La condivisione

come criterio di vita

Lc 16,19-31

 

Il messaggio di questa liturgia è molto chiaro, non sono necessarie molte parole per approfondirlo.
La prima riflessione che voglio proporvi riguarda i diversi modelli utilizzati per indicare la connessione tra la nostra esperienza storica, l'impegno di ogni giorno, e il nostro futuro trascendente o la forma definitiva di vita alla quale perveniamo con la morte.
La seconda riflessione, specifica di questa parabola, è il criterio molto concreto, che qui viene presentato come il criterio unico per fare le nostre scelte, per orientare i nostri desideri, per dare quindi un contenuto alla nostra vita: il bisogno degli altri, la sofferenza dei fratelli.

Modelli antropologici diversi

Nella concezione primitiva degli ebrei non si pensava al dopo-morte: il risultato delle azioni e delle scelte si realizzava nella storia e quindi la punizione o il premio, come loro pensavano, concretamente si esprimeva negli eventi del futuro: l'esilio o la fame, la carestia o le altre sofferenze, che consideravano punizione dei peccati. Anche nell'antifona d'ingresso c'era questo richiamo tra i peccati e le sofferenze che il popolo doveva subire.
Era un modello molto comune, rimasto a lungo nella tradizione ebraica. Alcuni hanno pensato che Auschwitz sia stato il punto di svolta per giungere ad un'altra comprensione di Dio. Il libro di Jonas «Pensare Dio dopo Auschwitz», che ha avuto un'incidenza notevole nella cultura ebraica contemporanea, si richiama precisamente a questo cambiamento nella concezione di Dio.
Ma nel Vangelo c'è un altro modello, perché il risultato dell'azione - in questo caso di Lazzaro, il povero sofferente, e di quel ricco che non viene nominato, che gozzoviglia e non si interessa degli altri - viene presentato attraverso due immagini correnti, allora, corrispondenti alla cultura del tempo: l'immagine del seno di Abramo come luogo di felicità e di pace e quella dell'inferno, espressa col richiamo alla Geenna, cioè a quella valle di Gerusalemme dove c'era un fuoco continuo per bruciare le immondizie della città. Erano simboli, immagini di un futuro che non veniva descritto, perché non si conosceva.
Oggi abbiamo un altro modello, legato a quel cambiamento profondo della cultura che il Vaticano II, nella Gaudium et Spes, al n° 5, ha descritto come il «passaggio da una concezione statica dell'ordine a una concezione più dinamica ed evolutiva». Tutti noi oggi viviamo le esperienze e interpretiamo la vita in questo orizzonte, anche se non abbiamo presenti continuamente i dati della scienza o della filosofia.
L'orizzonte statico precedente era completamente diverso. Si pensava che la realtà fosse già tutta stabilita, già tutta fissata dalla nascita - "natura" appunto deriva da "nascere" in latino e in greco, dunque sono termini che rivelano una mentalità, un modo di interpretare il mondo, secondo cui le origini fissavano la realtà. Anche per l'umanità si pensava così: che fosse stata perfetta alle origini e che poi si fosse corrotta e fosse caduta in forme di involuzione. A questo poi era collegata una concezione della materia come realtà passiva, eterna, statica, immutabile, come il sustrato negativo sul quale si svolgeva la vita e tutta la storia.
In questa prospettiva ciò che l'uomo compiva si aggiungeva alla sua realtà personale, ma era esteriore, la persona era già costituita nella sua perfezione; col suo modo di agire l'uomo mostrava la sua volontà di bene o di male, ma non "diventava". Nel dopo-morte alle sue azioni corrispondeva un premio o una condanna, che si applicava dall'esterno. Tutte le metafore e i simboli che lungo la storia hanno caratterizzato le interpretazioni del futuro dell'uomo vanno lette in questa luce.
Oggi invece l'interpretazione è completamente diversa, perché l'orizzonte culturale è evolutivo. Il che non vuol dire che l'interpretazione di oggi sia definitiva, ma è importante però rendersi conto del cambiamento avvenuto, in modo da avere una sintonia culturale nell'interpretare la nostra esistenza e quindi anche nell'interpretare le formule della tradizione che trasmettono questi messaggi. Le formule della tradizione sono legate ai modelli culturali statici e quindi non devono essere accolte tali e quali. Occorre cogliere il messaggio che è al di là dei simboli attraverso i quali viene trasmesso, altrimenti si fa una grande confusione. Se non si riesce a realizzare questa armonia, o si abbandona la pratica religiosa legata a queste formule o si vive divisi dentro in modo schizofrenico, ambivalente e non si sente quell'armonia che invece è necessaria per vivere bene, per essere nella pace, cioè per fare esperienze autentiche di umanità. Spesso si incontrano persone che, non avendo realizzato questa armonia, vivono la pratica religiosa con divisione interiore, quindi con alti e bassi, con alternanze...
Per vivere armoniosamente è necessario pensare con i modelli culturali della vita quotidiana che conduciamo. Ora la nostra vita quotidiana, qui in occidente, oggi è segnata dal modello dinamico ed evolutivo. Nell'antropologia, cioè nell'interpretazione dell'uomo, il modello dinamico concepisce la persona in divenire, o in processo. L'uomo diventa persona, diventa figlio di Dio. Nella tradizione cristiana, legata alla fissità della natura, si interpretava questo divenire come «sopra-natura», cioè aggiunto alla natura. Invece nella prospettiva evolutiva e dinamica il "di più" non è aggiunto dall'esterno, non è sopra-aggiunto, cioè sopra- naturale, ma emergente dal di dentro, dallo sviluppo, dalla tensione profonda che portiamo dentro. In termini teologici, si può dire che la forza creatrice di Dio, quell'energia che ci investe e ci alimenta come creature, giunge ad esprimersi con modalità costantemente più ricche, secondo la complessità della struttura che noi raggiungiamo. Quindi man mano che la vita, sempre in virtù della forza creatrice, riesce a strutturarsi in un modo più complesso, la qualità di vita che può esprimersi è più ricca, più profonda, più ampia. Quindi esprimiamo nuove caratteristiche di vita.
Questo avviene nello sviluppo della singola persona, ma anche nello sviluppo dell'umanità. Nella singola persona l'energia che nella prima fase si esprime concretamente nel corpo, pian piano acquista qualità nuove, diventa consapevolezza, diventa libertà; e poi giunge a forme ancora superiori, come la vita spirituale, che ha caratteristiche diverse dalla vita psichica (e quindi dalla consapevolezza e dalla libertà) e raggiunge forme che possono acquisire carattere definitivo. Cosa vorrà dire per noi, non lo possiamo immaginare ancora, perché siamo in questa fase, però dobbiamo renderci conto che la tensione che avvertiamo va oltre la nostra condizione. Ma questo sviluppo avviene a condizione che noi assumiamo determinati atteggiamenti. Ed è qui la connessione che esiste tra ciò che noi facciamo e ciò che noi diventiamo. A differenza del modello antico, nella prospettiva dinamica noi diventiamo ciò che pensiamo, ciò che desideriamo, ciò che fantastichiamo, ciò che facciamo. Ogni nostro pensiero, ogni nostro stato d'animo, è l'ambito dove la forza della vita in noi prende forma e quindi identifica la nostra realtà. Non è un qualcosa di esteriore e di aggiunto.
Per questo il recupero del passato non ha semplicemente un carattere morale e giuridico. Nella prospettiva dinamica ed evolutiva il recupero del passato ha una dimensione molto più coinvolgente e profonda, perché siamo chiamati a diventare ciò che ieri abbiamo rifiutato di essere. Per questo la riconciliazione acquista un'importanza straordinaria, sia a livello personale che a livello storico; chiedere perdono del passato implica compiere gesti positivi, corrispondenti a quelli negativi che altri hanno realizzato nel passato. I gesti negativi del passato hanno prodotto vuoto, hanno introdotto dinamiche che ancora continuano nella storia e nella nostra vita e debbono essere annullate. Diventiamo appunto ciò che facciamo.
Di qui la responsabilità che abbiamo nei confronti del nostro futuro: del futuro dell'umanità e della vita sulla terra. Possiamo oggi distruggere tutto quello che la forza creatrice ha realizzato in molti miliardi di anni. Ma più grave ancora è il fatto che possiamo distruggere la nostra realtà, cioè possiamo non consentire alla vita di pervenire in noi alla forma definitiva.
Questa è la connessione che Gesù indica nella parabola, richiamando il seno di Abramo e l'inferno come ambiti del futuro umano. Essi sono simboli che oggi riusciamo a capire in un modo molto più profondo e più ricco.

La condivisione è criterio di vita

Resta da esaminare l'altro aspetto del messaggio del Vangelo di oggi: qual è il criterio delle azioni? Noi tante volte crediamo di fare il bene, anzi pensiamo di fare delle scelte positive, poi invece ci accorgiamo che abbiamo sbagliato tutto. Avere dei criteri per fare delle scelte è fondamentale. Gesù qui indica un criterio molto semplice nei bisogni e nelle sofferenze altrui. Ci sono molti altri brani del Vangelo che richiamano questo principio: il bisogno degli altri come criterio per il valore delle nostre scelte. La vita tende a diffondersi: i beni non sono per noi, sono in funzione della vita, perché essa in noi possa assumere una forma nuova. Ma potrà assumere una forma nuova se chi vive segue la legge fondamentale della comunicazione. Potremmo dire che in noi la vita giunge ad espressioni trascendenti quando riesce a comunicarsi, a fluire. La legge quindi della condivisione è fondamentale per lo sviluppo della nostra persona, per assumere il nome scritto nei cieli, per acquisire appunto la nostra identità di figli di Dio. Tutto questo non vale solo a livello personale - cosa abbastanza comprensibile - ma anche a livello di popoli. Il grido dei popoli della fame deve trovare ascolto. Quanti Lazzari alle soglie delle nostre case e ai confini delle nostre terre (terre che oggi godono di un benessere propiziato dalla fatica, dal lavoro, dall'impegno delle generazioni che ci hanno preceduto) attendono le nostre ricchezze. È insensato pensare che esse siano per noi, sia perché altri ce le hanno preparate, sia perché per le generazioni future lo sviluppo sarà possibile se noi le gestiamo in un modo oculato sia in ordine al benessere vero dell'umanità, sia in rapporto ai poveri di oggi, ai popoli della fame, a quelli che muoiono per mancanza del minimo necessario.
Noi molte volte preferiamo non conoscere le sofferenze e i drammi degli altri popoli, perché ci rendiamo conto che coinvolgerci in queste avventure richiederebbe prendere sul serio la responsabilità della vita. Molte forme di solidarietà internazionale stanno crescendo, ma in molti c'è anche la tendenza a rinchiudersi nel proprio benessere, a sbarrare i confini. Mentre la condizione perché tutto quello che abbiamo diventi ragione di vita per noi è che impariamo a condividerlo. Chiediamo allora al Signore questa consapevolezza: noi siamo in divenire e diventiamo attraverso ciò che pensiamo, che desideriamo, che operiamo; i gesti di ogni giorno sono le piccole tessere della nostra identità. E, secondo, chiediamo la consapevolezza che le ricchezze non sono per il nostro benessere sulla terra, non sono per continuare il cammino finché possiamo, ma per diventare figli. E diventiamo figli quando scopriamo Dio, l'unico Dio di tutti gli uomini, e scopriamo perciò la moltitudine di fratelli che grida verso di noi.