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    L'eredità pastorale del Vaticano II /7

    Una nuova visione

    cristologica

    Luis A Gallo


    L
    e ricerche bibliche degli ultimi decenni, insieme ai profondi cambiamenti culturali avvenuti nell’umanità, hanno portato a modificare profondamente l’approccio di molti cristiani alla figura di Gesù Cristo. Pur restando inalterata la sua sostanza, il modo in cui essa viene oggi percepita non è certamente quello di altri tempi. Il Vaticano II, chiamato da papa Giovanni XXIII ad effettuare un «aggiornamento» della fede, non restò insensibile a tale cambiamento; anzi, ne raccolse i principali risultati e li fece suoi.

    Una cristologia plurisecolare

    La fede in Gesù Cristo, nata dall’incontro con lui durante la sua vicenda storica e maturata poi nell’esperienza pasquale, andò successivamente soggetta a diverse ricomprensioni. Era naturale che ciò avvenisse, data la condizione culturale e storica dei credenti in lui.
    Gli stessi vangeli ne sono una dimostrazione palese. In ognuno di essi, infatti, l’unico Gesù Cristo è presentato con sfumature e caratteristiche peculiari che divergono tra di loro pur convergendo su ciò che è sostanziale. Altrettanto si può dire degli altri scritti neotestamentari. Basti accennare, a modo di esempio, alla profonda innovazione operata dalla Lettera agli Ebrei nei confronti dei vangeli, per il fatto di raffigurare Gesù Cristo come sommo sacerdote della nuova alleanza (Eb 5-7, specialmente 7,13-14).
    Questo processo di ricomprensione si prolungò nel tempo. Quando il cristianesimo, fedele alla sua vocazione universale, entrò nel mondo greco-romano, si calò profondamente nella cultura ellenistica in esso ampiamente diffusa. Lo fece, come è ovvio, con quell’atteggiamento critico che gli permise di discernere in esso ciò che non era compatibile con la sua fede, e di eliminarne l’assimilazione.
    Non tutti, però, ebbero allora l’accortezza di non lasciarsi soggiogare da quella cultura ma di piegarla, sempre nel rispetto delle sue istanze di fondo, al messaggio cristiano. Fu il caso degli eretici, i quali stravolsero la fede asservendola alla cultura. Davanti alle loro deviazioni la Chiesa sentì il bisogno di prendere ufficialmente posizione, principalmente nell’ambito della cristologia. Una serie di concili ecumenici (Nicea, Efeso, Calcedonia) impegnarono pastori e teologi nello sforzo di dire la fede cristologica di sempre in maniera adeguata alla situazione socio-storica in cui si erano venuti a trovare, scansando i rischi della sua distorsione.
    Tali concili, infatti, tradussero la fede in Gesù Cristo per quel contesto storico-culturale in cui si muovevano. E lo fecero magistralmente, superando non poche difficoltà di diversa indole. Anche d’indole linguistica. Ma quel contesto storico-culturale non è più quello degli uomini e delle donne d’oggi. Questi si muovono in altra «lunghezza d’onda», e hanno il diritto di ascoltare l’annuncio di Gesù Cristo in essa.

    Due approcci diversi alla figura di Gesù Cristo

    Come in tanti altri aspetti, anche in questo, così fondamentale per la fede, il Concilio Vaticano II cercò di seguire l’indicazione datagli da papa Giovanni XXIII che l’aveva convocato: dire la fede di sempre in modo che rispondesse alle esigenze del tempo presente.
    Il documento conciliare in cui ciò appare con maggior chiarezza è la Costituzione Gaudium et Spes. E non tanto né principalmente per ciò che in essa si dice di Gesù Cristo, quanto per la metodologia utilizzata nel dirlo. Essa ricalca il cammino seguito da non pochi teologi negli ultimi decenni, che si distacca nettamente da quello percorso durante secoli dai loro predecessori. La riflessione cristologia classica, erede dei grandi concili ecumenici dell’antichità, procedeva per via di deduzione, traendo cioè conclusioni logiche dalle premesse poste dalle definizioni dogmatiche in essi elaborate. In fondo, si ispirava alla densa frase giovannea che aveva presieduto le loro ricerche: «Il Verbo si fece carne» (Gv 1,14). I teologi attuali preferiscono invece in genere procedere partendo, dietro le orme dei vangeli sinottici, dall’uomo Gesù di Nazaret fino ad evidenziare la sua identità ultima, quale appare al momento della sua risurrezione.
    Qualcuno ha chiamato questi due approcci metodologici «cristologia dall’alto» e «cristologia dal basso». Tale terminologia potrebbe essere oggetto di discussione; ciò che invece risulta indubitabile è la diversità profonda che esiste fra di essi nell’accostare la figura di Gesù Cristo. Tra l’altro, e come conseguenza della prospettiva assunta, la riflessione di buona parte dei teologi attuali tende a sottolineare il suo essere «dalla parte dell’uomo», pur senza negare, come è ovvio, il suo essere «dalla parte di Dio». Gesù Cristo appare così nelle loro riflessioni come il modello di umanità pienamente realizzata, colui che per primo ha vissuto in pienezza la vocazione di ogni uomo secondo il piano di Dio. È questo precisamente il cammino che scelse di percorrere la Gaudium et Spes nell’esporre, nella sua prima parte, gli elementi di illuminazione che la fede apporta al dialogo per trovare risposta alle grandi domande che si pone, in maniera nuova, l’umanità attuale: cos’è l’uomo? quale è il senso della sua vita sociale? come orientare la sua attività nel mondo, oggi così profondamente mutata dal progresso scientifico tecnico?

    Gesù Cristo, uno di noi

    Davanti alla prima delle domande enunciate, dopo aver esplorato le diverse componenti naturali ed esistenziali della persona umana (nn.12-21), la Costituzione tratteggia la figura del nuovo Adamo, ossia dell’Uomo nuovo, Gesù Cristo, che «rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo all'uomo, e gli fa nota la sua altissima vocazione» (GS 22). E di questo Uomo nuovo mette in evidenza la sua totale condivisione della condizione umana. Egli, dice in maniera molto bella il testo, «ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato» (ivi).
    Queste affermazioni sono senz’altro simili a quella solenne con cui il Concilio di Calcedonia definì, almeno in uno dei suoi aspetti fondamentali, l’identità di Gesù Cristo: «Egli è perfetto nell’umanità», e cioè, «compiutamente uomo». Ma sono dotate di uno spessore e di una concretezza incomparabilmente maggiore. La serie di verbi elencati nel testo – lavorare, pensare, agire, amare –, insieme all’accenno alla componente umana interessata da essi – mani, mente, volontà, cuore –, contribuiscono, infatti, ad effettuare il passaggio da quell’impostazione essenzialista e astorica tipica della cultura ellenistica in cui si esprimeva Calcedonia, all’impostazione esistenziale e storica della cultura contemporanea. Già la frase «si è fatto veramente uno di noi», con cui in qualche modo si sintetizza tutto, denota un profondo cambiamento nei confronti del generico «si è fatto veramente uomo» o «ha assunto una vera natura umana», presenti nelle riflessioni del passato.
    Gesù Cristo, quindi, viene visto dalla Costituzione come colui che, avendo vissuto tutto ciò che vive ogni uomo, rivela il mistero dell’uomo all’uomo stesso. Implicitamente essa insinua che chi vuole pertanto trovare la propria realizzazione umana, ha in lui la strada attraverso la quale può arrivarci. Basta guardare ciò che lui ha vissuto e come l’ha vissuto, per avere davanti agli occhi il modello a cui ispirarsi. Naturalmente, per conoscerlo nella sua realtà occorre rifarsi ai vangeli, nei quali viene delineata non l’immagine di un eroe mitico, irraggiungibile perché al di sopra di ogni limitazione umana, ma quella di un uomo concreto che, appassionato per la causa del regno di Dio (Mc 1,14-15), mette al suo servizio tutto ciò che è, e tutto ciò che dice e fa, e che muore per fedeltà ad essa. Un uomo del quale la fede, grazie soprattutto all’esperienza pasquale, scopre l’ultima identità di Figlio di Dio e di Messia salvatore che, oltre a rivelare il mistero dell’uomo all’uomo stesso, gli rivela anche il mistero del Padre e del suo amore (GS 22).

    Gesù Cristo, partecipe della convivenza umana

    Davanti alla domanda sul senso della convivenza umana, la Gaudium et Spes, portando a compimento la sua esposizione sui diversi risvolti della medesima (nn. 23-31), presenta la figura di Gesù Cristo tenendo presente la accentuata sensibilità sociale della cultura odierna.
    Lo delinea, infatti, non come un solitario, né come uno a cui sfugge l’essenziale relazionalità dell’essere umano, ma viceversa come uno che di tale relazionalità ha una chiara consapevolezza.
    A questo scopo raccoglie dai vangeli alcuni dei dati più significativi: la sua presenza alle nozze di Cana, il suo ingresso nella casa di Zaccheo, i suoi pasti con i pubblicani e i peccatori, il suo costante riferimento agli aspetti più ordinari della vita sociale, l’uso del linguaggio e delle immagini della vita d'ogni giorno.
    Ricorda ancora che egli santificò le relazioni umane, innanzitutto quelle familiari, dalle quali traggono origine i rapporti sociali, che si sottomise volontariamente alle leggi della sua patria, e che volle condurre la vita di un lavoratore del suo tempo e della sua regione (GS 32).
    Richiama alla memoria inoltre che egli propose insistentemente l’ideale della fraternità tra tutti gli uomini, che per questo ideale sacrificò anche la propria vita, coerente con le parole da lui stesso pronunciate nell’ultima cena: «Nessuno ha maggior amore di chi sacrifica la propria vita per i suoi amici» (Gv 15, 13), e che, una volta risorto, inviò anche gli apostoli ad annunciare il messaggio evangelico a tutte le genti, perché il genere umano diventasse la famiglia di Dio (GS 32).
    Si potrebbe dire, in poche parole, che la Costituzione, seguendo S. Paolo che nella Lettera ai Romani chiama Gesù Cristo il «Primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29), lo presenta come il Fratello universale che, proprio perché cerca appassionatamente la venuta nel mondo del regno di Dio, suo Padre, vuole che l’umanità intera instauri dei rapporti vivificanti a tutti i livelli. Egli, infatti, come si legge nei vangeli, durante la sua attività terrena si diede costantemente da fare perché ciò avvenisse tra le persone e i gruppi del suo tempo, smascherando i rapporti generatori di infelicità e di morte, e propugnando costantemente la loro sostituzione con altri che fossero generatori di felicità e di vita.
    Il modo in cui prese posizione davanti ai conflitti esistenti tra giusti e peccatori, tra ricchi e poveri, e tra uomini e donne, ne è una chiara conferma. Una cosa egli ribadì effettivamente con insistenza: «Voi siete tutti fratelli» (Mt 23,8).

    Gesù Cristo, luce e forza dell’agire umano

    Infine, davanti alla domanda sul senso dell’attività dell’uomo nel mondo, la risposta della Gaudium et Spes segue la stessa dinamica che analizza prima con fina attenzione i suoi diversi risvolti (nn. 33-37), e sfocia poi nel riferimento a Gesù Cristo, il quale «insegna che la legge fondamentale della umana perfezione, e perciò anche della trasformazione del mondo, è il nuovo comandamento della carità» (GS 38).
    Gesù Cristo, quindi, è secondo la Costituzione colui che illumina ultimamente la strada attraverso la quale l’ingente attività dell’uomo d’oggi, profondamente segnata da tante innovazioni, può arrivare a felice compimento. Egli ne svela il segreto: è quell’amore che nei testi neotestamentari viene chiamato «agape», ossia ricerca non solo del proprio interesse ma, come afferma S. Paolo, «dell’interesse di tutti» (Fl 2,4).
    Solo se è guidata da tale amore l’attività umana, tanto quella che si svolge nel micromondo delle circostanze ordinarie della vita, quanto quella che si dispiega nel macromondo dei rapporti a lungo raggio, può condurre a un maggior benessere reale dell’umanità stessa.
    In questo senso egli ripete oggi, ma in un senso che è in parte nuovo, la solenne dichiarazione raccolta dal vangelo di Giovanni: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12).
    Ma, sempre secondo la Costituzione, Gesù Cristo non è solo luce; è anche forza. Lo è nel senso che, costituito Signore mediante la sua risurrezione, egli, il Cristo cui è stato dato ogni potere in cielo e in terra, continua ad operare nel cuore degli uomini con la forza del suo Spirito, «non solo suscitando il desiderio del mondo futuro, ma per ciò stesso anche ispirando, purificando e fortificando quei generosi sforzi con i quali la famiglia degli uomini cerca di rendere più umana la propria vita e di sottomettere a questo fine tutta la terra» (GS 38).
    Egli ha quindi a che vedere con ogni sforzo di umanizzazione fatto da chiunque s’impegni in quella direzione nel mondo. In questo senso, egli scavalca ogni frontiera e diffonde la sua energia di risorto nel mondo. Mediante lo Spirito di Dio, presente in pienezza in lui tramite la risurrezione (Rm 1,4), ispira, purifica e fortifica tale impegno portandolo, anche se chi lo fa non ne è consapevole, verso la realizzazione di quel regno di Dio che egli cercò con intensità durante la sua vicenda storica.
    Così, praticando un approccio alla figura di Gesù Cristo come risposta alle grosse domande che si pone l’uomo d’oggi, il Vaticano II riuscì ad offrire una prospettiva allo stesso tempo rispettosa della sostanza della fede e profondamente innovativa.


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