e il calice versato e condiviso (ognuno aveva il proprio, ma Gesù fa circolare il suo). Abbiamo due racconti della cena: uno antiocheno-paolino di Luca e Paolo e uno giudaico di Matteo e Marco. Matteo e Marco sembrano rifarsi a Mosè e all'alleanza del Sinai, mentre Luca e Paolo alla «nuova alleanza» di Geremia. Geremia non parlava del sangue, ma dello Spirito e del perdono dei peccati. Nel caso di Cristo, il sangue infatti fu dovuto alla resistenza violenta dei suoi avversari.
La cena pasquale fu forse anticipata da Gesù all'inizio del mercoledì secondo il calendario degli esseni perché fu crocefisso il giorno della Parasceve, quando appunto gli ebrei preparavano gli agnelli per la cena pasquale che quell'anno celebrarono all'inizio del sabato (il grande sabato; nel 30 la Pasqua cadde di sabato come anche nel 33). Gesù quindi muore probabilmente il 7 aprile 30. Nella sua morte Gesù esprime la misericordia e l'amore di Dio per noi. Gesù ci salva non per il sangue versato, ma perché il suo corpo diventa l'ambito sacro, cioè riservato a Dio (sacrificio: sacrum facere) per rivelare il suo amore misericordioso.
La lettera agli Ebrei anticipa all'inizio dell'esistenza l'atteggiamento di dedizione che Gesù portò a compimento sulla croce: «mi hai dato un corpo.. ecco io vengo, o Dio, per compiere la tua volontà» (Eb 10, 5-18). Gesù compie la volontà di Dio rivelando il suo amore, perdonando, proclamando il Vangelo e offrendo lo Spirito. In tale modo compie l'antica alleanza e stabilisce la nuova (v. 9). L'amore esercitato sulla croce sancisce l'offerta maturata lungo tutta la sua esistenza. Al momento della cena finale Gesù esprime la consapevolezza che il giorno in cui egli stabilirà la nuova alleanza è ormai imminente. Del resto già Giovanni Battista, compresa la grandezza del suo discepolo di Nazareth, aveva chiamato Gesù «Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo» (Gv 1, 29), colui che realizza quindi la nuova alleanza secondo la parola di Geremia: «Perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato» (Ger 31,34). L'agnello era anche il servo (taljià in aramaico significa agnello e servo). Gesù, attraverso la fedeltà alla sua missione e la sua fede in Dio, ci ha rivelato la forza dell'amore di Dio che purifica (espiazione).
Nella sua esperienza e nel suo insegnamento Gesù è stato il segno concreto del valore della morte come criterio di vita. La «sua ora», come in Giovanni Gesù chiama la sua morte, ha orientato tutti i suoi passi ed è diventata la ragione delle sue scelte. Per questo Egli è stato l'espressione concreta delle esigenze della vita nella fedeltà della morte. La croce, luogo della sua fedeltà, è diventato il simbolo di chi vive fino alla pienezza.
Nella morte egli ha raggiunto la sua identità di Figlio ed è stato costituito Messia e Signore per noi. Sulla croce Egli «è stato esaltato e gli è stato dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9). Nella croce egli ha mostrato la forza dell'insegnamento che aveva dato sull'obbedienza, sulla povertà e sull'amore e quindi ha mostrato la verità della sua vita: obbediente, povero e oblativo nell'amore.
Egli aveva chiesto di distaccarsi completamente dalle cose: «Chi non rinunzia ai suoi beni non può essere mio discepolo» (Lc 14,33). Egli infatti sapeva che: «Non si può servire due padroni» (Mt 5,34; 19,21-26), perché «dove è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore» (Lc 12,34); o si è servi di Dio e si diventa vivi o si è schiavi delle cose e si perde la vita. Quando ci è chiesta la vita, non possiamo offrire le cose. La vita può essere offerta solo da coloro che non l'hanno affidata agli idoli.
In questo senso il riferimento a Gesù è per noi straordinariamente efficace, perché attraverso Gesù abbiamo scoperto a che cosa e dove conduce la fedeltà al progetto di Dio. Gesù è stato costituito Messia e Signore per la fedeltà con cui ha amato anche quando l'odio e la violenza lo conducevano a morte. Egli ci ha rivelato la legge fondamentale dell'incarnazione: per rendersi salvatore Dio deve farsi carne. Il dono di Dio, infatti, non può emergere nella storia se non attraverso l'azione amorosa degli uomini. Dio non può operare salvezza che attraverso gesti storici di uomini amanti. L'uomo infatti non è in grado di accogliere l'azione salvifica di Dio se non gli perviene attraverso strumenti umani. Dio perciò non ha la possibilità di mostrare il suo amore agli uomini se non esistono persone che lo rendano visibile. Per questo la rivelazione di Dio non è manifestazione di idee, ma serie di eventi che interpellano l'uomo e lo sollecitano a decisioni di vita.
Gli atteggiamenti indicati da Gesù per essere suoi discepoli sono necessari a tutti per divenire uomini e per vivere intensamente. Essi, infatti, corrispondono alle esigenze che la morte porrà ad ogni vivente per essere vissuta. Infatti, la fiducia totale nella Vita così da saperla perdere, l'ascolto fedele della Parola in modo da compiere sempre il volere di Dio, il distacco completo dalle cose così da saperle consegnare tutte, .l'amore oblativo che consente alla vita di offrirsi senza ricatti sono atteggiamenti necessari per sviluppare i comportamenti profondi della persona o per far crescere l'uomo interiore fino alla statura di figlio di Dio. Sono queste le condizioni imprescindibili per raggiungere la vita eterna, cioè per vivere intensamente ogni giorno così da pervenire ad acquistare il nome che è riservato nei cieli (cfr. Lc 10, 20).
Le modalità per raggiungere questo stato sono varie e le pratiche per svilupparne le dinamiche sono diverse, ma la sostanza è universale. La vita esige da tutti l'acquisizione di questi atteggiamenti perché essi sono le condizioni assolutamente necessarie per saper morire e quindi per vivere intensamente. Ma per acquisirli ciascuno deve modificare la condizione iniziale della sua esistenza. Noi infatti nasciamo centrati su noi stessi, mossi dagli istinti, guidati dal bisogno di possedere le cose. Per giungere a maturità è necessario perciò cambiare stile di vita e operare continue conversioni. Questa è la rinuncia a se stessi e alle cose che Gesù chiedeva ai suoi quando diceva: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso» (Lc 9,23); «Chi non odia perfino la propria vita non può essere mio discepolo» (Lc 14, 26); «Chi vuole conservare la propria vita la perderà» (Lc 9,23).
Questo in sostanza significa «portare la croce» che è una condizione per seguire Gesù: «Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,17; Mt 10,38). Rinunciare a se stessi significa non seguire i propri istinti che riflettono il passato immaturo e lasciarsi guidare dalle esigenze della vita per crescere come figli di Dio. Queste indicazioni sono per tutti perché riguardano gli atteggiamenti necessari per raggiungere la maturità o sviluppare la dimensione interiore di ogni persona, quella che Gesù chiamava anche la vita eterna.
Quando l'uomo prende coscienza di essere creatura e di essere sempre sotto la pressione dell'azione divina, avverte che il suo amore è sollecitato da un Bene sommo, che la sua ricerca è stimolata da una Verità inesauribile, che la sua esigenza di equità è suscitata da una Giustizia rigorosa, che la sua esaltazione estetica è alimentata da una Bellezza senza canoni, e che il suo bisogno di gioia è risonanza di una Vita che si offre. Conseguente a questa scoperta è l'abbandono fiducioso, l'attesa del dono quotidiano, l'accoglienza e l'epifania dell'amore. Sono appunto questi atteggiamenti interiori che consentono all'uomo di consegnarsi alla morte in attesa del compimento delle promesse che la Vita ha formulato lungo il cammino. Egli non sa che cosa l'attenda ma è ormai certo dell'amore di chi lo chiama.

Esistenza teologale

La forma cristiana di esistenza è 1' atteggiamento teologale. Spesso si insiste sulla nonna morale o sul precetto dell'amore come specificità cristiana; in realtà l'esistenza cristiana nella sua essenza è teologale, centrata su Dio. Per il cristiano la santità non consiste nell'osservanza delle norme o nella ricerca di una perfezione morale, ma nel tenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo per imitarne la fede, il suo decentramento verso Dio. La vita cristiana è consapevole rapporto con Dio, come figli suoi (adottivi, dice Paolo; reali, perché generati da Dio, secondo Giovanni, cfr. 1 Gv 3,1; Gv 1,13): è esistenza teologale o non è.
Analogamente la vita cristiana non consiste nell'eliminazione dei difetti e del peccato, ma nel continuo rapporto con Dio, nel vivere alla sua presenza. Gli Ebrei avevano 613 precetti da osservare per essere perfetti. La linea profetica aveva cercato la riduzione della legge ad elementi essenziali: Davide nei Salmi, Isaia, Michea fino ad Abacuc che riduce il tutto alla fede: «Il mio giusto vivrà di fede» (Ab 2,4) ripreso poi in Rm 1,17 da Paolo. La «via di Cristo» (cfr. At 9, 2) è vita in relazione con Dio modulata secondo le dimensioni del tempo.
La nostra esistenza teologale è la modalità storica dell'unico atteggiamento maturo possibile per il cristiano: mettere Dio al centro nel vissuto quotidiano. La consapevolezza dell'azione con cui Dio ci rende vivi è l'esistenza cristiana. Noi nasciamo centrati su noi stessi (fase narcisistica), poi ci riferiamo alle cose e agli altri come assoluti (fase idolatrica), finché arriviamo a scoprire che esiste un Altro che è la sorgente della vita e della perfezione (fase spirituale o di fede). Scopriamo allora che «Dio non è il Dio dei morti, ma dei vivi, perché tutti vivono per lui» (Lc 20,38).
Fin dall'inizio, l'esperienza cristiana di seguire la via tracciata da Gesù è stata descritta secondo una particolare struttura teologale. Il «tenere fisso lo sguardo su Gesù autore e perfezionatore della fede» (Eb 12, 2) ha condotto necessariamente a descrivere il rapporto con Dio in termini temporali. Fin dai primi scritti pervenutici l'atteggiamento fondamentale è indicato con tre termini: fede, speranza e agape, quelle che noi chiamiamo virtù teologali.
Nella prima lettera di San Paolo ai Tessalonicesi (anno 50/51) l'esistenza cristiana è già descritta in questo modo: «Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricordandovi sempre nelle nostre preghiere, continuamente memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo» (1Tess 1,3). Paolo nella lettera ai Corinti esprime in modo esplicito il carattere assoluto delle virtù teologali: «Tre sono le cose che rimangono: la fede, la speranza e l'agape» (1 Cor 13,13, cfr. la nota della Bibbia di Gerusalemme con l'elenco di tutte le formule utilizzate).
Le tre virtù teologali sono la coniugazione temporale di un atteggiamento di fondo che è l'atteggiamento teologale, l'atteggiamento di abbandono fiducioso in Dio. Esse sono la modulazione temporale del rapporto del cristiano con Dio: il passato, il presente e il futuro. La fede è rivolta al passato, la speranza al futuro, l'agape al presente. Questi tre atteggiamenti hanno anche una rilevanza morale, ma strutturalmente sono centrati su Dio.
L'inizio della vita spirituale cristiana, come tale, avviene quando ci convertiamo a Dio come al nostro centro vitale, non quando passiamo dal peccato alla grazia. Anche Gesù ha vissuto questa fase ed è pervenuto a riconoscere Dio come fonte e ragione della sua esistenza. Quando rimprovera il giovane notabile che lo chiama buono, esprime la convinzione che «nessuno è buono se non uno solo, Dio» (Lc 18, 19) o quando afferma che «non fa nulla da se stesso» e che «le sue parole non sono sue» manifesta con evidenza la ricchezza della sua vita spirituale.
Il passaggio dalla vita morale alla vita teologale,[17] che è la modalità cristiana per passare dalla vita psichica alla vita spirituale, è la conversione radicale che Gesù chiede, la modalità concreta e storica per vivere la sequela di Gesù, il «tenere fisso lo sguardo su Gesù».
Questi atteggiamenti fondamentali hanno rilevanza morale: suggeriscono decisioni e comportamenti. La santità cristiana non è la perfezione morale che sarebbe ancora il risultato delle nostre opere, ma è diventare trasparenza di Dio, scoprire che Dio è al centro della nostra esistenza, come per Gesù. Per questo la vita spirituale cristiana è matura quando è stabilmente teologale e ha Dio come centro. La vita teologale costituisce la comunità ecclesiale, tempio di Dio, e si esprime operativamente nelle tre virtù chiamate appunto teologali: la fede, la speranza e la carità.
Ma perché si sviluppano queste tre espressioni della vita spirituale? Esse traducono l'atteggiamento fondamentale dell'uomo nei confronti di Dio secondo le tre dimensioni del tempo: passato (fede), presente (carità), futuro (speranza) e collegano diversamente l'esistenza cristiana all'azione salvifica di Dio.
In Paolo appare una stretta connessione tra le virtù teologali (fede, speranza, carità) e il riferimento al Padre, al Figlio e allo Spirito (cfr. I Cor 13,13; I Ts,1,3; Rm 5,15; 12,6-12; Gal 5,5; Col 1, 45; Ef 1,15-18). Cercando di spiegare la ragione di questa connessione indico tre piste di riflessione. Le tre virtù teologali dicono il rapporto dell'uomo con Dio nella sua unità fondamentale, ma con specifici riferimenti a Dio come Padre, al Figlio come redentore e allo Spirito come santificatore.
È facile e comune pensare queste tre virtù come tre strutture morali, invece esse devono essere anzitutto considerate come una struttura teologale, che ha riferimento cioè a Dio. L'apparire di queste tre virtù segna il passaggio dalla vita psichica alla vita spirituale.
L'ambito psichico è un ambito dominato dal passato, dalle connessioni con il passato diventate forme istintive per cui uno reagisce a partire dalle sue esperienze passate. L'ambito spirituale invece è l'ambito in cui si esercita la libertà che si dirige verso l'altro o l'Altro.
Nell'ambito psichico una persona si sente soggetta alla legge morale, centrata sul proprio «io», mentre nell'ambito teologale il cristiano si sente in relazione con Dio. Ogni volta che intendiamo le tre virtù come strutture morali, come espressione del nostro io, ricadiamo nel mondo psichico, in una specie di regressione spirituale. In questo caso la fede viene a confondersi con la dottrina della fede.
La fede è accogliere la testimonianza della Parola di Dio come ricevuta dalle generazioni passate. La fede dice abbandono a Dio in quanto rivelatosi nella storia compiutasi in Gesù. Per questo essa esige testimonianze e si richiama al passato. La fede cristiana in Dio suppone il richiamo alla testimonianza storica di Gesù, risonanza temporale della Parola eterna. È perciò l'atteggiamento assunto nei confronti del Padre, suscitato nel seguace di Cristo dall'accoglienza del suo Spirito. La fede non è quindi, prima di tutto, una verità da credere, o una dottrina da accettare.
La fede è abbandono in Dio, ma è Dio che la suscita in noi o che ci sollecita ad abbandonarci all'Altro. Consapevoli che c'è in noi una forza più grande di noi stessi che ci attraversa, che si esprime in noi come fiducia e come obbedienza, ci abbandoniamo ad essa e manifestiamo questa fede/fiducia. Lo esprime bene la Lettera agli Ebrei (11, 8) a proposito di Abramo: «Per fede Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e parti senza sapere dove andava». La fede qui è chiaramente collegata con il «non sapere», è abbandono di sé in Dio. Non si deve quindi confondere la fede con la dottrina della fede, la fede (atteggiamento vitale) con la credenza (ritenere vero quello che ci è detto). Essa comincia con l'ascolto, l'accoglienza di una dabar (parola, fatto, azione, forza) che ci perviene attraverso una testimonianza. L'ascolto è il primo comandamento (Dt 6,4; Mc 12,29). La fede in Dio in che consiste allora? Nell'affidarci senza riserve all'azione di Dio, che è vita, bene, giustizia, verità già pienamente realizzate, possiamo diventare viventi, giusti, buoni, veri e crescere nell'identità di figli suoi. Vivere la fede significa che in tutte le situazioni, positive o negative, siamo sicuri di essere attraversati dalla forza creatrice e dall'amore, che ci offre un frammento di vita grazie al quale continuiamo il processo della nostra crescita filiale (Gv 1,12). Nessuna creatura infatti può impedirci di accogliere l'amore di Dio (Rm 8, 37 ss.). La vita di fede quindi è essere consapevoli della presenza di Dio e della sua azione.
Credere in Gesù è ritenere che la via da lui tracciata conduce ad accogliere il dono di Dio e ci consente di diventare figli suoi. La missione della chiesa è rivelare la verità di Dio e l'efficacia del Vangelo di Gesù.
La speranza teologale è l'attesa della Dabar di Dio che non possiamo ancora accogliere se non nella promessa. È quindi l'abbandono fiducioso in Dio come attesa del suo dono di vita. Essa riguarda quindi il futuro e dice riferimento allo Spirito che irrompe come novità. La speranza teologale è l'attesa di Dio che viene. Ma Dio come viene? Dio viene come un dono creato, come perfezione di vita. La speranza teologale consiste nell'attendere l'azione di Dio in noi, la nostra progressiva identificazione come figli di Dio, il compimento finale cioè della nostra identità, ossia la vita eterna. I doni di Dio ci vengono dati «ora e qui» nel tempo attuale come piccoli frammenti di una realtà che si compirà solo alla fine del tempo. La speranza perciò è l'atteggiamento assunto nei confronti di Dio come futuro dell'uomo promesso da Gesù attraverso il dono dello Spirito.
La virtù della speranza è una virtù difficile, perché la si confonde spesso con le attese della persona e le loro realizzazioni: in questo modo non si esce dall'ambito della vita psichica. Noi non parliamo di questo genere di speranze anche se esse sono collegate in qualche modo con la speranza teologale. La speranza non riguarda il successo in quello che facciamo, non è solo attesa di ciò che verrà dopo la morte, ma l'attesa del dono di vita di tutti i giorni, della venuta di Dio.
Ci poniamo tre domande collegate fra di loro: 1) che cosa significa vivere le varie situazioni e le diverse esperienze della nostra vita attendendo Dio e i suoi doni; 2) come si collegano l'attesa dei doni di Dio con le nostre speranze quotidiane, quando queste vengono meno; 3) qual è il rapporto tra speranze storiche-sociali (giustizia nel mondo, pace tra i popoli, ecc.) e la speranza teologale ossia la venuta del Regno di Dio?
1. Quando noi svolgiamo delle attività, ci prefiggiamo degli obiettivi, dei risultati, che a volte raggiungiamo e altre volte ci sfuggono. Possiamo pregare Dio, possiamo attenderli rivolgendoci a Dio ...: questo non è ancora esercizio della speranza teologale, perché potremmo farlo rimanendo centrati su noi stessi. Esercitare la speranza teologale significa vivere l'esperienza, o la situazione in cui ci troviamo, in attesa del dono di Dio e dell'offerta di vita, di quel frammento della nostra identità filiale, che ci viene consegnato dalle circostanze della nostra esistenza. Cresciamo nel tempo se accettiamo questi doni. La convinzione di fondo è: c'è un'offerta di vita che devo accogliere per diventare pienamente me stesso e che devo quindi attendere nella vigilanza.
2. Il dono di Dio può pervenirmi anche quando non raggiungo il risultato che mi sono prefisso e che attendo. Il dono di vita, infatti, mi è offerto ugualmente. Anzi, a volte è proprio in questi casi che cresce in noi l'abbandono fiducioso alla vita e che finiamo per raccogliere frutti di vita maggiori di quanti ne avremmo raccolti se avessimo raggiunto il nostro scopo. Questo è in fondo il messaggio della croce: Gesù ha concluso la sua vita con un fallimento totale, ha subito una morte infamante, ma l'ha vissuta con abbandono a Dio talmente perfetto che l'amore in lui ha raggiunto una potenza di vita tale da risorgere. Nella risurrezione egli è stato costituito Figlio di Dio (Rm 1,4), ha raggiunto cioè la pienezza del suo essere Figlio, l'identità perfetta (Eb 5,7-9), il nome che è al di sopra di ogni altro nome (Fil 2,9).
Anche noi possiamo esercitare la speranza pur nel fallimento poiché come dice san Paolo: «La speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). Un esempio: abbiamo tutti conosciuto persone ammalate che sperano nella guarigione, e che si sono così aperte alla vita, all'amore, alla relazione con gli altri da guadagnare in umanità e in santità; anche se non guariscono dalla loro malattia, tuttavia crescono nella propria identità umana, diventano più uomini o donne; e questa apertura ad ogni frammento di vita e di bene qualche volta diventa la causa di un ricupero anche fisico della salute.
3. All'interno delle speranze storiche-sociali si deve esercitare anche la speranza teologale. Questa ci salva dal cadere in forme di violenza e di disumanità che non costruiscono più nulla. Le due speranze, storica e teologale, non sono uguali, sono distinte, ma devono essere tenute insieme. In certe forme della teologia della liberazione non c'era più questa connessione nella distinzione, ma la speranza storica sociale era identificata con quella teologale oppure era perseguita in modo indipendente da quella teologale. Il collegamento tra le due garantisce all'impegno storico un affiato o dimensione spirituale che permette alla speranza storica sociale di non scadere in forme violente o nella delusione paralizzante.
La carità (agape o amore teologale) è un amore che ha come riferimento e fonte Dio; è l'accoglienza della Parola/Azione di Dio che qui ora si attua in noi perché offriamo un dono ai fratelli. Essa è l'abbandono fiducioso a Dio come alimento attuale della nostra esistenza creata e ragione dell'offerta della vita ai fratelli. Il dono della vita infatti va perduto se non viene consegnato. Riguarda quindi il presente in quanto alimentato dall'amore del Padre. La carità è l'atteggiamento di fiducia assunto nei confronti di Dio per accogliere l'offerta di vita da comunicare come dono ai fratelli. Non consiste nel morire per gli altri, nel distribuire tutto ai poveri (cfr. 1 Cor 13, 3), ma nel consentire all'azione di Dio di fiorire in noi come amore.
La componente dinamica dell'amore teologale è l'azione di Dio in noi accolta ed espressa in gesti di creatura che ama. L'espressione perfetta di questa dinamica è in Gv 15,9-10.17: «come il Padre ha amato me (ed io rimango nel suo amore, v. 10), così io ho amato voi. Rimanete nel mio amore... Questo io vi comando: amatevi gli uni gli altri». Va ricordato che questo testo non offre le parole dirette di Gesù, ma lo sviluppo che esse hanno avuto nella comunità giovannea. Gesù afferma che il Padre è la fonte dell'amore e il Figlio ama perché rimane nell'amore del Padre, cioè accoglie e rimane sotto l'influsso dell'azione del Padre. Il Figlio a sua volta trasmette questa stessa forza che dà la vita ai suoi discepoli, invitati a loro volta a rimanere anch'essi sotto la stessa influenza e ad amarsi tra di loro. «Rimanere» è quindi avere coscienza dell'azione di Dio e accoglierla in noi per esprimerla poi in gesti d'amore. C'è una stretta relazione tra l'agape di Dio e la nostra agape. L'amore è teologale prima di essere impegno morale.
Dobbiamo anche concludere che è possibile voler bene e fare delle azioni buone senza agape, ma come impegno nostro...; ma questa non è ancora carità teologale, agape.
Esiste un secondo aspetto del problema dell'agape: noi possiamo dire che Dio è amore (1 Gv 4,8) ma dobbiamo comprendere bene quello che la parola di Dio vuol dire. Dio fa molto di più che amare. Noi non abbiamo un termine sufficiente e adeguato per esprimere questa realtà. Nel suo sviluppo futuro, forse, la specie umana riuscirà a trovare un'altra espressione più adeguata vivendo nuove forme dell'azione di Dio.
Ci sono due inni all'amore nel Nuovo Testamento in 1 Cor 13 e 1 Gv 4,7-14. In quest'ultimo testo troviamo spiegata la stessa dinamica dell'agape. «Carissimi» (agapetoi) non è una formula d'intestazione della lettera alla maniera nostra, ma l'affermazione che i cristiani sono amati da Dio. Il figlio cresce perché trova una persona che lo ama, che gli fa giungere la forza della vita. Il cristiano è figlio di Dio in senso proprio (non come in Paolo dove lo è in modo adottivo). Noi siamo figli generati da Dio (Gv 1,12-13) e, se rimaniamo sotto l'influenza di questa offerta di vita, «non pecchiamo più» (1 Gv 3,9), mentre chi non ama rimane nella morte (3,14). Colui che ama, continua Giovanni, è generato da Dio e conosce Dio (1 Gv 4,7): la conoscenza di Dio accade solo quando si fa esperienza dell'amore teologale, esperienza di Dio. Chi non ama non conosce Dio «perché Dio è amore» (v.8). Questa non è la definizione di Dio, ma l'affermazione che nell'«economia» della rivelazione l'azione di Dio si esprime nell'amore che le creature riescono a concretizzare. Dio ci ha mostrato il suo amore mandandoci il suo Figlio/Parola, affinché abbiamo la vita (Gv 10,10), come «vittima di espiazione per i nostri peccati» (v.10) cioè affinché in lui, nel suo sangue, si manifestasse l'amore misericordioso di Dio. Per questo anche noi dobbiamo amare (v.11). «Da questo abbiamo conosciuto l'amore: egli ha dato la sua vita per noi. Quindi anche noi dobbiamo dare (offrire) la vita per i fratelli» (1 Gv 3,16). In conclusione 1 Gv 4 ci mostra che c'è una circolazione di vita dal Padre al Figlio e dal Figlio a noi per farci figli del Padre.
In 1 Cor 13,7s Paolo afferma che «la carità tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine». Chi esercita l'agape alimenta la fede e la speranza, per questo «di tutte la più grande è la carità» (v.13).
Quali sono le dinamiche che distinguono la agape dall'eros e dalla philía? Se l'agape è il riflesso dell'agape di Dio e della sua azione, essa ne condivide anche le caratteristiche. Ne ricordo alcune: l'agape è creatrice, oblativa, gratuita e universale.
L'agape è creatrice; significa che essa si esercita di fronte al nulla, all'assenza di bene. L'amore umano viene attratto e suscitato dalla bellezza, dalla bontà, , dalla generosità altrui. L'agape invece è pronta ad amare chi non ha nulla di tutto ciò, anche chi ha fatto il male. Un genitore ama il figlio quando ancora non lo conosce, ama un figlio anche se è handicappato; anzi, spesso nell'amare un figlio disabile il genitore sviluppa una qualità di vita straordinariamente ricca, un'umanità molto sensibile e generosa, autenticamente agapica.
L'agape è oblativa, ossia non cerca se stessa, ma si offre come dono. Noi veniamo al mondo segnati dalla tendenza a possedere, a ricevere, a «succhiare» gli altri. Se l'uomo non avesse che questo amore, nel mondo non ci sarebbe spazio per la vita. L'esistenza umana è tesa tra la possessività iniziale e l'oblatività della morte. L'agape comincia quando la caratteristica oblativa prevale su quella possessiva.
L'agape è gratuita, ossia non chiede nulla in cambio di quello che dona, l'agape offre senza pretendere nulla. Spesso l'interesse privato è nascosto o addirittura inconscio, e deve essere quindi smascherato. La vita è un dono in se stessa, per natura sua: essa deve essere data, altrimenti svanisce.
L'agape è universale, ossia non ha barriere, non discrimina nessuno. Essa è universale non perché genericamente "ama tutti", ma perché, pur cominciando nella concretezza del "prossimo", del vicino cioè, non fa distinzioni, è personale senza discriminare nessuno. In Libano c'è un'espressione per dire un amore che non ama: «amare come amano i preti» i quali amano tutti e non amano nessuno, che sono più preoccupati di, essere esemplari, di seguire una legge, che di ri velare l'amore di Dio. Il nostro mondo ecclesiastico spesso si presenta corazzato contro gli affetti. È chiaro che l'apostolo deve essere attento alle degenerazioni dell'amore, ma deve anche ricordarsi che è chiamato ad essere un «segno» dell'amore di Dio (Redemptoris Missio n. 89).
Questo tipo d'agape è chiamata «comandamento nuovo» e segno distintivo del discepolo di Gesù Cristo (Gv 13,34-35). Perché nuovo? C'era anche prima il comandamento dell'amore. Ma con Cristo esso è giunto alla forma più completa possibile. Nello sviluppo dell'umanità siamo partiti da un rapporto tra gli uomini segnato da un amore limitato: si ricordi che i cacciatori/cercatori pensavano di dover sopprimere i concorrenti, poi all'arrivo dei pastori e degli agricoltori (dodicimila anni avanti Cristo) ancora sussisteva questa rivalità e concorrenza e per tale motivo furono a poco a poco stabilite delle norme (Codici di Hammurabi, di Mosè, ecc.) per regolare la convivenza. Gesù Cristo ci ha dato come norma di convivenza l'agape teologale, una nuova inedita forma di amore comune che André Chouraqui afferma essere l'unico modo che resta all'umanità per sopravvivere.[18]
Appare quindi chiaro che la fede dice riferimento immediato al Figlio, come Parola rivelatrice di Dio che dona il suo Spirito. La speranza dice riferimento immediato allo Spirito di Cristo, come forza che apre al futuro e conduce al Padre. La carità dice riferimento immediato al Padre come Amore eterno che attraverso la sua Parola e il suo Spirito alimenta la nostra esistenza.
In conclusione le virtù teologali sono la struttura dell'esistenza cristiana, le dimensioni diverse del- l'azione divina che trasforma la nostra vita e diventa noi o, meglio, consente che noi diventiamo vivi nella Trinità santa. Per questo la modalità teologale della vita cristiana ha avuto presto una modulazione trinitaria. E ciò non è stato tanto per definirsi nei confronti del giudaismo (tnonoteista), ma per poter vivere coerentemente il rapporto con Dio come esso si è rivelato nella oikonomia della rivelazione. Esistevano formule varie e i concili nel IV-V secolo le hanno chiarite, quanto possibile, per permettere di vivere questo rapporto con Dio nel tempo.

Spiritualità trinitaria

La Trinità economica è la riflessione su Dio come emerge dalla rivelazione apparsa in Gesù Cristo. Il Prologo di Giovanni ci presenta la storia del Dabar (Logos, Verbum, ossia: intenzione, parola e azione), il cammino della Parola di Dio. Analogo è il cammino dello Spirito, il quale esiste da sempre nella creazione, parla attraverso i profeti, fino alla sua manifestazione in Gesù di Nazareth che è originato dallo Spirito, guidato da lui fino alla morte, al momento in cui Gesù lo trasmette ai suoi: parédoken to pneuma (Gv 19,30). Riferirsi a Gesù come a colui che ci rivela il Padre e trasmette lo Spirito, il dono di Dio, fa diventare trinitaria la spiritualità cristiana.
Di Dio possiamo dire poco o niente. Possiamo dire quello che egli non è (teologia negativa) oppure dobbiamo far silenzio completo (teologia apofatica). S. Tommaso, nella sua vita, arrivò a questo stadio quattro mesi prima della morte, il 6 dicembre 1273. Quel giorno, dopo la celebrazione della messa, rimase silenzioso e non scrisse o non dettò più nulla fino alla fine della vita: «Tutto è paglia quello che ho scritto in confronto a quello che ho vissuto nell'esperienza di oggi», avrebbe detto ai suoi segretari. Al di là di questa consapevolezza che di Dio non possiamo dire molto, anzi che dovremmo piuttosto tacere, possiamo individuare nella teologia due tendenze fondamentali. La prima pensa di poter dire qualcosa di Dio in se stesso, della sua vita intima. È la teologia che fa capo a Sant' Agostino. Questa tendenza, al di là dei suoi meriti e delle sue buone intenzioni, ci sembra un po' presuntuosa.
L'altra tendenza o corrente sostiene di non poter affermare di Dio se non ciò che egli ha fatto. È la teologia trinitaria «economica» (oikonomia, in greco significa la disposizione ordinata della casa, in teologia la storia della salvezza). Già la costituzione «Dei Verbum» al n. 2 afferma che la rivelazione è un'economia di eventi accompagnati da parole attraverso cui 1' azione di Dio si è espressa nel corso della storia che trova nel Figlio di Dio la sua suprema espressione. Gesù, figlio di Dio fatto uomo, rivela il Padre e trasmette lo Spirito. L'azione di Dio nella storia viene espressa subito in formule trinitarie, dove si parla del Padre, del Figlio, della Parola, dello Spirito, del Dono di Dio. Sono parole umane, limitate, che non possono dire tutto d'ella realtà divina.
Gesù è l'icona storica della Trinità, per questo dobbiamo tenere fisso lo sguardo su Gesù, perché in lui la Parola prende carne e in lui il Padre si rivela e da lui ci viene donato lo Spirito che ci fa diventare figli del Padre. Il nostro rapporto con Dio in Gesù è segnato dal tempo, perché siamo tempo. Noi accogliamo il passato, attendiamo il futuro e viviamo il presente senza lasciarci soffocare da esso.
Le formule trinitarie esprimono l'azione di Gesù utilizzando termini dell'Antico Testamento (basar, nephesh, ruhah). La Parola è la parola del Padre, il pensiero che viene concepito e generato dal Padre, il quale è la sorgente della Vita, la Parola che si realizza pienamente. E Gesù alla fine ha comunicato il suo Spirito (Ruhah, soffio, energia Gn 1,1) il quale è donato per indicare e trasmettere la novità di vita che esprime la forza di Dio. Attraverso lo Spirito Gesù offre la novità di vita per l'uomo e indica la novità inattesa ed inedita che l'azione del Padre/Parola del Figlio produce nella creatura umana. Giovanni parla dello Spirito che dà la vita (Gv 7,37) e poi del dono che verrà (capp. 14-16) e Paolo dice che Gesù è diventato Spirito vivificatore. Con lo Spirito che Gesù ci dona noi diventiamo figli, siamo ricondotti alla comunione con Dio Padre e riceviamo la pienezza della vita, la vita eterna.
La spiritualità cristiana conduce quindi a vivere il rapporto con Dio, come via propria di Gesù, secondo una modulazione trinitaria, percorrendo un triplice cammino:
- accogliere in tutte le situazioni presenti la Parola che si dona in ogni istante, la Parola che viene dal passato;
- attendere continuamente lo Spirito che si dona e rinnova;
- e il tutto in un costante riferimento al Padre.
La spiritualità trinitaria aiuta a vivere intensamente il tempo e nel tempo, senza cadere vittime della tentazione di evadere o di fuggire dalla nostra realtà. Ci fa vivere intensamente il momento presente nella situazione storica e spaziale concreta in cui siamo, per accogliere in essa la sua Parola (nell'obbedienza come ascolto): questa è la fede. Ci fa vivere in attesa continua dell'azione di Dio che verrà nello Spirito a comunicarci progressivamente la Vita dei figli di Dio: questa è la speranza cristiana. E ci fa vivere tutto questo nel frammento di tempo che è il presente nel quale la Parola accade: questa è l'agape, che è accettare e permettere all'azione di Dio, alla sua parola di fluire in noi e attraverso noi di fiorire in gesti di amore per gli altri. Nessuna fuga dalla realtà ci è quindi permessa in questa spiritualità.
La spiritualità cristiana ci fa vivere il presente riassumendo il passato ed attendendo il futuro. Vivere pienamente il passato comporta non rifiutarlo, riconoscerlo nel bene e nel male che abbiamo fatto, accoglierlo nel suo positivo e redimerne il negativo attraverso un processo di riconciliazione. Se il peccato è il rifiuto del dono di Dio, la riconciliazione consiste nel ricuperare il dono grazie alla fedeltà di Dio che continua ad offrirlo. La riconciliazione passa attraverso la memoria del rifiuto passato, l'accoglienza dell'azione del Dio misericordioso che oggi continua a raggiungerci per far fiorire in noi l'azione di Dio. Bisogna vivere quindi il presente, 1' attimo presente, accogliendo il frammento di vita che Dio ci offre evitando quegli atteggiamenti e quelle scelte che impediscono lo sviluppo della vita. Bisogna fare attenzione alle dinamiche legate alla concupiscenza della carne, a quella degli occhi e all'arroganza della vita che ci impediscono di vivere il presente di fronte all'Eterno per essere in grado di accogliere la parola che viene dal passato e per aprirci al futuro.
Vivere la fede trinitariamente significa riferirsi alle manifestazioni storiche di Dio e interpretare eventi storici come emergenza della sua azione. L'interpretazione del mistero di Gesù salvatore nella tradizione cristiana avviene secondo questo presupposto: Gesù salva perché in Lui opera Dio. Nel modello dell'incarnazione l'azione di Gesù è vista come espressione umana della Parola eterna di Dio. L'efficacia salvifica dei suoi gesti di perdono, di compassione, di misericordia è la medesima efficacia dell'Amore creatore di Dio. Per questo la vita di Gesù è sempre sotto l'azione dello Spirito di Dio e la sua azione nei confronti degli Apostoli si concretizza con l'effusione del medesimo Spirito, reso possibile dalla glorificazione o spiritualizzazione di Gesù nella risurrezione.
Giovanni indica esplicitamente questo nesso: «Questo disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in Lui: infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato glorificato» (Gv 7,39). Gesù è una vetta storica che resta per sempre, un testimone che suscita ancora fede nell'azione salvifica di Dio, che effonde ancora Spirito in chi accoglie la sua parola. Se però si cede al cristomonismo la spiritualità cristiana perde il suo equilibrio e diventa ateismo e idolatria. Bisogna mantenere la distinzione delle relazioni con le tre persone della Trinità!
La formulazione trinitaria di Dio, che opera nella storia la salvezza dell'uomo, è il riconoscimento concreto della trascendenza divina nel momento in cui il cristiano descrive la sua esperienza salvifica vissuta nell'accoglienza dello Spirito di Cristo. Di fronte alla trascendenza divina ci sono vie diverse ugualmente percorribili: il silenzio adorante e la moltiplicazione delle formule. Il musulmano conosce novantanove attributi divini che ripete continuamente nella preghiera. La tradizione ebraica ricorre alla personalizzazione della Thor& della Sapienza, della Parola di Dio per esprimere l'efficacia della sua azione creatrice e redentrice rispettandone la trascendenza. Il cristiano utilizza formule trinitarie: Dio Principio o Padre/Madre, Parola o Figlio, Spirito santo.
Ciò significa che l'opera salvifica di Dio realizzata nella storia umana per mezzo dello Spirito di Gesù non è accolta e non può essere narrata che attraverso il riferimento a tre soggetti realmente distinti. Le formule utilizzate dalla comunità cristiana per descrivere l'esperienza dell'azione divina (una natura, due processioni, tre soggetti, quattro relazioni, cinque nozioni, ecc.) si riferiscono a realtà storicamente distinte e non a semplici apparenze o modalità. Ma che cosa a tutto questo corrisponda in Dio l'uomo non sa dirlo perché la realtà divina è designata nella "economia" cioè nel suo agire storico e non in sé.
I termini utilizzati nelle formule di fede trinitaria sono nomi metaforici e non propri: essi non designano direttamente realtà divine, identificandole, ma designano espressioni umane "in relazione" con la realtà divina. In questo senso credo debba essere interpretata la formula (Grundaxiom) di K. Rahner: «La Trinità economica è la Trinità immanente e viceversa».[19] Dicendo che la Trinità economica è la Trinità immanente affermiamo un rapporto reale tra Dio e la sua azione salvifica. Dicendo che la Trinità immanente è la Trinità economica (il «viceversa» della formula di K. Rahner) intendiamo dire che, quando la formula trinitaria assume figura «economica» in virtù di quella che i Padri chiamavano la «comunicazione degli idiomi», anche allora continuiamo a parlare propriamente solo e sempre dell'economia salvifica e non di Dio in sé.[20]
Le nostre affermazioni teologiche si riferiscono alla storia e all'esperienza della salvezza, che l'uomo vi compie (Trinità economica), ma non possono presumere di descrivere la realtà divina in sé (Trinità immanente). Solo nel prolungamento dell'esperienza salvifica è possibile nominare Dio in sé, anche se il silenzio è l'esito normale dell'uso corretto di formule economiche. La Trinità divina di cui noi parliamo, perciò, è la Trinità immanente, ma sempre e solo in quanto "economica". La Trinità in sé, che nominiamo per dare un senso assoluto alle nostre esperienze, non può essere descritta nella sua realtà e nelle sue dinamiche, perché non sappiamo che cosa sia Dio. Pur ammettendo che nella formula di Rahner «la copula "è" non esprime una identità, ma va intesa nel senso di una esistenza libera, indeducibile, gratuita, storica della Trinità immanente nella Trinità economica»,[21] non è possibile dedurre che siamo in grado di dire qualcosa oltre al fatto che tale presenza si realizza e che ha un valore salvifico per noi.[22]
Vivere la fede in Dio in riferimento a Gesù implica necessariamente modulazioni trinitarie ed esercitare la fede in Dio secondo modalità trinitarie ha caratteristiche diverse da quelle di una fede vissuta secondo formule genericamente monoteiste. Il che non significa che una tale fede sia migliore o peggiore di altre, ne indica solo le specifiche caratteristiche e le innegabili influenze nella vita spirituale. Nel determinarle tuttavia dovremo attentamente evitare le trasposizioni materiali, i cortocircuiti cristiani. Non possiamo dedurre indicazioni morali ed operative, comportamenti privati o sociali dalla presunta conoscenza di dinamiche intra- divine dal modello trinitario, supposto rivelato.
Il problema di metodo che si pone può essere riassunto in queste domande: è partendo da Dio, comunione trinitaria, che si può trovare un modello di società, o è inventando una società fraterna che si può pervenire ad una corretta concezione di Dio? Dobbiamo proporre un modello trinitario per far sorgere una comunità cristiana o dobbiamo realizzare una comunità di fratelli per far scoprire Dio? Esiste certo una circolarità fra i due aspetti, ma il punto di partenza è la esperienza storica e non il modello teologico: occorre creare comunità che vivano la fede per trovare modelli su Dio e non viceversa. Ma creare comunità richiede riferimenti storici di fede.
Per noi Gesù è il principio del circolo di fede, il testimone di Dio. Riferirsi a Gesù come Messia significa aprirsi all'azione del suo Spirito che ci rende figli del Dio invisibile. Questo caratterizza la spiritualità cristiana in modo specifico nei confronti di altre forme di vita religiosa: la rende cristologica e storica, pneumatologica e unitiva, contemplativa e apostolica. Non perché introduca componenti inedite o dinamiche diverse da quelle vitali e comuni a tutte le religioni, ma perché le componenti costitutive dell'esistenza umana acquistano rapporti diversi all'interno della medesima esperienza. Da queste caratteristiche generali derivano poi alcune modalità spirituali di tutte le attività profane e religiose.
La preghiera cristiana ci porta a vivere il tempo e nel tempo, senza fughe in avanti o nostalgie del passato. Pregare è lasciare gridare in noi lo Spirito di Cristo verso il Padre. È aprirsi all'azione dello Spirito così da diventare anche noi figli nel Figlio, rivelazione del Padre. La preghiera è autentica quando assume la preghiera dello Spirito di Gesù. In questo senso ha ragione l'Istruzione della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla preghiera cristiana del 1989.
In prospettiva trinitaria la preghiera è consentire all'azione di Dio di inserirsi nel processo storico, così che noi ne diventiamo attori. È aprirsi all'azione salvifica del Padre per divenire figli in forza del suo Spirito. È accompagnare il Figlio sul monte per assistere alla sua trasfigurazione e consentirne la realizzazione nella nostra vita. Non ha senso pregare Gesù o pregare lo Spirito: vale come metafora, ma la preghiera è rivolta al Padre, nello Spirito, per divenire figli nel Figlio.


NOTE

[1] Scrive R. PANIKKAR: «Considerare separatamente, o addirittura vivere come tali, l'apofatismo o la trascendenza del mistero del Padre, l'immanenza o la pienezza del mistero dello Spirito l'omogeneità con l'Uomo del mistero personale di Cristo significherebbe la distruzione di tutto il mistero trinitario», in Trinità ed esperienza religiosa dell'uomo, Cittadella Ed., Assisi 1986, p. 108. Poco prima sembrava contraddire questo principio quando esaltava la dimensione dello Spirito santo: «Vivere la vita secondo lo Spirito è l'esistenza autentica; per questo motivo, fino a quando non ci si sia arrivati, non può essere vissuta in modo totale. Ha bisogno di essere integrata da altre spiritualità, specialmente con quella della Incarnazione. Questa complementarità non vuol dire che le vie della Parola e dello Spirito non siano complete in se stesse, ma ci dimostra che l'esistenza umana temporale è condizionata dall'assenza di unità fra la via del Verbo e quella dello Spirito. La funzione di una spiritualità perfettamente equilibrata è proprio l'integrazione dell'una con l'altra. La via dello Spirito, in effetti, senza l'integrazione trinitaria comporta un certo rischio di disincarnazione». R. PANIKKAR, op.cit., p. 101-102.
[2] Decreto Lamentabili (1907), 34 DHil, 3433 s., e Decreto del 1918, DHü 3645-3677. Quest'ultimo condannava tre proposizioni tra cui la prima diceva: «Non consta che nell'anima di Cristo, mentre viveva tra gli uomini, ci fosse la scienza che hanno i beati o i comprensori». Questi interventi sollecitarono approfonditi studi teologici. Cfr. KWIATKOWSKI, De scientia beata in anima Christi, Varsaviae 1921.
[3] S. PESCE, È possibile la visione beatifica in un'anima viatrice?, La Mericiana, Catania 1965, p. 197.
[4] È l'opinione ancora difesa nei manuali neoscolastici e in m numero speciale di Doctor communis del 1974. Tra i recenti anche C. PORRO, Gesù il salvatore. Iniziazione alla cristologia, Dehoniane, Bologna 1992, p. 257-258.
[5] È l'opinione difesa da S. PESCE in È possibile la visione beatifica in un'anima viatrice?, op. cit., p. 216-227. «Gesù cominciò ad avere la conoscenza di fede parallelamente alla conoscenza acquisita, quando cioè gli organi del suo corpo furono in grado di collaborare al normale esercizio dell'attività intellettiva e volitiva», ibidem, p. 245; «Quest'anima che nella sua parte suprema conosce e sente in modo certo di possedere Dio, con le altre parti conosce bene la propria piccolezza e miseria, e pertanto si abbandona ad atti di fede e di speranza» (ib., p. 306: qui parla della serva di Dio Lucia Mangano, che avrebbe goduto della visione beatifica in terra).
[6] Cfr. Ad es., J. Galot scrive: «Questa presa di coscienza [del proprio io divino] pur comportando i limiti e l'oscurità inerenti a una qualsiasi psicologia umana è fatta di una evidenza intima che non può essere ricondotta alla forma di un atto di fede» in Chi sei tu, o Cristo?, Ed. Fiorentina, Firenze 1983, p. 348-351, qui p. 349. Egli aggiunge però: «Ci sono nelle disposizioni di Cristo elementi essenziali della fede, e nella sua esperienza intima vi sono prove che somigliano a quelle della fede. Da questo punto di vista, Gesù deve essere considerato come il modello della nostra fede» (ib., p. 350). Cfr. anche J. GALOT, La coscienza di Gesù, Cittadella Ed., Assisi 1971, e altri articoli in «La Civiltà Cattolica».
[7] HANS URS von BALTHASAR, in Missione e persona di Cristo, in Teodrammatica, 3, Jaca Book, Milano 1983, p. 141-242 (Missione nell'aspetto della coscienza p. 154-189) imita la visione immediata alla missione. Scrive: «Gesù coglie nella sua intimissima e incomunicabile autocoscienza un momento del divino: intuitivamente nel senso che egli è inseparabile dalla intuizione della coscienza della sua missione ma determinato da questa sua coscienza e circoscritto ad essa. Di essa sola egli ha una visio immediata, e non c'è ragione di attribuire a questa visio del divino un altro contenuto, per così dire puramente teoretico che sussista accanto o sopra questa missione. È senz'altro possibile che nella certezza e nella intuizione della missione (la cui universalità risulta dall'identità con l'autocoscienza di questo io) ci sia molto di contenutivo o che si sviluppi successivamente, tuttavia la missione ne è e resta la sorgente» (p. 157); e in dialogo con K. Rahner aggiunge: «Vorremmo concedere a Rahner la copertura tra autocoscienza e coscienza di Dio, ma limiteremmo questa alla missio (come forma economica della processio) ... Ma, se la coscienza della missione coincide con l'autocoscienza, all'inviato è possibile diventare cosciente di ciò che egli è non solo in determinate occasioni storiche; ... appartiene allora piuttosto al sapere inespresso, e presente da sempre e sempre di nuovo, di Gesù il fatto che egli dica "ecco io vengo o Dio per fare la tua volontà (Eb. 10,7), perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma volontà di colui che mi ha mandato" (Gv 6,38). Egli è il rivelatore del Padre non soltanto a tratti, ma in ogni situazione della vita, anche se è stato proprio della sua missione di dover rivelare nei lunghi anni della vita nascosta e poi di nuovo sulla croce il nascondimento di Dio» (p. 163); e conclude «A questo riguardo sembrerebbe più saggio assumere con Schell sul serio il concetto di missione come misura valutativa, trasferire la libera finalizzazione della decisione trinitaria prima dell'incarnazione, ma facendo coincidere questa estensione di missione e di autocoscienza (o sapere). Allora ci si può attenere molto bene all'idea che Gesù ha conosciuto fin da principio anche la sua identità di Figlio di Dio per deduzione dalla missione destinatagli ... ma che di tale dignità egli era consapevole non altrimenti che nel compito trasmessogli dallo Spirito, ... Ma, poiché Gesù non vede il Padre in visio beatifica, ma la missione del Padre gli è rappresentata dallo Spirito Santo, poiché dunque diventa consapevole immediatamente solo della sua missione, si rende per lui possibile lo stato di tentazione» (p. 184-188).
[8] HANS URS VON BALTHASAR, Fides Christi in Sponsa Verbi,Morcelliana, p. 41-74, e in Missione e persona di Cristo, in Teodrammatica, 3, Le persone del dramma: l'uomo in Cristo, Jaca Book, Milano 1983, p. 161-163 (141-242) dove, a proposito della fede di Gesù avverte: «bisognerà comportarsi assai con cautela con questo termine, affinché non appaia che l'atteggiamento di Gesù verso il Padre non sia nulla più di un atteggiamento di fede generica, vetero o neo-testamentario vissuto nella sua perfezione. La distinzione qualitativa rispetto alla nostra fede sta nel fatto che noi riceviamo la nostra missione in base al nostro accesso alla fede, mentre Gesù ha ed è da sempre la sua missione ed è, nella sua missione, l'assolutamente dedito e fidente al padre . inviante. Ma dal momento che egli non conosce o non vuole conoscere le strade su cui Dio va con lui in adempimento della missione, ma ha la certezza che Dio Padre adempirà la missione fino al suo termine, la definizione della fede della lettera agli Ebrei può venire applicata a lui» (161-162).
[9] J. GUILLET, La fede di Gesù Cristo, Jaca Book, Milano 1982. R.SCHAFER Jesus und der Gottesglaube, Tübingen 1970.
[10] Interessante ad es. la distinzione in Paolo tra la fede di Gesù (pistis Christou Iesou: Gal 2,16.20; 3,22; Ef 3,12; Fil 3,9; Rm 3,22.26) e la fede in Gesù (pistis en Christò lesou: Gal 3,25; 5,6; Col 1,4; 2,5; Ef 1,15; 1Tm 1,14; 3,13; 2Tm 1,13; 3,15). Alcuni identificano le due formule. Altri distinguono nettamente due sensi: uno soggettivo ed uno oggettivo. Altri parlano di un significato mistico che comprende ambedue e li supera. Cfr. HANS URS VON BALTHASAR, Sponsa Christi, op.cit., p. 53.
[11] J. SCHIERSE, Il messaggio di Gesù su Dio, in Mysterium salutis, 3, Queriniana, Brescia 1969, p. 118-119.
[12] J. SCHLOSSER richiamandosi a Heinz Schürmann sottolinea fortemente «la profonde unité de la pensée de Jésus sur le Règne et de sa théologie» (Le Dieu de Jésus. in «Etudes éxégetiques», du Cerf, Paris 1987, p. 262). Di Schürmann cita Das Gebet des Herrn als Schlüssel zum verstehen Jesu, Fribourg-Wàle-Vienne 1981.
[13] Cito in questa sede solo alcuni libri in italiano: E. SCHILLEBEECKX, La morte di Gesù vista dalla sua vita terrena, in Gesù, la storia di un vivente, Queriniana, Brescia 1974, p. 304-329; G. SEGALLA, Gesù e la sua morte: Rassegna bibliografica, in «Rivista Biblica» 30 (1982), p. 145-156; X. LEON DUFOUR, Di fronte alla morte: Gesù e Paolo, LDC, Leumann, Torino 1982 (sul nostro tema p. 73-89); H. SCHÜRMANN, Gesù di fronte alla propria morte, Paideia, Brescia 1983; AA.Vv. Gesù di fronte alla morte. Atti della 27a Settimana biblica, Paideia, Brescia 1984; A. BONORA, «Morte», in NDTB, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1988, p. 1012-1025, in particolare: Gesù di fronte alla morte degli altri (1019s.); Gesù di fronte alla propria morte (1020 s.); Come Gesù ha inteso la sua morte (1021); J. SOBRINO, Gesù Cristo liberatore. Lettura storico-teologica di Gesù di Nazareth, Cittadella Ed., Assisi 1995 (p. 346-352); R.E. BROWN, La morte del Messia. Un commentario ai racconti della passione nei quattro Vangeli, Queriniana, Brescia 1999.
[14] R.E. BROWN, La morte del Messia, op. cit., p.1668.
[15] E. SCHILLEBEECKX, Gesù, op. cit., p. 313.
[16] J. SOBRINO, Gesù Cristo, op. cit., p. 351.
[17] È frequente anche il pericolo di fare il passaggio inverso: di cadere dalla esistenza teologale a quella morale: la fede diventa dottrina da credere, l'agape diventa opere buone da compiere, ecc.
[18] A. CHOURAQUI, Gesù e Paolo Figli di Israele, Ed. Qiqajon, Bose 2000.
[19] K. RAHNER, Osservazioni al trattato dogmatico «De Trinitate», in Saggi teologici, Paoline, Roma 1965, p. 587-634; ID., Il Dio trino come fondamento originario e trascendente della storia della salvezza, in Mysterium salutis 3, Queriniana, Brescia 1969, p. 401-502, p. 413-416; 424-434; 485-486. Cfr. Y. CONGAR, Credo nello Spirito santo, V, Queriniana, Brescia 1983, p. 25-28; W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, Queriniana, Brescia 1984, p. 364-369; B. FORTE, Trinità come storia, Paoline, Cinisello B. 1985, p. 18-21; 128-129; CTI, Teologia, cristologia, antropologia, in "La Civiltà Cattolica" 134 (1983) 1 C 2,3; L. BOFF, Trinità e società, Cittadella Ed., Assisi 1987, p. 188.
[20] Riconosco che in K. Rahner la formula ha significati più positivi, almeno in alcuni contesti, perché gli è in grado di ricercare «la fondazione della Trinità economica nella Trinità immanente» in modo molto dettagliato (K. RAHNER, Il Dio trino come fondamento originario, in Mysterium salutis, op.cit., p. 485-486). Ma la formula come tale può essere interpretata in senso esclusivamente economico. Esiste d'altra parte una discussione a proposito di questa formula. Alcuni, come Y. CONGAR, Credo nello Spirito santo, 3, op.cit., p. 25; B. FORTE, Trinità come storia, op.cit., p. 21-22, 128.130); G. LAFONT. Peut-on connattre Dieu en Jésus-Christ? (Cogitatio fidei 44) Cerf, Paris 1969, p. 177-228, ne accettano la prima parte e negano il «viceversa», «in nome della inconoscibilità e della trascendenza divina» (B. FORTE, p. 129). Altri considerano la formula troppo limitativa perché restringerebbe l'ambito delle affermazioni teologiche alla sola storia salvifica. Altri, come W. KASPER, la accettano, precisandone un senso limitato (W. KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, op. cit., p. 367). Egli ricorda, tra gli altri, P. Schoonenberg secondo cui «le differenze fra le tre persone sarebbero tutt'al più modali, mentre sarebbero reali soltanto nella storia» (p. 367) e H. KÜNG, che tenderebbe a «relegare più o meno nell'ombra la dottrina della Trinità immanente, concentrandosi sulla Trinità storico-salvifica» (ib.). Credo che quest'ultima tendenza sia la più coerente con il radicale agnosticismo cristiano affermato dall'ultimo Rahner (cfr. n. 16). Cfr. L. BOFF, Quando la Trinità economica è la Trinità immanente e viceversa, in Trinità e società, op. cit., p. 268-270.
[21] W.KASPER, Il Dio di Gesù Cristo, op. cit., p. 367s.
[22] Lo stesso Rahner ammette che in un caso «da ciò che Dio è per noi, non si potrebbe in nessun modo venire a sapere ciò che egli - in quanto Trinità - è in se stesso» (K. RAHNER, Il Dio trino come fondamento originario e trascendente della storia della salvezza, in Mysterium salutis, op.cit., p. 421). Il caso si realizzerebbe se si affermasse che anche il Padre e lo Spirito avrebbero potuto incarnarsi. Ma, accettata l'impossibilità di parlare di Dio in sé, salta anche il senso del problema posto in questo modo.