Da un'intervista a Giancarlo Milanesi
Rita Laghi
(NPG 1995-02-110)
Domanda. Quali sono i criteri più comuni per cui un ragazzo viene definito «a rischio» e su quali elementi si basano tali criteri?
Risposta. In generale la parola «rischio» definisce una situazione in cui viene impedita, frustrata o negata la piena realizzazione della persona. In altri termini ciò significa che il ragazzo trova difficoltà ad acquisire una propria identità personale e trova impedimenti gravi ad integrarsi pienamente nel proprio contesto di vita, cioè a diventare cittadino attivo. Mi sembra un po' semplicistico e fuorviante parlare di rischio in termini generici come se si trattasse di una realtà unica e omogenea. In una ricerca da me condotta a Brescia, alcuni anni fa, avevo distinto tra rischio fisico, rischio psichico, relazionale, educativo, culturale, sociale. Secondo i casi, i ragazzi a rischio accentuano l'uno o l'altro, oppure cumulano più tipi di rischio, conseguenti le situazioni concrete in cui sono vissuti.
D. Chi «devia» da che cosa devia?
R. La «devianza» è un concetto relativo perché è legato a un concetto di norma. La norma - a sua volta - è il risultato di un'azione sociale, cioè è definita complessivamente da coloro che formano in qualche modo la maggioranza che detiene il potere in una determinata società: potere morale, culturale, sociale o politico. Per cui si devia da una norma che in quel momento ottiene un consenso e perciò viene legittimata. Ciò non significa che quella norma sia, sul piano morale, un valore in assoluto. Qualora il consenso venga meno, la norma cambia e non si è più «devianti»; chi era «deviante» prima, diventa «normale» e viceversa.
D. Ci sono delle devianze «assolute», cioè che infrangono delle norme non solamente sociali?
R. È molto difficile rispondere. Per chi non accetta una definizione di norma che sia fondata su una morale assoluta, questo problema è praticamente inaffrontabile. Per chi invece crede che ci siano delle norme che hanno un valore trascendente il consenso sociale, allora esistono delle devianze che sono molto più preoccupanti perché rappresentano non solo un'infrazione alla norma sociale ma anche a quella morale. Questa distinzione viene fatta raramente perché gli studiosi sociali del nostro tempo sono allergici alle norme morali fondamento assoluto. È un discorso molto difficile perché inciampa nel concetto di relatività della norma che, a sua volta, definisce la relatività della devianza.
D. C'è correlazione tra l'estrazione sociale e la devianza?
R. In generale c'è correlazione tra certe devianze e certe estrazioni sociali o certe appartenenze sociali, ma questo non vuol dire che la devianza è necessariamente più frequente in determinate classi sociali: ogni classe sociale ha le sue devianze. Purtroppo, nella nostra società la devianza delle classi sociali marginali è messa più in risalto delle devianze delle classi sociali al potere. Fortunatamente ci sono le eccezioni: tangentopoli è un esempio e dimostra anche concretamente che ci sono delle devianze tipiche - non secondarie - nei ceti più alti, di chi è al potere. Fino a qualche tempo fa erano state mascherate sbandierando le devianze altrui, ma ora sono venute a galla. È certo che una persona «marginale» ha minori possibilità di nascondere la propria devianza, mentre chi appartiene all'area del potere, del sistema, la può smascherare, arrivando a neutralizzarla o addirittura legittimarla.
D. Il rifiuto dell'omologazione, il non accettare modelli standard di comportamento, è sempre negativo?
R. Non è negativo quando si devia da norme che, in un giudizio finale, sono controproducenti rispetto alla piena realizzazione dell'uomo. Non sempre ciò che è legittimato dal consenso sociale è buono; ci possono essere delle legittimazioni collettive che sono degli stravolgimenti dei valori, per cui il deviare rispetto a certe norme non solo è un fatto idealmente buono ma è da incentivare. Uno dei fini da raggiungere per un'educazione consapevole e matura è educare alla devianza. Esattamente al contrario di ciò che comunemente si sostiene.
Oggi si educa per fare in modo che i giovani si adattino, si istruiscano, si rendano partecipi, ma la partecipazione è intesa in senso passivo. Io penso che ci sono delle devianze obbligatorie, delle educazioni alla devianza che una persona di coscienza deve per forza avere se vuole essere coerente. Analizzando la cultura prevalente della nostra società, saltano subito all'occhio certe normalità date come buone, che invece sono deleterie per la crescita della persona: il consumismo eretto a sistema, l'arrivismo, il carrierismo, un certo materialismo diffuso nel comportamento quotidiano. Ci sono molti «valori» dei quali la gran parte della gente non avverte la distruttività, perciò sono dati per scontati come oggetto di educazione. Invece andrebbero messi in evidenza con più forza e diventare oggetto di una devianza consapevole.
Quindi non ogni devianza è positiva, ma ci sono delle devianze che contengono un progetto di valori alternativi che sono altamente positivi. I cambiamenti sociali forti, le rivoluzioni, le fanno i devianti dotati di progetti alternativi che hanno una pretesa di migliore umanità rispetto a quello che è lo standard corrente. Senza questo non c'è mutamento, c'è solo omologazione.
D. In che cosa dovrebbe consistere la prevenzione per essere veramente tale?
R. Il concetto e la prassi di prevenzione sono molto complessi. Si fa prevenzione a diversi livelli, con diversi strumenti e in diversi contesti. Per me la prevenzione è un fatto principalmente educativo, ma non solo. Si previene per educare e si educa prevenendo, ma non basta. La prevenzione ha anche dei risvolti di carattere culturale. Si previene mutando i valori negativi che esistono in qualsiasi contesto ambientale con una forte azione di incidenza culturale. Si previene facendo delle buone politiche sociali: politica dell'educazione, della cultura, della famiglia, dell'ambiente, del lavoro. Questi sono fatti preventivi radicali perché se si attuano le condizioni per cui la qualità della vita sia migliore, il rischio sarà minore.
Una buona prevenzione è tale solo se riesce ad incidere sulle cause e non solamente sui sintomi. Sembra una cosa ovvia, ma non sempre si ricorda... La prima prevenzione non è quella della devianza ma è quella del rischio. Una efficace prevenzione deve essere sistemica; non si previene se non si mette in atto un progetto dove vengono utilizzate tutte le agenzie capaci di fare qualcosa a vari livelli: educativo, culturale, politico, sanitario. Se immaginiamo la prevenzione come un fatto puramente negativo e difensivo o come un evitare una situazione difficile, emergono molti limiti; se invece la presentiamo come un anticipare i ritmi dello sviluppo e della crescita offrendo delle possibilità positive, allora prevenire significa anche qualcosa di molto più creativo e stimolante.
D. Non è raro sentire, anche da parte di educatori, affermazioni tipo: «In questa società corrotta, senza modelli validi che cosa posso proporre ai ragazzi?». A suo parere questa sfiducia è giustificata?
R. Il compito degli educatori è quello di far vedere che nell'ambito di questa società - che ha dei segni molto negativi e delle dimensioni problematiche - ci sono anche dei riferimenti positivi. Io non credo che il riferimento ultimo per l'educazione sia la società. Il riferimento ultimo per l'educazione è la persona. Il rapporto educativo 'è tra persone. Occorre perciò costruire dei rapporti educativi dove l'educatore possa assumere per sé e offrire - lì dove ci sono - degli esempi concreti di credibilità, di positività a cui riferirsi per costruire un'alternativa. Se rimaniamo nell'ambito di un discorso riguardante la società, non ne usciamo più. Nella società c'è di tutto e il riferimento generico ad essa porta solo confusione e contraddizioni.
(da Sempre, maggio 1993)