Se tu conoscessi

il dono di Dio!

Gv 4, 5-42

Il racconto del dialogo fra Gesù e la donna samaritana incontrata al pozzo di Sichem non narra semplicemente l'esperienza di un giorno. Nella comunità del quarto evangelista c'erano molti samaritani convertiti. Anzi, a volte costituivano motivo di conflitto, di turbamento, perché il contrasto tra giudei e samaritani restava, da un punto di vista culturale e religioso, anche dopo che erano diventati cristiani. Quindi era una comunità composita, quella del quarto evangelista: c'erano anche i discepoli di Giovanni il Battista e bisognava contemperare diverse esigenze.

Alcune espressioni di questo racconto esprimono già una lunga esperienza cristiana. Per esempio la conclusione «Abbiamo udito e ora sappiamo che egli è il salvatore del mondo» è già una professione di fede che risente di un lungo cammino, non è stata fatta nei due giorni in cui Gesù si fermò dai samaritani. E così anche l'espressione precedente: «Sono io che ti parlo, il Messia», già riflette una fede maturata nella comunità. Il quarto Vangelo è scritto verso la fine del primo secolo, e quindi riflette una lunga esperienza delle comunità cristiane. La stessa narrazione dell'esperienza di Gesù veniva continuamente completata dalle esperienze dell'efficacia del Vangelo che le comunità facevano.
Le formule di questo Vangelo esprimono una fede matura, che invece non è riflessa nei racconti dei sinottici, che sono molto più immediati, soprattutto quello di Marco. D'altra parte, nessuno dei sinottici racconta questo episodio molto particolare, mantenuto vivo nel ricordo della comunità giovannea perché la gente samaritana che aveva conosciuto Gesù ed era diventata cristiana, era in mezzo a loro.
Precisato questo, credo che possiamo riflettere su due messaggi di questa pagina.

«Se tu conoscessi il dono»

Il primo messaggio è espresso nella formula di Gesù: «Se tu conoscessi il dono di Dio».
Gesù contrappone, per indicare il dono di Dio, l'acqua da bere, l'acqua che disseta, l'acqua che è fonte di vita sulla terra, a un'altra acqua, quella che immette in noi una fonte che zampilla «fino alla vita eterna».
Gesù con questa simbologia, che Giovanni poi riprende e sviluppa molte volte, indica un particolare rapporto con la vita, per cui si coglie una vena profonda (per restare nella sua metafora) che non ci appartiene, ma che ci attraversa. Non ci appartiene perché è nell'ambito dell'eternità, ma ci attraversa, perché alimenta dal fondo la nostra realtà personale. Anzi, è la ragione per cui ogni altra realtà acquista significato.
Ma c'è il rischio di non riconoscerla. Questo è il punto su cui vogliamo fermarci: può passare inosservata. Per questo Gesù dice : «Se tu conoscessi il dono di Dio».
È possibile vivere tutta l'esistenza senza neppure renderci conto del dono di Dio, come rischiava di fare quel giorno la donna samaritana. È possibile vivere tutta l'esistenza, senza neppure avvertire la forza di eternità che avvolge e lambisce la nostra vita.
Prima di tutto allora chiediamoci: perché è possibile non riconoscere il dono? E, secondo, in che consiste, in realtà, questo dono?
È possibile non riconoscerlo perché non può mai presentarsi come dono divino, cioè non può mai esprimersi nella sua realtà piena. Se si esprimesse nella sua perfezione divina per noi resterebbe invisibile, impercettibile, lontano da tutte le nostre possibilità di conoscenza. È in un'altra lunghezza d'onda. Solo quando viene ridotta alla nostra lunghezza d'onda, l'azione di Dio diventa percepibile. Ma allora diventa creatura. E se diventa creatura, possiamo riconoscerla solo come creatura. Nessuno ci può costringere ad andare oltre. La creatura è a nostra disposizione, abbiamo la possibilità di utilizzarla, di incontrarla, di entrare in relazione; ma possiamo fermarci e pensare che tutto si esaurisca nel rapporto.
Per questo noi possiamo condurre tutta la nostra esistenza limitandoci a incontrare creature e non riconoscere mai l'azione eterna, la Parola eterna, la Presenza invisibile che le fonda e le alimenta. «Se tu conoscessi il dono di Dio». È molto chiara, quindi, la ragione per cui ci è possibile non riconoscere mai il dono di Dio.
Man mano che la vita avanza, il rammarico più grande è proprio quello di non aver riconosciuto Dio nella nostra vita: il rammarico di aver fatto cose buone, di aver realizzato progetti, ma di non aver riconosciuto il dono.
Ma in che consiste il dono? Se fosse una realtà supererogatoria, un'aggiunta alla struttura personale, come per esempio un anello che ci mettiamo al dito, o un monile che portiamo al collo, non sarebbe un grande dramma non riconoscere il dono. Ma se fosse qualcosa di costitutivo, di essenziale per noi? E tale è il dono di Dio. Gesù con questo simbolo dell'acqua viva, che suscita in noi una fonte che zampilla fino alla vita eterna, indica quella forza creatrice che sta al fondo di tutta la nostra esperienza, che quando viene riconosciuta e accolta apre un nuovo orizzonte di vita, una nuova vena. C'è sempre stata, in realtà, questa vena, ma non era ancora apparsa. L'immagine di una vena nascosta che occorre mettere in luce per potersi dissetare all'eternità si trova in molti mistici.
L'azione quindi di Dio, la Sua presenza in noi, suscita una fonte che zampilla fino alla vita eterna, cioè che sviluppa in noi una dimensione inedita, che non ci appartiene dall'inizio della nostra vita. Gli antichi, dal medioevo in avanti, la chiamavano "soprannaturale", ma è un termine inadeguato, perché non si aggiunge alla natura, non è "sopra" la natura. E qualcosa di molto più ricco, ma che si innesta nelle strutture fondamentali della nostra realtà personale, di cui non possiamo fare a meno, perché siamo chiamati a diventare figli. Il dono è la nostra identità di figli: cioè quella forma definitiva di vita che dobbiamo accogliere, ma che non possiamo acquisire in un giorno solo, in una sola stagione della vita, ma che giorno dopo giorno possiamo interiorizzare a piccoli frammenti, fino alla nostra identità definitiva di figli di Dio.
Questo è il dono: è la chiamata ad essere figli. La chiamata di Dio non è mai una chiamata esteriore, che si limita semplicemente a indicare un traguardo, ma è un'offerta continua, che ci conduce alla identità eterna.
Questo è il segreto dell'esistenza cristiana: ogni situazione, ogni esperienza che facciamo, ogni incontro che ci è dato da vivere, anche quelli negativi, tutti contengono sempre una forza che supera ogni limite e che ci consente di crescere come figli di Dio: «Se tu conoscessi il dono».

«Adorare Dio in spirito e verità»

La seconda formula, «Adorare Dio in spirito e verità», serve a chiarire come imparare a crescere ogni giorno come figli. È un'affermazione legata alla polemica, che ancora vigeva al tempo delle prime comunità cristiane, finché nel 70 d.C. non fu distrutto il tempio di Gerusalemme. I cristiani salivano al tempio delle loro rispettive tradizioni, per cui con molta probabilità i samaritani andavano sul monte Garizim, dove avevano il loro tempio, mentre i giudei andavano al monte di Gerusalemme per le loro pratiche religiose. I cristiani venuti dal paganesimo non andavano né al tempio di Gerusalemme né al Garizim, proprio per quella libertà che Paolo continuamente rivendicava, contro l'opinione dei farisei divenuti cristiani, che volevano imporre la legge mosaica anche ai convertiti dal paganesimo.
Agganciandosi a quella polemica, Giovanni dice: « Viene il tempo, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno Dio in spirito e verità». Non più su questo monte, il Garizim appunto, non in Gerusalemme: i veri adoratori adoreranno Dio in spirito e verità.
Cosa vuol dire "in spirito e verità"? È molto complessa questa formula, ma proprio perché è così densa, merita di essere continuamente ripresa.
"In spirito" vuol dire prima di tutto "condotti dallo Spirito". Non più seguendo una legge, una tradizione, ma condotti dalla forza, dalla presenza di Dio.
E condotti dove? Non sul monte, bensì nel tempio interiore. Nel proprio spirito. "Adorare Dio in spirito" significa incontrarlo nel profondo della propria interiorità, oltre quella soglia liminale, là dove la vena di vita eterna fluisce, dove un Amore eterno ci avvolge, dove una forza creatrice ci attinge. Lì bisogna pervenire, per incontrare il Signore.
E ogni volta che si incontra, avviene un cambiamento, cioè comincia la verità della vita. Perché tutta la vita precedente è illusoria, è ambigua, è inganno. Andiamo al pozzo credendo di dissetarci definitivamente e dovremo ritornarci. Continuamente dovremo ritornarci, perché non c'è mai nessuna creatura, nessuna situazione, nessuna persona che risponda in modo definitivo alla nostra domanda di bene, di verità, di giustizia.
Quando invece giungiamo a scoprire Dio, non c'è più inganno, appare la verità della vita, cioè quella che vale definitivamente, quella per cui ha un significato tutto ciò che facciamo. Anche se non ha nessun valore sociale, economico o di altro tipo, ha il valore di eternità, perché ci fa crescere come figli, perché sviluppa la nostra dimensione definitiva. Allora cominciamo a vivere in verità.
Chiediamo al Signore di fare di questa eucarestia oggi un'espressione sincera della nostra volontà di essere fedeli a questo messaggio del Vangelo: riconoscere ogni giorno il Suo dono, per vivere in spirito e verità.