Il Dio delle beatitudini
Mt 5, 1-12a
Molti elementi si intrecciano in questa pagina del Vangelo: la nuova immagine di Dio presentata da Gesù; l'impegno di solidarietà per gli ultimi, continuamente richiesta ai suoi discepoli; e il traguardo finale, la ricompensa dei cieli, la speranza, che attraversa tutto il messaggio evangelico.
Per questi elementi presenti si può dire che la pagina delle beatitudini riassume tutto il messaggio di Gesù. Ma per questo è anche difficile interpretarla adeguatamente e soprattutto è difficile viverla pienamente: dopo duemila anni, certamente ancora siamo ai primi passi nell'assunzione di questa prospettiva, per la quale Gesù è vissuto ed è morto.
Cerchiamo di analizzare brevemente le tre componenti.
L'immagine di Dio presentata da Gesù
Gesù presenta un'immagine nuova di Dio, dalla parte degli ultimi, dei diseredati. Per lungo tempo, invece, gli uomini avevano sviluppato il rapporto con Dio nella convinzione che Egli fosse dalla parte dei ricchi, dei potenti, dei più elevati, dei più dotati: benedetti da Dio perché appunto dotati di beni migliori e di maggiori ricchezze.
Gesù capovolge la prospettiva, e per una ragione che è importante richiamare. La ragione è che la storia è caotica, disordinata, e che la creazione è in processo. Gli antichi avevano la concezione di una perfezione iniziale, la convinzione cioè che tutto fosse stato fatto bene, e che all'inizio ci fosse una creazione e un'umanità perfetta. In questa prospettiva l'immagine di Dio dalla parte dei più dotati, dei più ricchi, dei più elevati in perfezione, era comprensibile: tutti erano perfetti inizialmente, ma alcuni erano caduti, si erano impoveriti, erano venuti meno a un progetto che era stato già attuato. Si capisce perciò perché l'umanità per lunghissimo tempo ha costruito una immagine di Dio dei perfetti, dei potenti e dei ricchi.
Oggi sappiamo che non è così e siamo in grado di capire meglio il cambiamento operato da Gesù, il capovolgimento dell'immagine di Dio. D'altra parte Gesù si pone nella scia dei profeti: non contrasta la tradizione della sua religione, ma ne coglie il significato più autentico. Si trova in contrasto con la religiosità del suo tempo, ma è fedele ai filoni profondi della religiosità ebraica.
Oggi siamo in grado di capire meglio questo cambiamento proprio perché l'orizzonte culturale è cambiato. Oggi sappiamo che gli inizi sono disordinati, caotici, limitati, imperfetti, proprio perché la forza creatrice non può essere accolta all'inizio in modo compiuto. Neppure oggi può essere accolta in modo compiuto, siamo ancora in processo; quindi anche oggi esistono imperfezione, ingiustizia, inadeguatezza, anche prescindendo dal peccato dell'uomo. Il peccato complica le cose, rendendole molto più ingiuste, diseguali e caotiche, ma di per sé la radice profonda del male sta nel processo in cui siamo inseriti, cioè nel fatto che cominciamo dal vuoto, dal nulla e con fatica riusciamo a percorrere questo cammino, perché abbiamo difficoltà, poniamo resistenze: siamo imperfetti e anche l'azione di Dio in noi non riesce a esprimersi compiutamente. In questo senso alcuni teologi parlano della "sofferenza di Dio" accanto, o dentro, la sofferenza degli uomini: Dio soffre con noi, in questo senso. Senza cadere nell'antropomorfismo, che è un rischio costante, possiamo usare questa metafora e dire che "Dio soffre con noi .
In questo senso l'azione di Dio non è onnipotente nella storia e nella creazione. Egli esprime la sua onnipotenza al termine del processo, quando conduce tutto al compimento. Ma lungo il tragitto c'è il limite, l'insufficienza, l'inadeguatezza; e quindi il disordine, il caos, la sofferenza degli uomini. Paolo, nella lettera ai Romani, al capitolo 8, traduce questa condizione con un'immagine molto efficace, quella del travaglio del parto, per la generazione della nuova vita e della nuova umanità: «la creazione soffre nel travaglio del parto e anche noi gemiamo, nell'attesa dell'eredità dei figli» - oggi possiamo dire: dell'identità di figli. In questo senso allora si può parlare della sofferenza di Dio nella sofferenza degli uomini, cioè dello sforzo che l'azione creatrice deve fare per far emergere dal nulla, dal vuoto, dall'incompiutezza, la creazione che deve giungere al traguardo finale.
Ricordate quel brano de «La Notte», di Elie Wiesel, con la domanda assillante «Dov'è Dio?». Il romanzo narra l'esperienza degli ebrei dei campi di concentramento. Ogni giorno venivano scelti tre prigionieri per essere condannati a morte per impiccagione con un rito macabro al quale tutti dovevano partecipare assistendo all'esecuzione e sfilando come in processione dinanzi ai cadaveri appesi. Quel giorno fra i tre ci fu anche un ragazzo di dodici anni, "l'angelo dagli occhi tristi", come lo chiama Wiesel. E quando il suo nome risuonò nel silenzio del campo, una voce si levò: «Ma Dio, dov'è?». E quando poi passarono avanti agli impiccati s'accorsero che il ragazzo era ancora vivo, perché il suo peso non era sufficiente per provocare subito la morte. E la domanda si alzò ancora: «Ma Dio, dov'è?». La risposta risuonò nel cuore del protagonista: «È appeso a quella corda».
Anche nella tradizione cristiana noi parliamo della "morte di Dio" in croce. È una metafora, indicativa del cammino penoso che la vita deve percorrere, per giungere al traguardo finale, al compimento.
Tutto questo per l'incapacità che abbiamo di accogliere la perfezione in un solo istante. Perché non siamo Dio.
Vale la pena percorrere il cammino per giungere a un traguardo che non conosciamo? Qui ci è chiesta fiducia: il traguardo è tale per cui tutto acquista significato. Questo è in fondo l'annuncio della croce: il traguardo è tale - ed è indicato nel simbolo della resurrezione - che tutto diventa significativo. Anche l'insensatezza più grande della nostra vita può esser vissuta positivamente, perché ci può condurre al traguardo finale.
Questo è il contenuto centrale del messaggio di Gesù: l'immagine di Dio dalla parte degli ultimi, dei poveri. Ma è insieme la consapevolezza della sua presenza, del suo amore, della forza di vita che ci attraversa e ci rende possibile il cammino, a volte penoso, verso il traguardo della nostra identità.
L'impegno di solidarietà per gli ultimi
Il secondo aspetto è complementare a questo.
Proprio perché il cammino avviene nel disordine, nel caos, nell'imperfezione, nell'ingiustizia, ci sono tante situazioni - di schiavitù, di incapacità di vivere, di mancanza d'amore, di povertà, di emarginazione... - che richiedono solidarietà. Quando Gesù dice «Beati» vuol dire: l'azione di Dio ora è rivolta a voi, attraverso i gesti delle persone che vi amano, che vi stanno accanto.
Ma se nessuno oggi ama gli ultimi, se nessuno si pone accanto a chi soffre, compie gesti gratuiti nei loro confronti, dov'è l'amore di Dio? dove può esprimersi nella storia, nella creazione, la sua Parola, se nessuno la rende umana e la rende efficace?
Per questo Gesù sollecitava la solidarietà per i più piccoli, per i più poveri, per gli emarginati, per gli ammalati. Egli ha vissuto continuamente secondo questo principio, come conseguenza immediata dell'immagine di Dio che proponeva. Se hai scoperto il Dio dalla parte degli ultimi non puoi disinteressarti di chi si trova nella schiavitù ed ha bisogno del tuo amore liberante; di chi si trova nella sofferenza ed ha bisogno della tua vicinanza amorosa, per portare la sua condizione; di chi ha bisogno del pane per poter sopravvivere. Non puoi disinteressarti.
Per questo Gesù diceva: «Quello che fai ad uno dei più piccoli lo hai fatto a me». C'è qualcosa di molto più grande nel gesto che tu compi, perché l'amore di Dio si rivela. C'è qualcosa di molto più grande in ciò che tu pensi, perché la verità di Dio si esprime.
Per questo non puoi affidarti solo alla tua buona volontà, al tuo impegno, alla tua generosità, perché ciò che si esprime è molto di più di ciò che tu sei. Abbandonati a Dio, apriti alla sua azione, vivi consapevolmente questo rapporto. Allora il gesto che fai trasmetterà un messaggio più grande, il messaggio necessario perché il povero possa uscire dalla sua condizione, perché l'ammalato possa vivere positivamente la sua sofferenza, perché l'ultimo possa diventare il primo.
Proclamare le beatitudini, che è il compito della Chiesa, non è ripetere delle formule, è diventare solidali, altrimenti tutto diventa vano e insignificante.
Il traguardo finale: la ricompensa dei cieli
C'è il terzo aspetto e anche questo deve essere richiamato, perché altrimenti non riusciamo a capire bene il messaggio di Gesù. Abitualmente viene chiamato "escatologico", che riguarda cioè il compimento, la fine. Ricordo che in greco "escata" significa "le cose ultime".
Tutto avviene nel tempo, nella successione e quindi in modo parziale e insufficiente. Tu puoi impegnarti fino a morirne, ma i poveri resteranno, l'ingiustizia, l'inadeguatezza ci saranno ancora. Non devi avere la presunzione di risolvere i problemi, devi imparare a portarli assieme ai fratelli, perché così la forza della vita ci condurrà insieme oltre. Ma un "oltre" che sarà ancora provvisorio. A tutti i livelli sarà provvisorio: nella verità, nella realizzazione della giustizia, nell'amore... in tutto. Non ci sarà mai una situazione completa, per cui ci verrà sempre chiesto di rimboccarci le maniche e di riprendere il cammino. Ci saranno sempre problemi da risolvere. Anzi, più problemi vengono risolti, più numerosi ne sorgono all'orizzonte. Perché la vita diventa più complessa.
Questa è una delle consapevolezze che oggi l'umanità sta acquisendo. Molti reagiscono dicendo: «Ma chi me lo fa fare allora? Perché devo impegnarmi, se poi tutto deve ricominciare da capo, anzi, richiede un impegno ancora maggiore? Non è meglio allora restare nella condizione attuale e rinunciare a vivere?». C'è questa tentazione sottile. Quando sono cadute le ideologie, quando la tecnica ha mostrato il suo limite, è sorta facilmente questa tentazione: «Perché allora impegnarsi?».
È necessario richiamare il traguardo finale, ricordare che c'è un compimento, una perfezione che ci attende, una forma definitiva di vita che noi non possiamo neppure immaginare, ma alla quale possiamo pervenire solo passo dopo passo, istante dopo istante, generazione dopo generazione.
È necessario avere davanti questo traguardo, altrimenti siamo tentati di fermarci, di non andare oltre. Per questo Gesù richiama il cielo, con le formule tradizionali della sua cultura. Oggi possiamo dirlo in tanti altri modi: è il traguardo dell'identità delle persone, il traguardo di un'umanità nuova. Questo ci spinge a continuare il cammino.
Chiediamo allora al Signore di essere consapevoli di questa urgenza. Non possiamo fermarci, perché, come diceva Paolo, l'amore di Dio urge, spinge per trovare modalità nuove di espressione, per suscitare nuovi figli di Dio in mezzo a noi.
Chiediamo al Signore questa consapevolezza, perché il dono di Dio non venga tradito e il messaggio di Gesù cominci ad essere vissuto in modo pieno anche da noi.