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    Santità

    come epifania di Dio

    Mt 5,1-2

     

    È molto facile interpretare la pagina evangelica delle beatitudini - il proclama centrale dell'annuncio di Gesù, il messaggio fondamentale del regno - in chiave semplicemente morale. Come se Gesù sollecitasse i suoi discepoli ad assumere l'impegno di essere misericordiosi, consolatori degli afflitti, a stare vicino a coloro che soffrono. Certo, c'è anche questo insegnamento, ma non è il dato fondamentale. Il messaggio centrale di questa pagina riguarda il rapporto con Dio. Dio non è solo il termine («vedranno Dio», «saranno chiamati figli di Dio»), dell'azione sollecitata da Gesù, ma ne è la fonte, sicché tutta la pagina del Vangelo descrive il processo della rivelazione di Dio nella storia. La formula «beati» con cui Gesù inizia ogni sua espressione indica l'azione di Dio nei confronti dei poveri, degli afflitti, ecc. e potrebbe essere tradotta: «l'azione di Dio vi perviene». Per questo la pagina delle beatitudini rivela qual è l'immagine che Gesù ha di Dio e quindi quale rapporto Gesù intrattiene con il Padre; ci introduce quindi nella sua spiritualità teologale.
    Gesù proponeva una nuova immagine di Dio: non il Dio dei potenti, il Dio dei ricchi, come abitualmente pensava la gente. Era una delle caratteristiche delle religioni antiche e anche dell'interpretazione che gli ebrei abitualmente davano. C'erano già stati, certo, i profeti che avevano introdotto un'altra immagine di Dio, ma la loro dottrina era rimasta molto marginale e non assunta dalla struttura religiosa del suo tempo. Gesù la porta al centro. L'immagine corrente era l'immagine del Dio potente, del Dio che benediceva i ricchi dato che la ricchezza, la salute, il benessere, venivano considerati come espressione della benedizione di Dio. Per cui chi soffriva, chi era emarginato o era nella povertà, veniva considerato disprezzato, maledetto, abbandonato. Altre religioni ricorrono ad altri modelli, come quello del karma, per esempio, alla convinzione, cioè che la condizione di povertà, di malattia, di emarginazione o di sofferenza dipende dal male compiuto nelle vite precedenti. Ma sempre introducono una componente trascendente, l'influsso di un'altra condizione.
    Oggi sappiamo che il male è il dato originario della nostra condizione di creature. Non per il peccato originale, ma perché siamo creature, emergenti dal vuoto iniziale, dal caos, dal disordine. Ci portiamo dietro questa componente, finché non giungiamo alla pienezza.
    La chiamata alla santità, alla perfezione piena, è la chiamata a vincere il male della nostra vita (non semplicemente il male morale, ma ogni forma di male), quale residuo del passato che non può essere perfetto, perché non siamo in grado di accogliere compiutamente il dono di Dio in un solo istante: siamo nel tempo e possiamo accogliere la vita solo nella successione, a piccoli frammenti, lungo il cammino della storia. San Giovanni ci ricorda che siamo già chiamati ad essere figli, ma cosa saremo non lo sappiamo ancora. Questa è la nostra condizione: il cammino per emergere dal male e giungere alla perfezione è ancora in corso.
    Il ricordo dei santi contiene la verifica che questa chiamata ha la possibilità di essere realizzata, di diventare risposta in noi. La molteplicità dei santi, nella varietà delle situazioni, è la garanzia che nessuna situazione ci impedisce di rispondere alla chiamata di Dio e di giungere anche noi a perfezione.
    Ma il dato fondamentale che emerge dalla pagina delle beatitudini è che la santità cristiana non è costituita da perfezione morale, dal superamento dei nostri difetti e dei nostri limiti, bensì da un dato più fondamentale: il rapporto con Dio. L'azione di Dio in noi non può esprimersi con tutte le perfezioni possibili, con tutte le ricchezze di vita morale che possiamo trovare nella molteplicità delle persone e dei santi: l'azione di Dio in noi si esprime necessariamente nel limite, ma è importante che venga colta come azione di Dio, altrimenti cadiamo nella presunzione di essere noi buoni, di fare noi il bene, di raggiungere noi la verità, di acquisire noi delle perfezioni morali... In realtà non siamo noi. La nostra condizione è di una precarietà assoluta. Tutto ci può venire meno, tutto, se non l'accogliamo continuamente. L'unica garanzia che noi abbiamo, quando viviamo la fede in Dio, è che Dio è fedele, che la vita continua ad offrirsi. Ma in noi tutto è donato.
    Questo è il dato essenziale di chi vive il rapporto con Dio, almeno nella tradizione cristiana. San Paolo ricordava: «Che cos'hai tu che non abbia ricevuto?». E che non continui a ricevere in ogni istante? La vita che eserciti, il pensiero che puoi sviluppare, l'amore che puoi manifestare... tutto, tutto è in ogni istante un dono.
    Essere santi vuol dire essere consapevoli di questa condizione ed assumere l'atteggiamento corrispondente di accoglienza. Diventiamo trasparenti a una Presenza altra da noi; che però in noi è la nostra realtà, non è altro da noi, perché diventa noi; ma diventa noi nella misura in cui l'accogliamo consapevolmente e non resistiamo al flusso di vita che in noi si esprime.
    Questo significa diventare santi: non è acquisire perfezioni morali, non è compiere miracoli, non è realizzare cose grandi: è diventare epifania di Dio. E questo richiede da un lato la consapevolezza piena che ciò che in noi si esprime è qualcosa di più grande di noi e dall'altro l'accoglienza armonica di questa presenza, la non resistenza. Ad un certo momento i doni che si accumulano in noi possono diventare impedimento ai doni successivi, possono diventare resistenza all'azione di Dio, possono diventare peccato. Anche il peccato è espressione di doni che abbiamo ricevuto e che presumiamo siano sufficienti e quindi si oppongono allo sviluppo successivo, diventano resistenza alla grazia che continua a fluire, alla vita che continua ad esserci donata.
    Non è perciò difficile giungere alla santità, occorre solo vivere nella consapevolezza del dono e nella sua accoglienza. Da questo atteggiamento fluiscono le perfezioni morali. Diventi misericordioso, se sei consapevole della misericordia di Dio che in te si esprime: il gesto di misericordia fluisce dalla consapevolezza che non sei tu ad essere misericordioso, è l'azione di Dio che in te diventa misericordia. Allora diventi capace di perdono, sei capace di portare l'aggressività degli altri senza reagire nella stessa dinamica aggressiva, sei mite, mansueto. Tutte le qualità che Gesù elenca sono la conseguenza di questa presenza vissuta consapevolmente e senza resistenze.
    Nella riflessione preparatoria è stato soprattutto sottolineato l'aspetto della giustizia, perché oggi questa esigenza viene avvertita in modo molto più ampio e più profondo che nel passato.
    La giustizia come rispetto del diritto di tutti, come distribuzione dei beni, è l'espressione della giustizia di Dio in noi, cioè della Sua azione che ci rende santi. Quindi anche le realizzazioni della giustizia sociale, della giustizia distributiva, di tutte le forme di giustizia, debbono essere l'espressione della vita teologale; altrimenti assumono forme provvisorie e ingannevoli. Certo, sempre si comincia con la volontà di realizzare la giustizia, tutte le grandi rivoluzioni sono cominciate così, ma poi appare chiaramente che qualcosa manca. E che cosa manca? L'atteggiamento di accoglienza dell'azione di Dio, la consapevolezza della condizione di creature. Manca quindi la vera fraternità, perché la fraternità universale emerge solo dalla scoperta di Dio che opera in noi. L'affermazione dell'uguaglianza di tutti gli uomini non può riguardare la superficie, perché la superficie è realmente diversa: l'uguaglianza sta nella realtà di fondo, che è l'azione di Dio che è rivolta a tutti e che attinge tutti. Con modalità diverse, data la storia, le contingenze, i limiti, tutti gli elementi precari, l'azione di Dio è la stessa in tutti e chiama tutti allo stesso destino.
    Quando scopriamo e viviamo con consapevolezza la chiamata di Dio, non possiamo vedere gli altri se non come fratelli, chiamati a percorrere lo stesso cammino per raggiungere lo stesso traguardo, guidati dalla stessa forza di vita, che in noi si esprime in un modo, negli altri diversamente; ma è la stessa azione che conduce tutti gli uomini al destino eterno.
    Ogni realizzazione di giustizia che non parta da questo presupposto è destinata a fallire, a perdersi, a diventare ingiustizia. La storia presenta numerosi casi di processi storici cominciati per realizzare la giustizia e che lungo il cammino sono sfociati in forme nuove di ingiustizia.
    Cosa ci è chiesto allora per rispondere in modo adeguato alle esigenze profonde della nostra condizione attuale, alle innumerevoli situazioni di ingiustizia nel mondo? Una consapevolezza rinnovata continuamente dell'azione di Dio che ci salva, della sua presenza che costituisce la realtà della nostra vita e una accoglienza fedele della sua azione, che si esprima in noi in gesti innovativi, audaci, di condivisione, di misericordia, di perdono, di solidarietà: tutte quelle forme che la vita inventa quando trova ambienti fedeli. Chiediamo al Signore di essere attenti alla Sua chiamata, ogni giorno, per essere in grado di percorrere tutti i cammini che dinanzi a noi si aprono, per raggiungere quel traguardo che è proposto a tutti gli uomini: diventare figli di Dio, acquisire quel nome che per noi è scritto già nei cieli.


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